L’avventura spirituale e umana di san J.H. Newman

Introduzione

Il 12 maggio 1879, giorno della sua elevazione alla porpora cardinalizia, Newman tiene a Roma un breve discorso di ringraziamento (biglietto speech) in cui, tra l’altro, scrive: «Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa, e, solo per misericordia divina, un certo successo»[1].

Ecco i lineamenti essenziali di questa grande figura di credente, di pastore e di intellettuale che ha segnato profondamente l’epoca vittoriana ma soprattutto la chiesa anglicana prima e cattolica poi del suo tempo. Il suo pensiero e il suo stile di vita ha influenzato e interessato intere generazioni di credenti, di scrittori, di filosofi e teologi[2], sia durante la sua lunga esistenza sia dopo la sua morte, avvenuta l’undici agosto del 1890, nell’Oratorio di Edgbaston presso Birmingham.

Di fronte alla luce della Verità eterna, scrive ancora di sé Newman: «Percepisco con vivezza le conseguenze di certi principi riconosciuti, possiedo una notevole capacità intellettuale di delinearli, la sensibilità per ammirarli, ed il talento retorico ed istrionico per rappresentarli […]. Credo di avere un po’ di fede e questo è tutto; per quanto riguarda i miei peccati, ho bisogno di non poca fede per oppormi ad essi guadagnandomi il perdono»[3]. Questo spicchio di concreta umanità serena e pacificata dopo non poche tempeste attraversate a causa dei suoi stessi limiti creaturali, ma soprattutto della miopia invidiosa e retriva di uomini di chiesa anglicana prima e cattolica dopo, predicano qualcosa della sua santità di vita.

D’altronde Newman viene ricordato dai suoi contemporanei[4] quale uomo di grande fascino espresso nell’accattivante oratoria di predicatore dal pulpito anglicano prima e cattolico dopo, dalla cattedra universitaria di Oxford, e da quella di rettore dell’istituenda università cattolica di Dublino. Sempre obbediente all’autorità apostolica della Chiesa è stato strenuo difensore della libertà di coscienza in nome di una fede aperta incondizionatamente alla verità.

Parlando ai giornalisti sull’aereo che lo portava a Edimburgo per la beatificazione di Newman, Benedetto XVI ha sintetizzato in poche battute il profilo del santo cardinale: «Newman è soprattutto un uomo moderno che ha vissuto tutto il problema della modernità, che ha vissuto anche l’agnosticismo, il problema dell’impossibilità di conoscere Dio, di credere. Un uomo che è stato tutta la sua vita in cammino, per lasciarsi trasformare dalla verità in una ricerca di grande sincerità e di grande disponibilità di conoscere e di trovare e di accettare la strada che dà la vera vita»[5].

In realtà: «Il dramma interiore che segnò la sua lunga vita ruotò intorno alla questione della santità e unione con Cristo. Il suo desiderio più ardente era di conoscere e fare la volontà di Dio»[6]. Così Giovanni Paolo II compendiava l’esistenza di Newman che nei suoi quaderni autobiografici annota di essere venuto alla luce 21 febbraio 1801 nella città di Londra in Old Broad street e battezzato nella chiesa di St. Bennet Fink il 9 aprile dello stesso anno[7].

Paragonata per la notevole portata letteraria, psicologica e spirituale, alle Confessioni di sant’Agostino, l’Apologia pro vita sua , scritta nel 1864 in poco più di 3 mesi per difendersi dall’accusa di aver disprezzato la virtù della verità[8], è la porta d’accesso per comprendere la grandezza di quest’uomo, la cui esistenza è segnata da due “conversioni – passaggi” memorabilmente narrati in questa sua opera. «I convertiti vengono non per perdere ciò che già possedevano, ma per acquistare ciò che non possedevano»[9]. L’uomo nella sua struttura intima è desiderio e ricerca. Ma s. Agostino annota nel commento a Giovanni: «Cerchiamo (Dio) per trovarlo, e cerchiamolo ancora dopo averlo trovato. Per trovarlo bisogna cercarlo, perché è nascosto; e dopo averlo trovato, dobbiamo cercarlo ancora, perché è immenso (ut inventus quaeratur, immensus est[10].  La ricerca costante di Dio, Verità incarnata in Gesù, ha senz’altro segnato da cima a fondo e orientato infallibilmente il pellegrinaggio terreno di san John Henry Newman.

L’Apologia è, in tal senso, la narrazione di una ricerca e nello stesso tempo la testimonianza alta della bellezza del cristianesimo, l’esposizione di un’esistenza unificata e pacificata, inconsciamente invocata e inseguita oggi dallo spirito umano occidentale, frammentato e “liquido”, che fatica a trovare ragioni di senso per la vita.

Chiamato a rendere criticamente ragione della sua speranza, Newman ha sapientemente posto a tema quella relazione coerentemente e dialetticamente unitiva tra fede e vita, cultura e fede, fede e impegno nel mondo, ragione e fede, propria della rivelazione e dell’esperienza cristiana. Su questa via esperienziale nell’attuale contesto post-moderno che ricusa gli argomenti razionali, Newman avrebbe molto da dirci sulla dimensione affettiva e immaginativa della fede più vicina all’attuale sensibilità e struttura antropologica del nostro tempo.

L’unità della vita e dell’opera

La biografia di Newman assume un interesse ecclesiale particolare poiché ci troviamo di fronte ad un uomo che ha saputo coniugare santità di vita con una rigorosa riflessione teologica a servizio di quella medesima fede da lui stesso coerentemente praticata e posta a servizio dei semplici.

Sin dalla più tenera età fu educato dalla più tenera età Newman, bramoso di sapere, fu educato, come egli stesso ci narra nell’Apologia, «a trarre molto piacere nella lettura della Bibbia»[11]. La continua frequentazione della Scrittura, meditata e studiata per tutta la sua vita, inciderà profondamente nella sua persona, animando la sua intelligenza intellettuale e morale ma, soprattutto, infondendogli una vivida percezione della Provvidenza che lo sosterrà nei momenti più travagliati della sua esistenza. La sua prima formazione religiosa può essere definita medio protestante, un anglicanesimo fedele alle tradizioni della Bibbia nella versione del re Giacomo I e al Prayer Book, libro ufficiale delle liturgie sacramentali e delle preghiere. All’età di 16 anni Newman vive il suo primo passaggio da una visione religiosa teista al Dio personale che abita l’esistenza degli uomini. Si tratta di una conversione di stampo evangelical, declinata sinteticamente nell’adagio, God and myself, che caratterizzerà la sua spiritualità segnata da una certa riservatezza.

Negli anni della sua giovanile formazione, dopo aver assunto criticamente sia la tradizione filosofica dell’empirismo inglese insieme al razionalismo teologico  sia il sentire religioso dell’evangelicalismo, decisivo si è rivelato l’incontro con i Padri della Chiesa che in qualche misura hanno radicato in lui due principi guida, mutuati da T. Scott, che come vie primarie (first principles) fin dalla giovinezza hanno orientato la sua esistenza e ispirato il suo pensiero: “la santità piuttosto che la pace” e “la crescita è la sola espressione di vita”[12].

Lo studio sistematico dei Padri[13], infatti, mentre lo aveva radicato in un’esperienza di fede personale ed ecclesiale più profonda, lo avevano aperto ad una visione storica più attenta della sua amata Chiesa anglicana, ma di cui sentiva l’urgenza di “una seconda riforma”[14] che trovasse ispirazione e linfa nella Chiesa indivisa dei primi secoli. Da qui nel 1833 l’avvio insieme ad altri amici dell’Oxford Movement. In questi anni di febbrili studi e di intensa ricerca per offrire alla sua amata chiesa anglicana, un’ossatura teologica all’altezza delle altre Chiese cristiane, Newman era convinto di poter dimostrare che la Chiesa anglicana, nella continuità della successione apostolica, non presentava né gli errori dottrinali dei protestanti né le corruzioni e gli abusi della Chiesa di Roma. Sono anni di intensa attività pastorale (Parochial and Plain Sermons) e intellettuale con una serie di conferenze su questioni di ecclesiologia, di teologia della grazia (Conferenze sulla dottrina della giustificazione), del rapporto tra fede e ragione (Quindici sermoni universitari) opera che trova il compimento nella “Grammatica dell’assenso”.

Vivere è “rinnovarsi – convertirsi – crescere”

Significativo in questo periodo è The Prophetical Office of the Curch (1837)[15], contributo che Newman ritiene decisivo per la rifondazione della teologia anglicana. In questo lavoro, il professore di Oxford individua il principio vitale della Chiesa nella “Tradizione profetica”, mentre nella “Tradizione episcopale” riconosce il compito istituzionale di autenticazione della prima. Queste due Tradizioni Newman le individua presenti nell’anglo cattolicesimo che ha equilibrato il principio protestante della “Sola Scrittura” con l’apporto dell’Antichità, pur riconoscendo che il cattolicesimo romano ha dimostrato che il Credo può essere provato mediante la Scrittura. La Via Media anglicana sembrava così possedere una propria fisionomia teologico-liturgica cattolica, ma non romana.

Tuttavia le successive ricerche sull’apostolicità e cattolicità della Chiesa polverizzano la sua teoria della Via Media[16] L’onestà intellettuale e morale di Newman lo spingono a rinunciare all’insegnamento ritirandosi nella sua casa di Littlemore, a sud di Oxford. Qui, tra il 1841 e il 1845 nella preghiera e nello studio inizia a tirare le fila di una riflessione che lo accompagna esistenzialmente e intellettualmente da tempo. Sono gli anni in cui. elaborando il principio dello sviluppo autentico della dottrina credente mediante sette criteri per distinguere la crescita della fede cristiana dalle sue possibili corruzioni, Newman individua nella Chiesa romana la legittima depositaria dell’insegnamento neotestamentario.

Nei dogmi dei primi secoli, già affrontati in “Gli Ariani del IV sec.” (1832), egli aveva identificato gli indizi chiari di uno sviluppo interno nell’organismo vivente della Chiesa di Cristo. Lo sviluppo della dottrina tipico dei primi secoli e della chiesa cattolica in specie, non rinnega la rivelazione, ma ne mostra la sua perenne fecondità e attualità nell’incontro con il mondo, tra preservazione del modello (preservation of the type è la forma dell’Idea cristiana)  e continuità dei principi

Trasmettere l’interezza salvifica del Vangelo nella sua forma di lex orandi e lex credendi propria della tradizione della Chiesa, necessitava pur sempre di una nuova articolazione concettuale di fede, così come contro il razionalismo ariano avevano fatto Atanasio e i Cappadoci[17]. In questa direzione si era mossa la chiesa di Roma. E in questa direzione andrà Newman. Nell’ultimo dei suoi Sermoni universitari: La teoria dello sviluppo nella dottrina religiosa (1843), l’oxoniano esaminando il rapporto fede e ragione, rivelazione e storia, constata che il problema della relazione tra la fede e la sua esplicitazione ortodossa nella tradizione ecclesiale si risolve nel riconoscere alla natura della fede cristiana un suo intrinseco sviluppo storico.

Nella sua indagine Newman aveva compreso che la vitalità e il luogo del cristianesimo si è sempre espresso nell’abitare il cambiamento delle varie epoche[18]  nella fedeltà creativa al Vangelo. La domanda che attraversava la sua ricerca possiamo riassumerla in questi termini: cosa permane e cosa muta nella Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno? Quale fedeltà richiede la Tradizione di fronte alle domande radicali che la storia degli uomini pone all’intelligenza della fede?

Newman che aveva già affinato la sua innata rigorosità logica affrontando il classico rapporto fede e ragione nei Sermoni Universitari, si era reso conto che le “ragioni” di Roma dimostravano, rispetto alle altre tradizioni ecclesiali, una plausibilità e una coerenza storica e teologica interna sempre più convincente.

Nella sua opera Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1845), esito del sofferto cammino che lo porterà nella chiesa cattolica, Newman si chiede: «la fede che si chiama cattolica rappresenta anche oggi sul piano logico oltre che su quello storico, la fede originaria? [risponde] ho sostenuto che il cattolicesimo moderno non è altro che lo sviluppo e il complemento legittimo ossia lo sviluppo necessario e naturale della dottrina vigente nella Chiesa primitiva e che il carattere divino della sua autorità è implicito nell’essenza divina del cristianesimo»[19].

La Tradizione pertanto non è una sorta di realtà museale (cfr. papa Francesco) da conservare in dottrine che poco hanno a che fare con l’esperienza viva dell’annuncio evangelico. Se le eresie sono l’espressione di una fede involuta e bloccata, i dogmi, al contrario esprimono la sua crescita[20], sono come dei punti fermi di non ritorno per ulteriore cammino e comprensione della fede. Newman non può più sottrarsi all’evidenza che emerge dai suoi studi: gli argomenti centrali dell’antichità-apostolicità e della cattolicità della Chiesa ricercati per l’anglicanesimo sono propri della sede di Roma[21]. Lo strappo dalla sua amata chiesa anglicana è inevitabile, e come possiamo immaginare, non è stato indolore. Si è trattato del passaggio, per dirla con Newman, dall’assenso nozionale a quello reale: ma mentre il primo si colloca a livello di mente, teoria, il secondo tocca il cuore, l’esistenza, è appropriazione della verità che necessita di un itinerario di crescita/maturazione attraverso molte prove.

In questa dinamica, la cui chiave ermeneutica è l’egheneto sarx del Figlio di Dio, centro teologico di tutta la riflessione newmaniana[22], è immessa la vicenda storica della Chiesa. In epoche di passaggi socio-culturali nonché politici con emersione di nuove sfide e opportunità, gli spiriti profetici hanno avvertito la necessità vitale di innovare, di ripartire, di avanzare, ma anche di discernere tra il vecchio e l’antico, tra il tagliare e il potare e, pertanto, di riformare il tessuto ecclesiale per ricollocarsi con freschezza originaria nelle vicende storiche, affinché il vino sempre nuovo del Vangelo fosse offerto agli uomini di ogni tempo in otri nuovi. Questo è l’assillo e la passione pastorale degli evangelizzatori, costante permanentemente presente dai concili dei primi secoli fino ai movimenti ecclesiali monastici e laicali prima e dopo il Vat II, e rilanciata con urgenza dal magistero gli ultimi pontefici.

Recentemente J. Ker[23] ha fatto notare che Newman, per la sua particolare vicenda e la ricchezza del suo pensiero, rischia di essere acclamato ora come un conservatore ora come un progressista. Tuttavia, secondo Ker, dopo aver abbandonato il tentativo della Via Media tra Roma e il protestantesimo, Newman, anche all’interno chiesa cattolica sentì che doveva operare per una via mediana tra i conservatori ultramontani stile il cardinale Manning e i progressisti liberali che nel teologo e storico Ignaz von Döllinger avevano un loro punto di riferimento. E’ nota infatti la sua perplessità ecclesiologica e l’opportunità storica circa la possibilità dell’infallibilità del papa, ma una volta decretata nel Vat I, non esitò ad accoglierla come verità di fede e a difenderla[24]. Tuttavia, come ha osservato Strange, nel periodo anglicano se per Newman «il principio dogmatico aveva priorità […] nella chiesa cattolica il dogma non era a rischio, piuttosto il contrario: era predominante uno spirito dogmatizzante […] privo di fantasia e ostile alle alternative»[25].

Posto tra il fuoco dei tradizionalisti e dei progressisti, Newman discepolo dei Padri ma in parte debitore della tradizione teologica anglicana del XVI sec (caroline divines), aveva colto, pur nei limiti del suo tempo, la natura della Chiesa in una dimensione più comunionale-misterica-profetica che equilibrava quella socio-giuridico-gerarchica tipica dell’ecclesiologia post-tridentina maturata in reazione alle dottrine dei riformatori. Dai Padri inoltre Newman aveva appreso la libertà di spirito nell’esercizio teologico, capace di un confronto serrato e apologetico con la cultura del tempo, ma esercitato nel vivente corpo della Chiesa il cui Magistero è tenuto a vincolare al momento oggettivo della rivelazione (ortodossia) ogni ricerca di verità per salvaguardare, anzitutto, l’assenso di fede dei semplici. Il teologo, nondimeno, attento alla cura animarum, annota Newman, sa che di fronte a improvvisi cambiamenti: «gli uomini semplici si impauriscono e si scoraggiano. È necessario camminare tutti insieme: il rinnovamento, come i mutamenti geologici, deve essere molto lento»[26]. In questa visione ecclesiologica Newman opererà per il riconoscimento e la valorizzazione del laici preparati teologicamente e vivaci culturalmente, aperti alle nuove sfide poste dalla modernità[27].

Il passaggio alla Chiesa cattolica si realizza con una chiarezza che non lascia spazio alcuno ad ulteriori indagini né a possibili compromessi tattici, o in tal caso, ecclesiastici. La pace interiore ritrovata era la conferma che la nuova via intrapresa era volontà di Dio[28]. Nella coesistenza dialettica tra la fede fiduciale del soggetto credente e l’oggettività della Rivelazione, custodita e maturata nella tradizione dalla Chiesa di Roma, Newman si ritrova. La richiesta poieticamente orante di essere guidato dalla Luce Amica venuta in questo mondo e che illumina ogni uomo, viene come esaudita e offre certezza interiore ferma che il passo che sta per compiere è mosso dalla Verità. Solo davanti a Dio, Newman obbedisce alla Voce divina che risuona imperiosa e liberante nella sua coscienza. Nella via della fede accogliente e grata, di conseguenza :«[…] il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla»[29].

L’unificazione spirituale tra vita pensiero e azione si è manifestata in una continuità e in uno sviluppo creativo dal periodo anglicano a quello cattolico che caratterizza l’intera avventura umana e santa di Newman. Ci soffermiamo brevemente su questa singolarità prendendo come esempi la sua identità presbiterale e il tema della coscienza personale posta di fronte a Dio.

L’identità presbiterale al seguito di san Filippo Neri

Il 23 ottobre del 1846, un anno dopo il suo passaggio alla Chiesa cattolica, Newman, insieme ad alcuni amici giunse a Roma, ospite del Collegio di Propaganda Fide, per approfondire la teologia cattolica in preparazione all’ordinazione presbiterale avvenuta il 30.5.1847.

La sua presenza a Roma è segnata soprattutto dalla ricerca del suo posto nella Chiesa da servire in una delle congregazioni o ordini religiosi adatti, per quanto possibile, alla sua spiritualità. Newman sente anche la responsabilità degli amici che lo hanno seguito dall’anglicanesimo al cattolicesimo e con i quali condivide la chiara consapevolezza di servire Dio nella Chiesa e nel mondo da preti. Nella città eterna Newman aveva contattato i padri della Chiesa Nuova, partecipando alle liturgie e informandosi dello stile di vita vissuto dai preti dell’Oratorio e, quando nel dicembre 1847 Newman lasciò Roma, aveva deciso di vivere il suo ministero nell’Oratorio di San Filippo. Nel cammino tracciato da san Filippo Neri Newman si riconobbe: una via mediana tra il ministero diocesano e un ordine religioso è quello che il suo cuore desiderava. In un memorandum in cui traccia gli avvii dell’Oratorio inglese condivisi con i suoi amici, Newman annota: «iniziammo a pensare in modo preciso di introdurre, avendone la possibilità, l’Oratorio in Inghilterra. Le mie motivazioni erano le seguenti: data la grande varietà dei nostri gusti, l’Oratorio garantiva loro un campo di azione più vasto rispetto ad altre istituzioni; inoltre sempre rispetto ad altre strutture sembrava adattarsi meglio agli intellettuali di Oxford e di Cambridge»[30].

Il 2 febbraio del 1848 Newman fonda a Maryvale, nella periferia di Birmingham, il primo Oratorio in terra inglese. In questi primi anni da prete cattolico vedono Newman impegnato in alacre attività pastorale sia a favore dell’Oratorio sia a vantaggio dei tanti poveri dei sobborghi di Birmingham a causa dell’incipiente industrializzazione. Egli stesso con la sua comunità vive in dignitosa povertà[31]. E poiché il confronto ineludibile con gli sviluppi culturali e sociali del tempo richiedono sempre una fede che sa esibire i motivi della speranza, Newman puntava sulla formazione intellettuale ed ascetica dei cattolici, sia dei suoi confratelli sia dei neoconvertiti[32]. Questa scelta educativa-intellettuale sarà contestata fortemente dal tradizionalista William Faber, discepolo di Newman e responsabile dell’Oratorio di Londra. L’ispirazione originaria oratoriana in terra d’Inghilterra trova nel genio di Newman uno sviluppo, una traduzione, una fedeltà creativa al carisma di san Filippo: «non una riproduzione di ciò che era già stato in precedenza[33]. In coscienza Newman ritiene che la ripetitività del carisma è contro la natura della vita secondo lo Spirito di Gesù che spinge verso un annuncio sempre rinnovato del Vangelo. «Lo scopo di san Filippo era dunque di formare i suoi discepoli piuttosto che imporre loro della leggi, affinchè essi stessi diventassero leggi vive, affinché, con le parole delle Sacre Scritture, le leggi fossero scritte nei loro cuori»[34].

Il tema della coscienza in dialogo con la modernità

Nell’Inghilterra vittoriana, in realtà, dove la crisi tra modernità e fede cristiana si fa sentire più sul versante cattolico che su quello anglicano/protestante[35], Newman entra nel tema caldo della “sovranità” della coscienza reso ancora più sensibile nel caso dei cattolici che sono accusati di obbedienza supina un’autorità infallibile in questioni di fede e di morale.

Nell’intimo Dio parla e, quanto meno, la persona ha percezione dell’Altro: quest’affermazione trova radici nella tradizione cattolica fin dai tempi della teoria patristica dei logoi spermathicoi e viene rielaborata da Newman, in forma biografica nell’Apologia pro vita sua (1864), mentre nella Lettera al duca di Norfolk (1874) la riflessione sulla coscienza assume un carattere più marcatamente religioso-filosofico, secondo quella linea di pensiero presente già nei Sermoni Universitari e successivamente nel capolavoro della Grammatica dell’assenso.

A monte di una teoria della coscienza a Newman, tuttavia, urge evidenziare come l’evento della Rivelazione non è estrinseco all’esperienza religiosa umana. Se la coscienza non è la fede, dono soprannaturale e non deducibile razionalmente, tra la prima e la seconda vi è uno stretto rapporto determinato dalla logica dell’Incarnazione, pertanto: «l’obbedienza alla coscienza guida all’obbedienza al Vangelo»[36] e, in tal senso, la fede illumina la coscienza. Il rivelarsi di Dio in Gesù, oggetto proprio della fede, non trova pertanto la persona umana sguarnita. L’originarietà dell’esperire Dio si colloca infatti nel cuore della persona, capax Dei, nella sua coscienza, di cui Newman individua due distinti significati: uno indica l’atto del giudizio morale l’altro il giudizio particolare che si esprime di volta in volta: «nel primo caso la coscienza è il fondamento della religione, nel secondo caso è il fondamento dell’etica»[37].

La coscienza «Quale voce imperiosa e vincolante, diversa da ogni altro dettame di cui abbiamo esperienza»[38], offre quel fondamento per un assenso reale all’esistenza di Dio. C’è qui un richiamo ai preambula fidei in cui il valore propedeutico della religiosità umana[39] trova il suo cuore nella coscienza la quale, entro i suoi limiti creaturali, permette un accesso immaginativo – reale alla realtà di Dio, comune a tutti gli uomini.

Procedendo dal soggetto che nella sua esperienza si apre gradualmente al mistero di Dio, Newman, accanto alla sua facoltà raziocinante nell’analisi dell’assenso di fede, appella, dunque, all’interiorità, al cuore, alla coscienza quale «grande maestro che sta tutto dentro di noi»[40]. Questa via gli ha permesso di dialogare criticamente con quella modernità, che pur esaltando la ragione, aveva rivendicato la centralità della persona nella sua relazione con la realtà e con Dio. In fondo l’apologia della coscienza in Newman è strettamente collegata all’apologia della sua vita: aver scommesso tutta la sua esistenza sull’evidenza interiore del Dio vivente.

Certo per la filosofia empirista, ripresa ma sviluppata criticamente da Kant, si può accettare per fede ciò che non è credibile razionalmente: l’atto di fede, infatti, si fonda sulla Rivelazione, autorità esterna alla dinamica della conoscenza umana. In tal modo l’esistenza di Dio è affermazione soggettivamente certa, ma oggettivamente insufficiente. Da qui, fondamento della fede è la coscienza soggettiva che come un cuneo apre di fatto un solco sempre più profondo tra fede e ragione, verità e libertà, creatura e Creatore, instradando verso un soggettivismo esasperato tipico dei nostri tempi per cui la “mia” coscienza è essenzialmente declinata in autoreferenzialità sganciata, non poche volte, da ogni riferimento alla verità. Al contrario per Newman è palese che la coscienza media l’essere personale dell’uomo in relazione alla Verità, ma sempre eccedente alla presa della mente umana. Essa: «non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci istruisce e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l’originario vicario di Cristo»[41]. Cosi nel cap. V della lettera al duca di Norfolk, letteralmente ripreso dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n.1778). Pertanto «la coscienza è una guida personale, ed io la uso perché devo usare me stesso»[42].

Ma, per evitare l’insidia dell’autoreferenzialità, tipico della modernità, che avrebbe inquinato inevitabilmente l’assenso della fede, Newman rammenta che la coscienza è chiamata a continua conversione alla verità del Dio vivente, il Quale sollecita risposte in termini di responsabilità morale, mentre constata la portata soggettivistica di una visione parziale di coscienza che inevitabilmente inquina la relazione con Dio. «Quando gli uomini si appellano ai diritti di coscienza […] intendono il diritto di pensare e parlare, scrivere e agire  secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio.  […] La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri; ma al giorno d’oggi per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza, consistono proprio nell’ignorare il Legislatore e il Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono»[43]. La riduzione dell’esperienza credente a pura razionalità o a sentimento o estetismo religioso, ieri come oggi, conduce inesorabilmente nei vari campi della conoscenza e delle relazioni umane ad esemplificare, per esempio, il dialogo tra le culture o tra le religioni in un tollerante disimpegno o indifferenza etica. Nell’uno o nell’altro caso il rapporto fede e ragione risulta comunque viziato dal sottrarsi al grembo ecclesiale entro cui, come testimonia l’esistenza del nostro santo, il singolo credente è chiamato a vivere la sua adesione di fede a Dio.

Questa via dell’interiorità[44] è in fondo un’occasione che, nel nostro oggi post-cristiano, lo Spirito ci offre per una rivalutazione del soggetto a partire dalla complessità del suo vissuto interiore e ordinario. Assumendo criticamente la tradizione filosofica dell’empirismo inglese, Newman ha rivalutato la dimensione dell’esperienza umana che rimanda ad un metodo di conoscenza a più livelli in cui l’aspetto affettivo e immaginativo, giocano un ruolo determinante nella ricerca della verità, non tanto sul piano delle idee, generalmente rifiutate nella nostra post-modernità, ma a livello esistenziale, dove il soggetto è interpellato nella profondità della coscienza sia essa atea o credente.

Andando verso la conclusione possiamo rilevare che a Newman interessa comunicare il Vangelo della salvezza e del futuro dell’uomo, così come la Chiesa lo ha custodito e trasmesso di generazione in generazione. Che si tratti del lavoro di rifondazione teologica, avvertita come missione da compiere nella sua chiesa anglicana, oppure delle frequenti visite ai parrocchiani della sua parrocchia oxfordiana, che si tratti della fondazione dell’Oratorio o della stesura e predicazione dei celebri sermoni oppure della fatica intellettuale per offrire ai semplici le ragioni implicite del loro credere, Newman tiene fisso lo sguardo su Gesù.

La brillante predicazione e riflessione teologica newmaniana, pertanto, erano fondate nella preghiera, nell’esercizio dell’ascolto della Parola che salva, ai piedi dell’unico Maestro e Signore secondo quella dinamica esistenziale e personale espressa nel suo motto cardinalizio cor ad cor loquitur  di agostiniana memoria, mediata da san Francesco di Sales, quasi a sigillare l’incipit della sua esperienza credente formulata nella famosa espressione myself and my Creator.

Negli ultimi anni della sua vita Newman scrive in una corrispondenza: «Mi sono impegnato, nella pazienza, a porre le mia vita nelle mani di Dio, ed Egli non si è dimenticato di me»[45] in questo mondo in cui tra le immagini e le ombre del tempo presente siamo certi di essere guidati dall’eterna e gentile Luce incarnata, Gesù nostro Signore, verso il Padre suo e nostro, compimento di ogni umano desiderio:  ex umbris et imaginibus in Veritatem[46].

Pertanto Newman prega: «Resta con me, e allora comincerò a risplendere come Tu risplendi; risplendere in modo da essere luce per gli altri»[47].

[1] R. Pizzimenti, Il discorso del biglietto di J.H. Newman, Aracne, Roma 2014, 70.

[2] Tra gli scrittori di lingua inglese ricordiamo Bruce Marshall; Chesterton; C. S. Lewis; T S. Eliot; Graham Green; Tolkien.

[3] Autobiographical writings, a cura di H.Tristam, Sheed and Ward, London 1956, 125, cit. in A. Bosi, Introduzione, in John Henry. Newman, Opere, Utet, Torino 1988, 32-33. Citeremo AW.

[4] I. Ker, The Achievement of John Henry Newman, Collins, London 1990, 152-183.

[5]http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20100916_interv-regno-unito_it.html.

[6] Giovanni Paolo II, Osservatore Romano 29.4.1990, 6.

[7] «Il soggetto di questa memoria, nacque il 21 febbraio 1801 nella città di Londra in Old Broad street e il 9 aprile dello stesso anno fu battezzato nella chiesa di St. Bennet Fink (una chiesa anglicana). Suo padre era un banchiere di Londra e la sua famiglia proveniva dalla Contea di Cambridge. Sua madre apparteneva ad una famiglia protestante francese, che aveva abbandonato la Francia per questo paese, in occasione della revoca dell’editto di Nantes» (AW 29).

[8] Si tratta del sacerdote anglicano e professore di storia moderna all’università di Cambridge, Charles Kingsley il quale  aveva a più riprese messo in discussione la sincerità del clero cattolico e in particolare quella di Newman.

[9] J. H. Newman, Grammatica dell’assenso, trad. a cura di U. Tolomei, Jaca Book-Morcelliana, Milano-Brescia 1980, 249.

[10] Sant’Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni. Omelia 63,1, Città Nuova, Roma 1968,1129.

[11] john henry newman, Apologia pro vita sua, a cura di F. Morrone, Paoline, Milano 2001, 133. In seguito Apologia.

[12] Mutuati da Thomas Scott , ministro anglicano di idee calviniste ma lontano da integrismi religiosi Cfr. Apologia, 136-140.

[13] Cfr. Newman, La Chiesa dei Padri. Profili storici. Introduzione di I. Biffi, Jaca Book, Milano 2005.

[14] «Sentivo affetto per la mia Chiesa, ma non tenerezza; provavo turbamento pensando al suo futuro, ira e sdegno per la sua inerzia nella perplessità. […]Vedevo che i principi riformatori erano impotenti a salvarla. Quanto ad abbandonarla, l’idea non mi passò mai per la mente […] Occorreva trattarla con energia o si sarebbe perduta C’era bisogno d’una seconda riforma». (Apologia, 168.169).

[15] Lectures on the Prophetical Office of the Church viewed relatively to Romanism and Popular Protestantism, ripubblicato nel primo volume di The Via Media of the Anglican Church.

[16] Apologia 256.257.

[17]  «L’arianesimo fu debitore dei suoi primi successi a questo auspicio, all’essere un insegnamento (nella sua forma primitiva) a carattere scettico anziché dogmatico, nell’avere come suo scopo l’indagine e la riforma del credo ricevuto, piuttosto che l’azzardare la proposta di un credo originale» (Gli ariani del IV secolo, traduzione di M. Ranchetti, Jaca Book, Milano 1981 22-24).

[18] «In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni» (J. H. Newman , Lo sviluppo della dottrina cristiana, a cura di A. Prandi, Il Mulino, Bologna 1967, 47). In seguito Sviluppo.

[19] Ivi,181.

[20] Cfr. Sermoni Universitari, in John Henry Newman, Opere, 699-728. Nel “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” Newman elabora sette criteri dello sviluppo dei dogmi citati in Commissione Teologica Internazionale, L’interpretazione dei dogmi, 1990, 5.

[21] «Vedevo che il principio dello sviluppo non solo spiegava certi fatti, ma era anche in sé un fenomeno filosofico singolare, che dava un carattere tutto proprio alla storia del pensiero cristiano. Lo si poteva scorgere dai primi anni dell’insegnamento cattolico sino ad oggi, e dava a tale insegnamento un carattere di unità e di individualità. Era una specie di prova, che gli anglicani non potevano produrre, che la Roma moderna era in verità l’antica Antiochia, Alessandria e Costantinopoli, così come una curva matematica ha la propria legge ed espressione» (Apologia 338). Il 4 maggio 1843 scrive a Keble: « Sono molto più sicuro del fatto che l’Inghilterra è nello scisma, che non della possibilità che le aggiunte romane al Credo primitivo non siano sviluppi, sorti da una profonda e viva percezione del divino deposito della fede» (Apologia 349).

[22] .cfr. F. Morrone, Cristo Il Figlio Di Dio Fatto Uomo. L’incarnazione del Verbo nel pensiero cristologico di J. H. Newman, Jaca Book, Milano 1990.

[23] Cfr. I. Ker, Newman on Vatican II, Oxford University Press, 2014.

[24] Nel 1874 l’ex primo ministro Gladstone critica negativamente i decreti del Concilio Vaticano I, ritenendoli inconciliabili con la lealtà dei cittadini cattolici nei confronti dello Stato. Sollecitato dal duca di Norfolk a prendere una posizione per difendere i cattolici inglesi, Newman risponde con  A letter addressed to his grace the Duke of Norfolk, on occasion of Mr. Glastone’s recent expostulation, (Lettera al Duca di Norfolk) un classico della teologia cattolica sul delicato tema della coscienza morale.

[25] R. Strange, Newman. Una biografia spirituale, Lindau, Torino 2010, 71.

[26] J. H. Newman, Letters and Diaries, edited at the Birmingham Oratory, Clarendon Press, Oxford 1973-77, XXV, 32. In seguito LD.

[27] «desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto tra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo, e dove stiano le maggiori incongruenze e assurdità della teoria protestante. (…) I laici sono stati in ogni tempo la misura dello spirito cattolico; tre secoli fa hanno salvato la Chiesa d’Irlanda e tradito la Chiesa in Inghilterra». (J. H. Newman, Discorsi sul pregiudizio. La condizione dei cattolici, a cura di B. Gallo, Jaca Book, Milano 2000, 374-375)

[28] «Dal giorno in cui divenni cattolico […] mi sono trovato nella più perfetta pace e tranquillità; non ho mai avuto alcun dubbio. Al momento della mia conversione non fui consapevole di alcun cambiamento, intellettuale o morale, operatosi nel mio spirito. Non ebbi consapevolezza di una fede più ferma nelle verità fondamentali della Rivelazione, o di una maggiore padronanza di me stesso; non provai maggior fervore; ma fu come entrare in porto dopo essere stati nel mare in burrasca; e la mia felicità, a questo riguardo, dura ininterrotta fino ad oggi» (Apologia 378).

[29] Sviluppo 377.

[30] Memorandum, Appendice 4, in J. H. Newman, Scritti oratoriani, a cura di P. Murray, Cantagalli, Siena 2010, 403. In seguito Murray.

[31] A Faber che gli chiede di raggiungerlo a Londra, Newman risponde: «Non dispongo neanche di un centesimo nelle mie tasche, nel portafoglio  o in banca. Se devo andare lo farò con soldi prestati» (LD XIII, 165, citato in J. M. Marìn, John Henry Newman. La vita, Jaca Book, Milano 1998, 233).

[32] «L’attività apostolica indirizzata alle persone con una formazione intellettuale più o meno elevata – le  thinking classes- era l’obiettivo principale dell’Oratorio inglese tale come Newman lo aveva concepito e come era stato approvato dalla Santa Sede» (J. M. Marìn, John Henry Newman. 225). Murray sostiene che in realtà non era questo l’intento primario che Newman aveva dato all’Oratorio(Murray 95-97). In una corrispondenza Newman scrive: «Il nostro obiettivo a Birmingham sarà influenzare il tono del pensiero –e dell’opinione prevalente dei diversi settori alti e bassi di questa società, promuovere il Cattolicesimo, mettere in chiaro le lacune del Protestantesimo e, in particolare, occuparci dei giovani» (LD XIV, 33, citato in Ivi, p. 239).

[33] Murray, 109.

[34]  Newman, Scritto oratoriano n.6, in Murray 199.

[35] Cfr. A.H. Jenkins, (Ed.), John Henry Newman and Modernism, “Internationale Cardinal-Newman-Studien”, Verlag Glock und Lutz, Sigmaringendorf 1990.

[36] PS VIII, 202.

[37]  J. H. Newman, The Philosophical Notebook, edited by E.J. Sillem and revised by A.J. Bockraad, Louvain 1969, 47.

[38] Id, La Grammatica dell’assenso, a cura di B. Gallo, Jaca Book, Milano 2005, 86. Citeremo: Grammatica (Gallo).

[39] «Non è vero che la religione naturale ci dia soltanto la legge, lasciando al cristianesimo l’annuncio del perdono; non è vero che il comando deprima lo spirito con il suo formalismo mentre il perdono gratuito lo convertirebbe – la natura infatti parla della bontà di Dio come della sua severità, e Cristo certamente della sua severità così come della sua bontà; piuttosto nel cristianesimo troviamo tutti gli attributi divini […] espressi con forza ed insistenza, mentre nel mondo visibile non erano che latenti»( Sermoni Universitari, in John Henry Newman, Opere, 488).

[40] Ivi, 307.

[41] Id., Lettera al duca di Norfolk, a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999, 219.

[42] Grammatica (Gallo), 307.

[43] Lettera al duca di Norfolk, 221.

[44] Così l’allora cardinale Ratzinger su tale questione: «il soggetto trova (in Newman) un’attenzione che nella teologia cattolica non aveva più conosciuto forse dal tempo di Agostino; ma è un attenzione nella linea di Agostino, non in quella della filosofia soggettivistica moderna […] Per lui coscienza non significa autodeterminazione del soggetto contro le pretese dell’autorità, in un mondo senza verità, che vive del compromesso fra le esigenze soggettive e quelle dell’ordine sociale. Significa piuttosto la presenza percepibile ed imperativa della voce della verità nel soggetto stesso.[…] Mi sembra significativo che, in una lista delle virtù, egli sottolinei la preminenza della verità sulla bontà, o per dirlo in modo a noi più comprensibile: la preminenza della verità sul consenso, sull’accettabilità per il gruppo».

(J. Ratzinger, Cielo e terra. Riflessioni su politica e fede, Casale Monferrato : Edizioni Piemme, 1997, 32-33).

[45] LD XXIX, 72.

[46] Così l’iscrizione da lui dettata e scolpita sulla sua tomba, posta nel cortile della Chiesa dell’Oratorio Edgbaston, presso Birmingham, a testimoniare il suo leale e gioioso ministero all’eterna e beata Verità.

[47] Libro di preghiere di J. H. Newman, a cura di V. F. Blehl, Roma 2017, 8.