Le filosofie ellenistico-romane

«I pensatori che succedettero ad Aristotele sono dottori della vita felice, e cercano anzitutto l’efficacia» (J. Maritain)

Il gigantesco trapianto di cultura tra genti diverse

Con la morte di Alessandro (323 a. C.) e di Aristotele (322 a. C.) si conclude il ciclo più glorioso della storia e della civiltà ellenica classica.

Si inizia una nuova storia e una nuova civiltà, quella ellenistica, com’è designata, dopo gli studi di Johann Gustav Droysen (1808 – 1884).

Con Alessandro la frontiera dell’ellenismo fa un balzo di quattromila chilometri verso est, dalle coste dell’Egeo all’Indo.

La morte prematura del conquistatore mostra però la precarietà della pur grandiosa costruzione. L’occidente greco, isolato dalla madre patria, è conquistato da Roma (Taranto è occupata nel 272 a. C. e la Sicilia nel 241 a. C.).

La Grecia continentale, prima egemonizzata dalla Macedonia, entra nell’orbita di Roma, fino a diventare come una provincia tra le altre.

Il nobile sogno del console Tito Quinzio Flaminio di una Grecia libera, «senza guarnigioni e senza tributi», come egli volle proclamarla durante la celebrazione dei giochi istimici nell’estate del 196 a. C., prevenendo le mire egemoniche del Senato, tramontava definitivamente nel 146 a. C., lo stesso anno della distruzione di Cartagine.

Gli Stati successori che si formano alla morte di Alessandro (la monarchia macedone degli Antigònidi, l’impero siriaco dei Selèucidi, l’Egitto dei Tolomei e, verso la metà del III secolo, il regno di Pergamo degli Attàlidi) sono agitati dall’antagonistica spinta egemonica della Siria e della Macedonia.

Roma teme l’affermarsi di un potente Stato antiromano e fa da perno ad ogni schieramento difensivo dei piccoli Stati ellenici contro l’espansionismo dei due maggiori regni, sino ad inglobare nel suo dominio tutto il mondo ellenistico che si affaccia al Mediterraneo. Sì che l’ellenismo si intende più correttamente quando l’incontro della paideia greca con le suggestioni e le tradizioni dell’oriente è considerato il suo momento costitutivo, ma non esclusivo.

Infatti l’ellenismo sarà la forma interiore dello stesso mondo romano a partire all’incirca dalla metà del III secolo a. C., ma sarà altresì, in concreto e per molti secoli, a sua volta compenetrato dall’ordo, dal moderamen ordinis, dallo jus, dall’imperium di Roma.

In un discorso sull’ellenismo ai due termini originari, Grecia e Oriente, legittimamente si uniscono un terzo, Roma, e un quarto, Bisanzio, perché è perfettamente vero che il destino della cultura classica si prolunga attraverso la storia bizantina, durante tutta l’età romana e anche oltre. Dovendo pertanto assegnare un termine a quo e un termine ad quem all’ellenismo anche l’adozione del criterio più restrittivo – che suggerisce come inizio la morte di Alessandro e di Aristotele (323 e 322 a. C.) e come conclusione l’età di Giustiniano (527 – 565 d. C.), in cui si afferma in modo netto e irreversibile la civiltà bizantina, con caratteri autonomi che la differenziano da quelle precedenti e che danno vita a un nuovo tipo di civiltà – ci obbliga a sottolineare la lunga durata, quasi un millennio, di una realtà storica e culturale tanto complessa.

«È una coincidenza assai notevole – scrive Hans Schubert – che proprio in quell’anno 529, in cui in oriente l’imperioso decreto di Giustiniano chiudeva per sempre la scuola filosofica di Atene, la tradizione collochi la fondazione di Montecassino, del monastero modello di quei benedettini che dovevano poi diventare i rappresentanti specifici della cultura monastica» (Istruzione ed educazione alle origini del cristianesimo, trad. it. La Nuova Italia, Venezia 1929, p. 45). L’ellenismo ebbe le «capitali» della cultura in Atene ed Alessandria, ma furono importantissimi centri di ricerche e di irradiazione culturale anche Antiochia, Pergamo e Rodi.

Nel secondo periodo detto ellenistico-romano oltre Roma divennero celebri Smirne durante l’età dell’oro dell’impero elettivo (96 – 180 d. C.) da Nerva a Marco Aurelio, e più tardi, Costantinopoli, la Nuova Roma, elevata dal 330 a capitale dell’impero, e Berito (Beirut) per il diritto romano.

La cultura ellenistica mostrò nel suo primo periodo (da Alessandro ad Augusto) un’autentica forza creativa.

La ricerca scientifica (la patria elettiva degli scienziati è Alessandria) fu straordinariamente intensa e feconda di risultati; in filosofia si ebbe l’approfondimento del tema basilare della libertà spirituale dell’uomo (stoicismo, epicureismo, scetticismo ed eclettismo sono dominati e tormentati dal problema morale).

La storiografia ebbe Polibio (205 – 124 a. C.); gli studi di grammatica morfologica e filologia furono strutturati scientificamente da Didimo di Alessandria (65 a. C. – 10 d. C.) e precedentemente dalla scuola di Pergamo, il cui corifeo fu Cratele di Mallo, vissuto nella prima metà del II secolo a. C.

La poesia tornò a far sentire la sua voce in tutto il mondo greco con Callimaco (310 – 240 a. C.) e Teocrito (310 – 260 a. C.).

È scomparsa per sempre la città-stato, la polis; la storia non la fa più l’assemblea popolare, ma la volontà del monarca; il combattente non è più il cittadino, ma il soldato di ventura e il mercenario. Coloro che erano cittadini si sentono ora oggetto e non soggetto di una storia dominata dalla Fortuna. In questo quadro politico il saggio stoico aspirerà tutt’al più a farsi consigliere del monarca e il saggio epicureo accoglierà l’appello del maestro a fuggire la vita poltica.

Tra il latenter vivere di questi e il conclamato cosmopolitismo di quelli c’è nondimeno una non superficiale affinità nel positivo e nel negativo: il disinteresse per la piccola patria, la cui gente ci è più prossima, aveva un vantaggio, quello di indebolire i pregiudizi legati alle istituzioni, come per esempio il pregiudizio contro gli schiavi e contro gli stranieri.

Socrate, il più ateniese dei greci e insieme l’uomo più universalmente umano di tutto il mondo greco, aveva realizzato un equilibrio dialettico unico tra l’amor patrio e la coscienza di un legame profondo con tutti gli altri uomini in virtù della comune razionalità, per cui ogni uomo può farsi soggetto di un ordine conoscitivo e morale di valore universale e oggettivo.

Quella visione ardita, luminosa e anticipatrice, non ebbe un coerente sviluppo né in Platone né da parte dei socratici minori, talvolta persino triviali nello sterile coraggio delle posizioni estreme di rifiuto globale della società. Ma ora, nel crollo di una determinata forma di vita sociale, che per molti greci era stata addirittura la categoria, la norma superiore del pensiero e della vita, emerge, diventa più che mai attuale l’appello socratico all’interiorità.

Liberata dal condizionamento collettivo della polis, la persona riscopre e approfondisce il senso della sua appartenenza a se stesso, la grandezza dell’autonomia morale. Per il filosofo ellenistico l’uomo ha lo scopo di raggiungere la forma più ricca e più perfetta di personalità.

Si deve discutere se tali esigenze furono soddisfatte o non piuttosto impoverite e persino contraddette nei sistemi filosofici che pure le affermavano, ma non si può negarne la validità e la fondatezza.

Ogni uomo è chiamato a «prendersi cura della propria anima» e, come il coroplasta, a scolpire la sua propria statua per «vivere serenamente e bene» (Etica Eud., I, 1, 1214 a, 31), secondo un’efficace espressione aristotelica molto vicina alla sensibilità dei moralisti ellenistici.

In questa visione l’isolamento del filosofo può nascere anche dalla coscienza dei veri valori della vita, dalla sentita necessità di mirare più in alto dell’azione politica, peraltro resa impossibile in una società disorganica e fittizia in cui il potere è accentrato nelle mani del monarca assoluto. Secondo il modello orientale i sovrani ellenici esigevano per sé il culto divino (culto che Alessandro aveva imposto, suscitando ripugnanza presso i greci, così come ogni imperatore romano che si proclamerà Dominus et Deus susciterà l’universale orrore degli ebrei e dei cristiani).

Con il gigantesco trapianto di cultura operato tra genti tanto diverse – che pure si ritrovano a far parte d’una stessa area di civiltà, a parlare una stessa lingua e a studiare gli stessi classici – l’ellenismo attestava i caratteri di universalità e di umanità della cultura greca, la sua forma antropoplastica.

Storicamente il risultato più solido fu l’ellenizzazione dell’oriente mediterraneo, che entrerà a far parte integrante dell’impero bizantino sino alla fine, greco di cultura e di lingua. Ma dal punto di vista della civiltà umana, nel senso più alto della parola, l’evento veramente decisivo fu l’incontro fra il mondo giudaico e la cultura greca, che avviene in Alessandria nel secolo III. Secondo la Lettera a Filocrate di Aristeas, vissuto intorno al 200, Tolomeo, su consiglio del peripatetico Demetrio Falareo (morto nel 283 ca. a. C.), affidò ad un nutrito gruppo di colti ebrei la traduzione in greco – detta appunto dei Settanta – della Bibbia.

Per effetto di questa traduzione – compiuta non in breve tempo, ma tra il III e il II secolo e, com’è più probabile, per gli usi della numerosa colonia giudaica di Alessandria – la religione e la cultura ebraica assumevano come propria lingua il greco.

Il naturale clima linguistico degli scrittori del Nuovo Testamento – tra il 50 e il 100 ca. dell’era cristiana – è la versione greca dei Settanta dei libri sacri dell’Antico Testamento, di lettura comune nelle comunità cristiane del mondo ellenistico.

Ai primi testimoni del Cristo una sola lingua si presentava naturalmente e necessariamente per comunicare agli uomini il nuovo messaggio: quel greco che era da tempo la lingua comune di tutto l’oriente ellenizzato.

Molto probabilmente il primo a compiere questo passo, che fu decisivo per l’avvenire del cristianesimo, fu Paolo di Tarso.

Il greco rimase, fin verso l’anno 180, la sola lingua del cristianesimo primitivo e così la lingua che era stata di Omero, di Eschilo e di Platone sarà ancora fondamentalmente la lingua degli apostoli del Cristo, degli apologisti e dei grandi teologi, cioè della letteratura cristiana.

«E non fu solo – ha scritto un illustre grecista – una contingenza storico-culturale a far sì che il cristianesimo si diffondesse per mezzo della lingua greca: basti pensare che soltanto in tal modo esso poté giungere in occidente e farsi universale – in tutti i modi e con tutte le conseguenze – in Roma».

Le capitali dell’ellenismo

Ad Atene sono state fondate tutte le grandi scuole filosofiche come confraternite religiose e scientifiche: l’Accademia nel 387 a. C.; il Liceo nel 335; nel 306 Epicuro inaugura il Giardino; nel 301 – 300 Zenone fonda la scuola stoica. Ma anche le altre filosofie si svilupparono principalmente ad Atene.

Tre delle grandi scuole, la peripatetica, l’epicurea e la stoica, avevano per fondatori dei metechi, stranieri stabilitisi in Atene, ma senza diritto di cittadinanza.

In due di esse, quelle che domineranno, sino a Plotino (205 – 270 d. C.) e oltre, la cultura ellenistico-romana, i membri, a cominciare dai capi, sono per lo più stranieri.

Insomma anche la filosofia, dopo Platone, non è più ateniese, e nondimeno ha per capitale Atene per effetto dell’immensa forza di una tradizione insostituibile. Atene continuerà ad essere la città sacra alla cultura e alle arti, meta di studiosi e di turisti, pur nel fiorire delle città capitali dei regni ellenistici: Alessandria dei Tolomei in primo luogo, ma anche Pergamo degli Attalidi e Antiochia dei Salèucidi.

Alessandria era la più greca delle città bagnate da quel Mediterraneo che era stato sempre la vocazione dei greci (non si deve dimenticare, infatti, la grande colonizzazione tra il 750 e il 550 a. C., prevalentemente pacifica e di immensa fecondità per la storia dell’Europa).

Alla morte di Alessandro l’Egitto cadde in potere di un suo generale, Tolomeo (323 – 285 a. C.), la cui dinastia continuò a regnare per tre secoli, fino al 1° agosto dell’anno 30 a. C., quando Alessandria cadde nelle mani di Augusto e l’Egitto divenne una provincia personale dell’imperatore.

La monarchia làgida sin dai primi tempi creò una tradizione in campo culturale e Alessandria divenne il centro del sapere scientifico con le grandi istituzioni del Museion e della biblioteca.

Il Museo che perfino nel nome richiamava le grandi scuole greche che i fondatori si rappresentavano come tempio, luogo sacro alle Muse, realizzava il sogno di una comunità di ricercatori esenti da ogni peso, da ogni preoccupazione materiale, sontuosamente alloggiati e nutriti a spese dello Stato, interamente liberi di dedicare tutte le loro energie ai loro studi.

Annessi al Museo sono gli istituti scientifici (l’osservatorio astronomico, il giardino botanico e zoologico, un istituto di anatomia) e la famosa biblioteca, che, in successive acquisizioni, sarebbe giunta a contenere tutto ciò che la letteratura – non soltanto greca – avesse prodotto sino allora (settecentomila volumi, secondo alcune fonti: cifra non esagerata se il catalogo redatto dal terzo conservatore, Callimaco, tra il 260 e il 240 a. C., comprendeva già centoventimila volumi).

Gli scienziati-astronomi, geometri, medici, storici, grammatici convennero numerosi ad Alessandria e, sebbene non obbligati, tennero corsi universitari di alta cultura, dando origine anche a molte scuole rivali.

Dal 300 a. C. al 200 d. C. per mezzo millennio insegnarono ad Alessandria i più eminenti scienziati. Euclide (ca. 330 – ca. 260 a. C.), l’autore degli Elementi di geometria, dette forma a tutto il successivo insegnamento geometrico e il suo libro è, dopo la Bibbia, il più conosciuto; Erofilo, contemporaneo di Euclide, fonderà l’anatomia comparata; Aristarco (310 – 230 ca. a. C.), il «Copernico dell’antichità», riconobbe tra l’altro che la luce della luna riflette quella solare; Eratostene (ca. 276 – ca. 194 a. C.), filologo matematico astronomo e geografo, ottenne la misurazione del globo terrestre con un’operazione di stupefacente semplicità; Erone vissuto nel I° secolo a. C. conobbe a fondo la proprietà delle leve, degli ingranaggi e delle macchine con essi composte, l’idrostatica e tutte le più svariate applicazioni del sifone, costruì apparecchi basati sulla dilatazione del gas e sulla forza di espansione del vapore acqueo e sperimentò «la prima macchina a vapore che abbia funzionato» (Federigo Enriques, Giorgio de Santillana, Storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna 1932, vol. I, p. 496). Alla scuola alessandrina si formarono anche quelli, come Archimede di Siracusa (287 – 212 a. C.), il fondatore della meccanica, e Galeno di Pergamo (131 – 201 d. C.), l’autore della più grande sintesi biologica e medica dell’antichità, che non vissero nella metropoli egiziana.

La scuola alessandrina, che inizialmente aveva le caratteristiche di un’accademia e che poi divenne una università, fiorì per oltre due secoli, incominciò un lento declino pur mantenendo viva la sua attività scientifica fino al 400 d. C.

Ancora nel IV secolo Alessandria si segnale per gli studi di medicina.

Altri vitali e importanti centri dell’ellenismo furono Pergamo e Rodi.

A Pergamo, ove si insediò la dinastia degli Attàlidi, il re Eumene II (197 – 159 a. C.) fondò la celebre biblioteca che giunse a contare duecentomila volumi, e inaugurò quella politica di evergetismo culturale anche a vantaggio di altre città (Atene, Delfi, Rodi), che fece degli Attàlidi gli alfieri dell’ellenismo.

Della rivalità tra Alessandria e Pergamo è rimasta una traccia curiosa nelle lingue moderne. I libri alessandrini erano scritti su rotoli ricavati dalle foglie di papiro, da cui vengono le parole come paper e papier che in inglese e francese significano carta. Per impedire a Pergamo l’acquisto di copie dei loro tesori letterari, i Tolomei posero l’embargo sull’esportazione del papiro. I re di Pergamo, allora, privi di quel prezioso materiale d’importazione, cercarono di risolvere il problema con la preparazione di pelli di animali, che costituivano il materiale di scrittura usato in quel tempo da ebrei e persiani. Ebbe così origine la produzione su vasta scala del membranum pergamenum.

Costretta dalla presenza romana ad abbandonare ogni mira egemonica, Rodi divenne nel primo secolo a. C. una grande città universitaria, la più celebre sede di studi superiori di quell’epoca. A Rodi fiorirono le scuole di grammatica (Dionisio Trace), di retorica (Apollonio Molone) e di filosofia (Panezio, 185 – 109 a. C. e Posidonio, spentosi nel 50 a. C., illustrarono la scuola stoica e influenzarono visibilmente la cultura romana).

A Rodi vengono ad apprendere i segreti dell’arte oratoria Cicerone, Cesare, Tiberio.

Appunti su stoicismo ed epicureismo

Nei sistemi dello stoicismo e dell’epicureismo i pensatori sono innanzi tutto dei «dottori della vita felice» – come osserva Jacques Maritain (La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1971, p. 72). Lo stoicismo è «un’ascesi della tensione e dell’azione», l’epicureismo «una specie d’ascesi della distensione e del riposo».

Nello stoicismo la felicità, eudemonia, consiste nella vita secondo natura, nell’accordo dell’azione umana con la legge della natura, il logos, principio che agisce nella natura e nell’anima umana. Si ha però la contraddizione di un’etica dell’obbligazione morale e della vita morale eroica fondata su una metafisica materialistica e sul determinismo assoluto. «Gli stoici ammisero una scala di valori e ciò tacitamente implica che l’uomo saggio è libero di scegliere valori superiori e fuggire gli inferiori. Ma nessun sistema deterministico può, in pratica, essere coerente, perché la libertà è una realtà di cui siamo consapevoli e che, anche quando venga negata dalla teoria, riappare sempre inavveritamente» (F. Copleston, op.cit., I, p. 542 – 543).

Nell’epicureismo, per quanto «spiritualizzato dall’intelligenza, dall’immaginazione e dalla memoria», non esiste che il piacere sensibile: non vi è più un bene in sé e il valore è totalmente relativizzato, ridotto com’è ad un’abile metetrica, a un’arte di misurazione dei piaceri e dei dolori, capace di congiungere al massimo del piacere il minimo della pena. Il valore della virtù è commisurato al suo potere di causare il piacere. Nel sistema epicureo è impossibile una discriminazione tra piaceri che sia fondata su differenze di valore morale. E la ragione è semplice: «Il piacere è essenzialmente individuale; perciò i sistemi fondati sul principio del piacere, sono essenzialmente sistemi di egoismo» scriverà con forza epigrafica Rosmini nella sua Storia critica e comparativa dei sistemi intorno al principio della morale (1837, riedita da Paravia, Torino 1928, vol. I, p. 54). Certamente il giudizio morale di Epicuro è più penetrante dei fondamenti teorici della sua etica, come ha dimostrato André-Jean Festugière nel suo Epicuro e i suoi dei (Morcelliana, Brescia 1952), ma in filosofia non si può prescindere da questi.

Se gli epicurei correggevano l’orgoglio e l’astrattezza rigoristica della saggezza stoica, eroica e disumana, gli stoici avevano buon gioco contro gli epicurei a dimostrare l’assurdo di costruire un sistema morale nel quale ogni elemento morale per l’appunto era escluso. Vi sono, però, strane affinità tra i due sistemi antagonisti. Ci limitiamo a segnalarne alcune.

In primo luogo il determinismo materialistico rigoroso rende ambedue le dottrine incapaci di spiegare come l’uomo possa vincere la sua natura contingente per l’affermazione di una volontà razionale non deducibile dalle sue inclinazioni e superiore alle sue debolezze. Nessun determinista è, né può essere, coerente e i deterministi ellenisti non fanno eccezione alla regola.

In secondo luogo se l’atarassia e l’apatia assurgono a espressioni tipiche della saggezza, questa saggezza – sia essa epicurea o stoica – è inficiata di egoismo.

Infatti qualora il nulla emotivo e l’imperturbabilità fossero il fine in sé, in quanto libertà da ogni genere di agitazione e di apprensione, porterebbero a fuggire le lotte inevitabili e doverose per l’attuazione degli ideali morali. Il saggio stoico non meno del saggio epicureo tende in realtà a isolarsi dal mondo e a considerarne le vicende con animo non solo distaccato, ma indifferente.

In terzo luogo, sia nello stoicismo che nell’epicureismo – e persino là dove i due sistemi toccano il loro punto più alto nelle dottrine del cosmopolitismo e dell’amicizia – si opera il tentativo di estrarre, per così dire, dall’egoismo l’altruismo, cercando di derivare tutta la morale dall’istinto di conservazione del proprio essere materialisticamente concepito.

Il cosmopolitismo stoico, per cui l’uomo saggio è un cittadino non di questo o quello Stato ma del mondo, trae il suo presupposto dalla tendenza fondamentale all’autoconservazione. In un primo momento questa tendenza si mostra nella forma dell’amor proprio, cioè dell’individuo per se stesso, ma poi si estende oltre, fino ad abbracciare tutto ciò che riguarda l’individuo: la famiglia, gli amici, i concittadini e, infine, tutta l’umanità.

Epicuro diede molta importanza all’amicizia: «Di tutte le cose che la saggezza provvede per la felicità della vita, la più importante è l’amicizia» (Diog. Laer., 10, 148). Ma la stessa esaltazione dell’amicizia è fondata su considerazioni egoistiche: senza l’amicizia non si può vivere una vita tranquilla e inoltre l’amicizia procura piacere. L’amicizia viene quindi fondata su basi egoistiche, avendo per scopo il vantaggio personale, sebbene nel corso dell’amicizia possa sorgere un’affezione disinteressata, per cui il saggio ama l’amico come se stesso.

In pieno Ottocento John Stuart Mill cercherà di legittimare su un fondamento egoistico l’altruismo come fenomeno di associazione psicologica, ricorrendo all’apologo dell’avaro. L’avaro che dapprima faceva del denaro l’oggetto del suo amore, solo come mezzo per il possesso di quei beni che veramente gli stavano a cuore, finisce con l’amare il denaro per se stesso. Così la felicità altrui, cercata dapprima in quanto si riflette sulla nostra condizione e la condiziona, finisce per l’essere procurata per se stessa.

Kant prima, poi Rosmini e anche il Manzoni in un significativo scritto del 1855 Del sistema che fonda la morale sull’utilità, che è l’appendice al Capitolo III delle Osservazioni sulla morale cattolica (da leggersi nell’edizione curata da Romano Amerio, Ricciardi, Napoli 1966, vol. II, pp. 323 – 410) hanno criticato limpidamente le illusioni e le contraddizioni di ogni sistema utilitaristico.

Per gli epicurei e gli stoici il dogma era un principio dottrinario in cui fermamente credere. «Il saggio sarà dommatico nelle sue convinzioni dottrinarie, non lasciando mai adito al dubbio» (Epicuro). «Chi trascura i dogmi della saggezza, trascura la legge stessa della verità e della rettitudine» (così lo stoicizzante Antioco).

Con gli scettici dogma e dogmatico assursero una connotazione negativa. Dogma diviene un assenso dato a cose oscure, una proposizione che pretenda di esprimere una verità che non sia di evidenza empirica o fenomenica (poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili assente anche lo scettico; sudando per l’eccessivo calore, anche lo scettico non può dire: «credo di non sentire caldo o freddo»). Più tardi, per Kant, dogmatica sarà la pretesa di procedere a determinate conclusioni, senza ricercare in che modo e con qual diritto vi si pervenga.

La civiltà romana e il progressivo influsso greco

I greci si compiacevano di ammirare e conseguire l’universalità della scienza, la speculazione teorica e l’arte; il popolo romano invece era piuttosto incline alle cose pratiche, preferiva abbandonare agli altri la teoria e tener per sé l’azione. Solo molto tardi, quando gli influssi greci si faranno sentire profondamente, il romano si concede all’otium letterario.

Se in Grecia sono sorti i più grandi sistemi filosofici e scientifici dell’antichità e le più belle creazioni artistiche, a Roma è stato creato il diritto. Mentre Platone pensa alla sua repubblica ideale, i romani iniziano il progressivo sviluppo di una repubblica reale che conquisterà il mondo. Così, se nell’antichità ai greci spetta il primato nel campo della scienza, ai romani spetta quello nel campo dell’organizzazione giuridica della vita sociale e politica.

Il fatto che la civiltà romana s’è dedicata soprattutto alla produzione di forme giuridiche e politiche socialmente utili piuttosto che a indagini speculative o a produzioni eminentemente estetiche attesta che essa è una forma di cultura diversa e autonoma, originata da una differente mentalità. L’indole diversa dei due popoli si rivelò fin dai loro più antichi contatti.

I greci consideravano i romani come barbari rozzi e ignoranti, e i romani più tradizionalisti per molto tempo considerarono i greci dei visionari, inepti, privi di senno pratico.

Nei romani l’ambizione maggiore è quella di ordinare la propria esistenza individuale in modo che ciascuno sia in grado di servire degnamente la repubblica, partecipando attivamente alle sue conquiste e alla sua opera di incivilimento e d’organizzazione dei popoli vinti.

La dedizione dell’individuo allo Stato era sancita nelle Leggi delle XII Tavole: Salus Rei Publicae Suprema Lex Esto.

Sul piano della vita pubblica, Roma non ha mai ammesso l’immoralismo machiavellico di tipo spartano. Tutto è dovuto alla salvezza della patria, ma non tutto è permesso: bisogna rispettare la legge della morale, della giustizia, del diritto.

Il popolo romano, creatore del diritto, tende ad armonizzare il senso dell’autorità e il bisogno della libertà individuale. Per il singolo l’esigenza di veder rispettata la propria libertà e il proprio diritto è condizione stessa dell’esistenza dello Stato; il rispetto per le istituzioni non è superstizioso omaggio verso immobili forme di vita esteriore, ma doveroso omaggio alla maiestas populi, che di volta in volta adegua le istituzioni ai propri bisogni.

Riguardo agli altri popoli, i romani non hanno, come afferma Hegel, «spezzate e uccise le vitali individualità degli spiriti dei popoli e steso sul mondo colto un gelido dominio»; il segreto dell’unità che Roma seppe dare saldamente ai vari popoli sta proprio nel fatto che i romani, anziché reprimere violentemente i caratteri differenziali di ogni gente, hanno spesso sapientemente usato, a vittoria ottenuta, una longanimità che permetteva la valorizzazione e l’assimilazione delle energie e delle qualità tipiche dei vinti.

Contrariamente ai greci, che se ne meravigliarono, Roma ebbe simpatia per gli altri popoli, fu pronta ad ammettere gli stranieri nella sua comunità.

«Essa sola – scrive l’egizio Claudiano – accolse i vinti nel suo seno e abbracciò il genere umano sotto un sol nome» (De consulatu Stilichonis, 150).

La praticità del popolo romano si nota anche nella vita che conduce. Il lavoro non è per esso, come per i greci, un mestiere da schiavo o comunque disonorevole; è un dovere dell’uomo, non una disgrazia.

La leggenda di Cincinnato insegnava alle generazioni future la laboriosa semplicità dei costumi primitivi.

Dalla serenità del lavoro campestre trae ispirazione la più bella poesia del mondo latino, quella di Virgilio.

E anche più tardi il popolo romano sarà pronto a trasformare le sue legioni armate in legioni di lavoratori capaci di fecondare con la vanga sterminate province.

La civiltà romana, elaborata in maniera indipendente, ai margini del mondo greco, col progredire della sua espansione, viene ad essere integrata nell’area della civiltà greca. Gli antichi stessi ne ebbero coscienza e Orazio espresse questo fatto fondamentale con i versi famosi: «La Grecia, vinta, a sua volta vinse il suo selvaggio vincitore, e portò la civiltà delle arti nel rozzo Lazio».

Vi fu un processo simultaneo e solidale d’immensa portata: la romanizzazione dell’oriente ellenistico e la ellenizzazione dell’occidente romano. Da allora non esiste una civiltà ellenistica separata da una civiltà latina, ma una cultura ellenistico-romana.

Naturalmente, mutando con le conquiste la scena politica e la struttura economica della società, a poco a poco i romani cominciarono a subire il fascino di un’arte e d’un pensiero più vasto e profondo e a sentire il bisogno di una cultura più elevata. L’influsso delle scuole greche si fece allora gradatamente sentire e si iniziò anche a Roma una vera e propria organizzazione scolastica. Il successo del nuovo tipo di scuola non fu ottenuto senza contrasti.

Il loro carattere prevalentemente formalista e intellettualista, il loro legame con la sofistica greca e un certo scetticismo relativista che sembrava diffondessero le faceva diventare pericolose alla gioventù romana.

Già nel 155 a. C. il Senato aveva allontanato tre filosofi greci molto loquaci, e tra essi Carneade, venuti in Roma a perorare la causa della patria in qualità di ambasciatori.

Nel 92 a. C. i censori emanarono un decreto con cui si condannavano tali scuole, i loro maestri e i frequentatori, accusati, al dire di Aulo Gellio, d’introdurre novità «contrarie ai costumi e ai precetti dei maggiori».

Invano, perché proprio in quel secolo non solo venne di moda frequentare scuole retoriche, ma i più abbienti inviavano i propri figliuoli a compiere gli studi in oriente, specialmente ad Atene e a Rodi. Tra gli altri andarono a Rodi ad ascoltare Posidonio personaggi come Cicerone e, per ben due volte, Pompeo.

Cicerone, come vedremo, assimilò da par suo la cultura e il pensiero dell’Ellade e si orientò verso un prudente eclettismo, che cerca di trar profitto dalle diverse dottrine, fondendone insieme i motivi più validi e persuasivi.

Fra i moralisti romani giunsero a grande altezza Seneca (4 – 65 d. C. – Per la trattazione della figura e del pensiero di Seneca si rimanda al testo Seneca. L’immagine della vita, a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998, pubblicato integralmente nel wito.www.ccdc.it) e Marco Aurelio (121 – 180 d. C.). Nello stoicismo, a cui essi aderivano, essi infondono un calore umano, che non si ravvisa nelle fonti greche, una nota di vissuta esperienza, immune da esibizioni di intransigente durezza.

Il pensiero di Marco Aurelio è un appello alla vita interiore: «scava in te stesso, dentro è la fonte di ogni bene»; «nessuno può intaccare la tua ragione tranne te stesso»; «se v’è un Dio, tutto va bene. E se il mondo è governato dal caso? Vedi tu di non governare a caso te stesso». Tuttavia il raccoglimento in se stesso non esonera dall’amore degli uomini, anche dei nemici e dei persecutori, né dal dovere dell’azione a vantaggio dell’umanità: «È una particolare prerogativa dell’uomo amare anche coloro che cadono nell’errore; questo avviene nel momento in cui comprendiamo che gli uomini sono nostri fratelli, che il peccato è inintenzionale ed è frutto di ignoranza, che la morte incombe su tutti, e che, dopo tutto, non è stata fatta a noi nessuna ingiuria, perché il nostro intimo non è peggiore di quello che era prima».

Al mondo romano appartiene anche Epitteto (50 – 125 d. C.), nato a Ierapoli in Frigia e schiavo in Roma di Epafrodito, liberto di Nerone. Epitteto distingue le cose che dipendono da noi e le cose che non dipendono da noi. Dipendono da noi la volontà, l’opinione, la disposizione dell’anima, il desiderio, l’avversione e tutti i nostri atti: «L’essenza del bene e del male sta nell’atteggiamento della volontà».

Non dipendono da noi il corpo, le ricchezze, la stima altrui, il godere di buona salute, i maltrattamenti fisici o la disapprovazione dell’imperatore, difendersi dalla morte o dalle sciagure per sé o gli amici e parenti, tutto ciò che non dipende solo dagli sforzi individuali. La felicità, la saggezza, la libertà hanno il loro fondamento in ciò che è in nostro potere: «Sia ben chiaro che nulla è più plasmabile dell’animo umano. Esercita la tua volontà e tutto è fatto e fatto bene; diminuisci la vigilanza, e tutto è perduto, perché dall’intimo sopravviene la rovina e dall’intimo sopravviene la salvezza». Tipica incarnazione della grandezza stoica, Epitteto insiste sulla necessità della coerenza della vita col pensiero. Il poeta della vita umana è la divinità, che regge il mondo stesso e che ci assegna una parte, alla quale dobbiamo essere fedeli.

Un posto a parte ha nel pensiero romano Tito Lucrezio Caro (99 o 96 a. C. – 55 a. C.), poeta di alta e complessa ispirazione, il quale riprende e svolge nel De rerum natura i temi consueti dell’epicureismo, velandoli con una malinconia, una pietà per il male e il dolore che colpiscono tutte le cose, che già c’era in Epicuro, ma più contenuta, più neutralizzata e anzi spesso addirittura superata dalla ragione. È una pietà per il dolore cosmico, ma è soprattutto pietà per l’uomo e in particolar modo per l’uomo non saggio.

CICERONE

Marco Tullio Cicerone (106 – 43 a.C.), l’uomo nuovo di Arpinate che stimava i valori del vecchio mondo latino, espressi – e, a dire il vero, esagerati – dal conservatorismo di Catone il Censore (234 – 149 a. C.), ma vedeva nell’aprirsi della vita e della cultura romana alle attrattive del sapere, della bellezza, della civiltà greca qualcosa che avveniva non a caso, ma per un naturale bisogno di trasformazione del costume e di slargamento di orizzonti, è il creatore di una nuova espressione del pensiero filosofico, quella risultante dall’incontro del pensiero greco con l’eredità più alta dello spirito romano.

Cicerone seppe per primo piegare la lingua latina a esprimere concetti nuovi e a fornire al mondo romano un panorama di tutta la filosofia. Anche dal punto di vista linguistico Cicerone ha contribuito ad arricchire il vocabolario filosofico, rendendolo più vario, duttile, agile, capace di riprodurre, persino in molte sfumature, il linguaggio greco, benché questo sia favorito, in confronto al latino, dalla facilità di formare astratti e composti.

Egli sentì e proclamò di essere stato il primo a far parlare alla filosofia la lingua latina.

Critica della communis opinio dei detrattori dell’opera filosofica di Cicerone

Le più recenti scoperte sul primo Aristotele, su Epicuro, su Panezio e Posidonio hanno fatto giustizia delle accuse mosse all’opera di Cicerone.

Cicerone non è un mero compilatore di notizie come Diogene Laerzio, né tanto meno un manipolatore che fraintende e confonde il pensiero altrui, secondo il giudizio dell’olandese Johan Nicolai Madvig e del tedesco Theodor Mommsen. L’opera di Cicerone è un’immensa miniera per ricostruire alcune tappe fino a qualche tempo fa poco considerate dalla filosofia greca.

Cicerone coglie l’essenziale di ogni posizione che gli sta di fronte e tende a motivare un’argomentazione dai più diversi punti di vista, combattendo spesso le opinioni di una scuola con gli argomenti di un’altra.

L’italiano Claudio Moreschini e il tedesco Robert Philippson hanno così precisato il nuovo indirizzo interpretativo che capovolge la communis opinio, la quale risale al Madvig e al Mommsen; il metodo di composizione delle opere filosofiche di Cicerone presenta tre caratteri fondamentali:

– l’autonomia delle fonti

– l’autonomo ordinamento della materia

– la personale espressione artistica.

Il famoso passo dell’Epistola ad Attico che valeva per i detrattori come esplicita testimonianza della mancanza di originalità di Cicerone in campo filosofico («apographa sunt, minore labore fiunt, verba tantum affero quibus abundo»; XII, 52, 3) va compreso nel suo reale contesto: la modestia di Cicerone è poco sincera, si tratta di un paradosso, di un motto di spirito che non va preso alla lettera in nessuno dei suoi termini. Non è vero che Cicerone dedichi meno cure alle sue opere filosofiche. È ingiusto, perciò, considerare l’Epistola ad Attico come unica testimonianza valida del metodo ciceroniano.

Cicerone adoperò gli excerpta così come oggi si adoperano le raccolte antologiche o i sommari e ne chiese ad Attico uno anche su Posedonio, lo stoico platonizzante cui l’arpinate era legato non solo da conoscenza personale, ma da vera familiarità.

Bisogna dunque ammettere che Cicerone abbia consultato tali riassunti, ma dove e in quale estensione li abbia adoperati è molto difficile dire. D’altra parte, al solito, è proprio l’epistolario di Cicerone che ci attesta la minuziosità dell’informazione che Cicerone usa per ogni opera. Per esempio chiede tutte le opere di Dicearco nell’Epistola XIII, 32 e nell’Epistola II, 2 vuole prendere visione della Costituzione di Pellene, pur possedendo già le Costituzioni di Corinto e di Atene del medesimo autore. Se si tiene conto che queste letture gli sono servite per una piccola parte del De re pubblica, si deve concludere che alla base delle opere filosofiche più impegnate vi fu una documentazione estremamente ricca.

Tutto ciò sta a provare che l’attività di Cicerone nel campo della filosofia non è l’attività di un dilettante: il che è confermato, del resto, dalla sua capacità di tradurre il greco.

Non basta dire «Cicerone è un eclettico», se non si precisa in che misura lo sia stato e che cosa significhi, nel positivo e nel negativo, il suo eclettismo. Cicerone non è certo Platone, ma la sua voce non è priva di un suo significato umano e civile.

«Fra le inevitabili amplificazioni dell’avvocato, avvertiamo il brivido dell’universale» – ha scritto Ettore Paratore.

Cicerone all’inizio si accosta alla filosofia in funzione di verifica e di integrazione critica dei suoi ideali politici, vincolando troppo fortemente filosofia e vita politica, e trasferendo in quella le incertezze e l’ampio margine di opinabilità propri di questa; ma ben presto prende in lui il sopravvento l’uomo che si interroga sul senso dell’esistenza, l’uomo che non può rinunciare al suo travaglio metafisico senza di cui sarebbe appunto uomo diminuito, «philosophus minutus».

Cicerone comincia con la filosofia civile, ma prosegue con indagini gnoseologiche e metafisiche, dando però sempre il primato, in ogni opera, all’etica. E giustamente Virginia Guazzoni Foà ha osservato che se dubbi e incertezze sono messi a nudo nella trattazione del problema metafisico, il tono si fa sicuro e l’espressione assume l’andamento della massima lapidaria quando l’arpinate difende il valore morale dell’onestà voluta per sé, l’«honestus recti», senza riguardo al danno o al profitto, al piacere o al dolore che ce ne può derivare.

L’itinerario speculativo

Gli interessi filosofici di Cicerone diventano preponderanti a cominciare dalle prime avvisaglie della guerra civile.

Nel 55 a. C., dopo il Convegno di Lucca, che rinnova l’accordo diventato ormai precario tra Pompeo e Cesare, l’arpinate comincia a scrivere il De re pubblica. Mentre Platone aveva dato vita all’utopia dello Stato ideale, Cicerone idealizzò lo Stato reale della repubblica romana.

Un secolo prima Polibio, interpretando le forze politiche contrastanti della repubblica romana come sue componenti essenziali, ravvisava il potere monarchico nei consoli, il potere oligarchico nel senato e il potere democratico nel popolo.

Cicerone afferma che nessuna delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) è buona per se stessa e che è preferibile quella quarta forma costituita dalla sintesi e dal contemperamento di tutte e tre, secondo l’esempio di Roma.

Nelle mutate situazioni storiche per operare positivamente questa forma esige l’auctoritas del princeps, d’un primus inter pares moderatore della cosa pubblica, custode d’un equilibrio di poteri senza di cui non c’è che tirannia e servitù.

Del De re pubblica noi possiamo ravvisare il preannunciato teorico del regime augusteo a partire dal celebre gesto del 27 a. C.

Nel sesto libro, sotto la finzione di un sogno raccontato da Scipione, si pone il problema dell’immortalità dell’anima. È il celebre Somnium Scipionis, la sola parte conosciuta fino al 1822. In esso Cicerone sa trovare accenti e riflessioni personali, pur muovendosi lungo una direttrice che s’ispira al Fedone platonico. Lui, così morbosamente sensibile alla gloria, così tentato di vanteria, qui sa obiettivare il carattere illusorio della pseudo-immortalità delle opere e del ricordo e lo fa con grande vigore realistico.

«Non ti affidare alle chiacchiere del volgo. Quelli stessi che parlano di noi, per quanto tempo ne parleranno? Tutto si spegne nell’oblio della posterità. Solo la virtù col suo fascino può sollevarti alla vera gloria, rendendoti degno di una felicità non peritura. Tu, dunque, sforzati a ben operare e tieni per fermo che non tu sei mortale, ma solo questo tuo corpo. Il tuo vero io non è quello che il tuo terreno aspetto manifesta, perché l’anima di ognuno è la sua vera individualità, non quella figura che può essere mostrata a dito».

Il tono si abbassa nella conclusione: la via più degna per la beatitudine è quella di dedicarsi al bene comune, alla salus rei publicae. Qui un’esigenza assoluta viene imprigionata entro le barriere di un’interpretazione ancora tradizionale e politicistica della virtù. La polis romana diventa metro e orizzonte della stessa verità e del destino dell’uomo.

Dopo Farsalo (48 a. C.), dopo l’anno passato a Brindisi, in attesa che la situazione si decantasse a Roma, l’unico rifugio di Cicerone fu l’«otium cum dignitate» della vita intellettuale, della meditazione filosofica.

Il divorzio da Terenzia e il senile invaghimento della pupilla Publilia alimentano per un attimo forse fragili illusioni, ma la morte di parto della prediletta Tulliola obbliga Cicerone a rientrare in sé, ad avvertire la vanità di ogni evasione.

Sono questi gli anni in cui l’arpinate traduce il Timeo e il Protagora e scrive il meglio delle sue opere filosofiche.

Se il De consolatione inaugura nelle lettere latine il genere letterario e filosofico che sarà illustrato da Seneca e da Boezio, con l’Hortensius Cicerone si pone nel solco del Protrettico del primo Aristotele e noi dobbiamo tanto più deprecare la perdita di quest’opera in quanto la sua lettura determinò la conversione del giovane Agostino alla filosofia e alla interiorità della vita morale.

Di carattere più propriamente filosofico gli Academica ci mostrano Cicerone incline ad un prudente agnosticismo in gnoseologia, soprattutto quando l’oggetto da conoscere è un fenomeno naturale.

Meglio esitare, che concludere attestandosi su posizioni errate o comunque dogmatiche, indimostrabili. Ma i dubbi dell’arpinate sono sempre superati quando si affrontano i più decisivi problemi morali.

Così nei Paradoxa stoicorum l’anima di verità della morale stoica è bene enucleata e difesa ed essa viene assimilata alla grande scoperta socratica della interiorità del bene morale, della purezza di intenzione e della coerenza tra i fini voluti e i mezzi posti in atto per conseguirli («illa… admirabilia… maxime videntur esse socratica longeque verissima»).

La certezza e la visione serena conquistate sul problema morale sono rese evidenti anche dallo svolgimento del De finibus bonorum et malorum (Dei limiti estremi dei beni e dei mali), mirante a determinare quel bene perfetto, quel telos, desiderabile per se stesso, e dunque fine ultimo a cui ogni altro va coordinato e subordinato.

Cicerone espone e critica l’edonismo raffinato di Epicuro e il rigorismo astratto dello stoicismo originario. La soluzione più umana è quella peripatetica, che meglio illumina la nostra concreta esperienza di esseri che attuano la virtù investendo della forza direttrice della ragione gli appetiti naturali e il complesso della vita istintuale.

In verità noi sappiamo che il Platone dell’avanzata maturità, il Platone del Filebo, aveva già impostato la questione in quei termini di equilibrio realistico, correggendo l’impostazione rigoristica e dualistica del Fedone e preannunciando quella dell’Etica Nicomachea.

Il tema dell’umana felicità domina da cima a fondo le Tusculanae disputationes, una delle opere più fortunate e più lette di Cicerone.

Il timore della morte viene insistentemente esorcizzato in nome di una saggezza stoicizzante, che ci insegna pure a rendere impotente il dolore.

Agostino prima e Kant poi dimostreranno che l’anestesia stoica è illusoria e che non esiste quaggiù identità di virtù e di felicità. La virtù è dramma, sacrificio, talora martirio: e ciò è vero da Socrate a Gandhi. Ma le pagine di Cicerone schiudono all’intelligenza del romano l’intuizione del valore incomparabile della vita interiore, dell’interiorità spirituale.

Cicerone, pur nei suoi limiti, è anche qui colui che prepara la via che sarà percorsa da Seneca e da Marco Aurelio, con ben altra profondità.

L’ultima opera di argomento morale, i tre libri del De officiis («Sui doveri»), fu scritta nel 44 a. C. per il figlio bisognoso dell’ammonizione paterna, nella forma più decisa e solenne del trattato morale. È un libro ricco di saggezza pratica dove l’argomentazione cede all’esemplificazione. E nondimeno Cicerone propone al lettore due problemi sempre attuali:

Il primo è: «qual è il rapporto tra scelta morale e situazione?».

Se la situazione comandasse la volizione e tra l’una e l’altra vi fosse un rapporto di identità, non sorgerebbe nemmeno la vita morale, che è sempre scelta e assunzione di responsabilità. E, d’altra parte, la scelta è sempre in rapporto a qualcosa e a qualcuno e la libertà è sempre condizionata e non assoluta. La virtù è virtù d’una persona operante in un dato momento storico, in relazione a circostanze con le quali essa deve fare i conti.

L’altro problema a lungo dibattuto nel De officiis è il rapporto tra l’utile e l’honestum: l’uomo può e deve cercare l’utile, ma non in violazione del bene morale; qualora si profila il conflitto, l’uomo che vuol essere fedele al comune vincolo di umanità sacrificherà l’utile, l’interesse, il comodo, l’egoismo, il successo ad ogni costo a quella legge di vita che è scritta nelle tavole di carne del nostro cuore, a quel criterio di verità oggettivo e universale, all’honestum.

Ambrogio, Voltaire e Federico il Grande vedranno in queste considerazioni qualcosa di universalmente umano e le apprezzeranno altamente.

In esse, effettivamente, Cicerone sa andare oltre l’amplificazione retorica, per far grandeggiare una verità di cui tutti gli uomini hanno bisogno, in nome di quella legge naturale che Sofocle prima e gli stoici poi dissero più alta di ogni legge scritta e di ogni convenzione sociale.

Al problema religioso Cicerone, così vicino alle posizioni platoneggianti (Panezio e l’amico Posedonio) del Medio Stoa, dedica tre scritti: De natura deorum, De divinatione, De fato.

Nel De natura deorum l’arpinate critica la concezione meccanicistica propria dell’atomismo epicureo: «Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene che corpi solidi ed invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si raccogliessero da qualche parte in numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro o in altro materiale e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli Annali di Ennio ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non riuscirebbe forse a realizzare neppure limitatamente ad un solo verso» (II, 37, 93).

Cicerone pensa Dio come un’intelligenza libera e trascendente, autocoscienza assoluta e provvidenza (Tusc., I, 27, 66).

Con Cicerone, come ancor più con Seneca, Dio comincia ad essere concepito non come un’anonima forza coesiva e produttrice del cosmo, ma come persona.

I caratteri di perfezione che presenta l’universo offrono, a parere di Cicerone, una base sicura all’affermazione che esso deve avere per causa non il caso o la necessità, ma Dio.

Come al solito Cicerone è ben preciso nel respingere le tesi epicuree (espresse nel dialogo con Vellio) di divinità assenti e noncuranti del dramma umano; ma Cicerone parla sia di Dio che di Dei, non passa mai a criticare direttamente il politeismo, né distingue la sua pur netta affermazione di trascendenza dal panteismo stoico.

Tuttavia l’arpinate nei due scritti complementari al De natura deorum tira alcune conclusioni coerenti e interessanti che possono essere così riassunte:

  1. la scienza augurale è superstizione e impostura; negare la divinazione non significa negare la divinità e la provvidenza; sbagliano gli stoici a collegare cose che si escludono a vicenda;
  2. l’uomo è chiamato a realizzare un ordine razionale con la sua libertà; sbagliano pertanto gli epicurei e gli stoici quando mettono in campo dottrine pseudo-metafisiche che rendono impossibile spiegare l’autodeterminazione del volere. L’ordine naturale dell’universo esige l’ordine libero della creazione morale a suo vertice e a suo compimento.

Conclusioni

Cicerone parte dallo stoicismo, ne sente il fascino in campo etico, ma se ne allontana; si professa probabilista in gnoseologia, ma si accosta a posizioni platoniche e aristoteliche. In queste oscillazioni consiste il punto debole del suo eclettismo.

Aspira ad una sintesi organica, non vi perviene mai. Cicerone è però coerente, fino in fondo, nei confronti di una sola dottrina: nel respingere in toto l’epicureismo.

Cicerone merita tuttavia un posto nella storia della filosofia come fonte preziosa e insostituibile per conoscere una parte del pensiero greco troppo mal conosciuta, come creatore di un linguaggio filosofico che il mondo latino non possedeva e come iniziatore di un certo tipo di letteratura filosofica, che poi avrebbe avuto grande successo. Cicerone ha inoltre diffuso quel principio di eguaglianza e il concetto di humanitas, destinati ad esercitare un’influenza vastissima in alcune epoche e che, se liberati da certe angustie e incoerenze che furono di Cicerone uomo e pensatore, possono essere una direttrice e una fonte di ispirazione anche per noi e per il nostro tempo.

Giudizi sulla filosofia di Cicerone

«Cicerone non ha dato nuove idee al mondo… Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte le voci».

Il suo contributo maggiore sta nella diffusione e divulgazione della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente una figura essenziale nella storia spirituale dell’Occidente[1]. «Anche qui si manifesta la forza divulgatrice e animatrice dell’ingegno latino: perché nessun greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto Cicerone, il pensiero greco per il mondo» (Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, 1 vol., Principato, Milano-Messina, ottava edizione, 1955, p.317).

«Cicerone offre, in un certo senso, il più bel paradigma di pensiero eclettico che è come dire il più bel paradigma della più povera delle filosofie […] Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è riversata nell’area della cultura romana e, poi, in tutto l’Occidente […] Cicerone ha intuizioni felici e anche acute su problemi particolari, specie su problemi morali e anche analisi penetranti: ma si tratta di intuizioni e analisi che si collocano, per così dire, a valle della filosofia; sui problemi che stanno a monte egli ha poco da dire» (G. Reale, op.cit., III, , p. 5).

Le risposte ai problemi ontologici e antropologici sono incerte e talora ambigue. Sulla natura dell’anima si notano le stesse oscillazioni tra spiritualismo e materialismo che a proposito del problema della natura di Dio.

Scrive infatti Cicerone (Tuscul. disp., I, 26, 65): «l’anima è di natura divina, è un Dio, come osa dire Euripide. E certo, se la divinità è aria o fuoco, lo stesso è dell’anima dell’uomo: se la divina essenza non è né terra né acqua, anche l’anima umana è sgombra di quei due elementi. Se poi esiste una quinta essenza, quella introdotta da Aristotele, essa appartiene sia alla divinità che all’anima».

Ma aria, fuoco e la quinta essenza o etere sono sempre materie.

Le ragioni dell’ambiguità sono non contingenti, ma strutturali.

Delle due l’una: «o si recuperavano i risultati della seconda navigazione platonica e il senso del trascendente, oppure le affermazioni sulla spiritualità di Dio dovevano rimanere senza alcun senso teoretico» (G. Reale, op.cit., III, p. 555).

PLOTINO E IL NEOPLATONISMO

La vita e il messaggio essenziale

Nel secondo periodo dell’ellenismo – che va da Augusto a Giustiniano – Roma domina in campo politico, almeno fino a Marco Aurelio (morto nel 180), e ci dà nel contempo i frutti più alti del suo genio nell’arte, nella letteratura, nell’eloquenza nel diritto.

Nella filosofia furono veri maestri d’umanità Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto (dei tre solo il primo scrisse in latino).

La potenza creativa e l’originalità etico-religiosa del cristianesimo si manifestarono anche in campo culturale con l’apologetica e la patristica, greca e latina, avviando un’esperienza nuova, l’uso cristiano della ragione, che caratterizzerà in modo indelebile la speculazione e la civiltà dei secoli successivi.

La cultura ellenistica tende, invece, a esaurirsi proprio nella sua zona originaria ed elettiva, nel Mediterraneo orientale, da Alessandria a Rodi, ove l’arte e la scienza chiudono il loro momento eroico.

Anche nella letteratura, malgrado la presenza di forme letterarie nuove (il romanzo, la biografia, l’epistolografia), è in atto un generale processo di estenuazione e di decadenza.

Vi è una sola e grande eccezione ed è in filosofia: Plotino, il quarto big del pensiero greco, accanto a Socrate, Platone e Aristotele, il pensatore in cui si incontrano l’oriente e l’occidente greco-romano. L’interesse neoplatonico per i problemi della vita morale e spirituale, l’ansia del divino che la crisi scettica non aveva spento e che il vago panteismo degli stoici aveva frustrato più che soddisfatto, non blocca la via a ricerche teoretiche, ma anzi in Plotino trova uno sviluppo originale e geniale, che rappresenta una delle tappe fondamentali della storia della filosofia.

Plotino nacque a Licopoli in Egitto nel 204 d. C. e visse 66 anni.

A 28 anni conobbe in Alessandria Ammonio Sacca, neoplatonico. «Entrò e udì la lezione; poi disse all’amico: questo è l’uomo che cercavo».

Nel circolo di Ammonio Sacca vi rimase fino a 38 anni.

Cercò un contatto diretto con la filosofia persiana e indiana al seguito della spedizione dell’imperatore Gordiano III contro i persiani (243 d.C.); fu un’esperienza drammatica: l’imperatore fu ucciso in Mesopotamia e Plotino riparò ad Antiochia.

Nel 244 a 40 anni è a Roma, dove apre una scuola, ma non scrive nulla.

Dopo i 50 anni cominciò a scrivere: di getto, in maniera continua, senza rileggere per un difetto della vista (come Maurice Blondel!).

Il discepolo Porfirio ordinò gli scritti, raggruppandoli per argomenti affini e dando il titolo di Nove vie (ennea odoi cioè Enneadi) perché ognuno dei sei libri comprende nove trattati.

La scuola era affollata da giovani d’ambo i sessi; a chiunque era consentito di frequentare le riunioni, anche a uditori liberi. Le donne erano «tutte ardentemente dedite alla filosofia».

Plotino insegnava a «sottrarsi al flusso incalzante della vita di quaggiù», a «unirsi al divino», a conquistare una libertà – quella interiore – che non esige né guerre né rivoluzioni.

Tutore di giovani orfani, direttore spirituale dell’aristocrazia intellettuale del suo tempo, Plotino era di carattere gentile e amabile.

Fallito il disegno di una «Platonopoli», malato, piagato nelle mani e nei piedi, arrochita la voce, si ritirò in Campania nella tenuta di un amico e lì morì in solitudine.

Al medico Eustichio furono rivolte le ultime parole: «Cercate di ricongiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo».

Il messaggio di Plotino è umano, di una umanità tutta interiore, il cui motto è «tutto è dentro» e la cui suprema aspirazione è espressa dalle parole conclusive delle Enneadi: «Fuga da solo a Solo!».

Il plotinismo è la prima filosofia che ci dà la più compiuta «genesi dell’umanesimo interiore» (Pietro Prini, Plotino e la genesi dell’umanesimo interiore, Edizione Abete, Roma 1968). «Plotino ha fondato la sua dottrina della saggezza sopra l’intuizione dell’immenso valore “pratico” del silenzio, del raccoglimento, della ricchezza interiore» (P. Prini, op.cit., p. 139).

Le anime hanno una capacità di azione buona proporzionata alla visione di ciò che hanno saputo contemplare «nella pianura della Verità» (Platone, Fedro, 246 a, 249 d). L’azione irradia ciò che si contempla.

Come Kant, Plotino è affascinato dallo spettacolo delle stelle, che suscitano un senso di rispetto colmo di venerazione.

Il cielo stellato è l’immagine evidente e gloriosa di una inconcepibile sapienza; una forza spirituale meravigliosa vi si rivela.

Plotino afferma la realtà del mondo, concreta foresta di simboli, da cui ci perviene la spinta a risalire alla divina sorgente dove tutto è uno e indiviso. «Chi non sa guardare nemmeno il mondo sensibile è ben lontano dal contemplare il mondo intelligibile» (Enneadi).

Guai a colui che, come gli gnostici, pensasse di dover censurare il mondo e biasimare il Primo Principio, e credesse di amare Dio volgendo le spalle al mondo. «Quando si ama qualcuno si amano anche tutti quelli che stanno con lui in rapporto di parentela, si amano i figli quando si ama il padre loro. Ora ogni anima ha la sua origine nell’Eterno Padre». «Il mondo sensibile esiste per lui e guarda lassù» (Enneadi).

Plotino ha cercato nella tradizione platonica e in tutto il pensiero greco gli elementi di una costruzione razionale per giustificare il senso di continuità di tutto il reale, l’ineffabilità della divina presenza, la libertà interiore dell’anima nella sua dialettica ascesa all’Uno-Bene.

Ostile al materialismo degli stoici e degli epicurei, tenace oppositore del pensiero gnostico che gli appare una curiosa applicazione della più sregolata immaginazione ai problemi filosofici e teologici, Plotino recepisce da Parmenide la necessità della correlazione tra essere e pensiero e approfondisce le componenti metafisiche e mistiche del pensiero di Platone, «filosofo per eccellenza».

Non è però un eclettico: «un’ispirazione nuova dà un senso inedito alle singole teorie prese a prestito: il tutto impone alle parti un nuovo significato» (Eric Robertson Dodds).

Non è un epigono, ma un fondatore.

Plotino offre una dottrina di Dio più esplicita di quella di Platone e meno astratta di quella di Aristotele.

L’Uno non è nulla di ciò che conosciamo e solo in opposizione dialettica al molteplice l’anima lo intuisce e lo definisce, per via negativa.

Plotino è un esponente della teologia negativa o apofatica (dal greco apò, separazione, allontanamento) che considera irriferibili a Dio, che è l’Assoluto assolutamente trascendente, i nomi o predicati con i quali si cerca di designarlo.

Altri grandi maestri della teologia negativa sono: Filone Ebreo, Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, Scoto Eriugena, Meister Eckhart, Niccolò Cusano, Søren Kierkegaard, Karl Barth.

Tuttavia la concezione di Plotino è carica di ambiguità per la costitutiva oscillazione fra l’esasperata trascendenza dell’Uno e l’immanenza richiesta da una spiegazione emanatistica dell’universo. Questa è l’aporia centrale del sistema ed è impossibile voler ricondurre il pensiero di Plotino a uno solo dei due poli, in cui esso realmente oscilla senza trovare una composizione armonica e soddisfacente.

Il tentativo disperato di dispensare il primo Principio dall’essere creatore a titolo immediato e il modo orfico-platonico di considerare il corpo attestano, peraltro, una non superata, persistente mentalità dualistica anche nel pensatore che più di ogni altro aveva radicalmente affermato l’esigenza unitaria.

Plotino ebbe un’influenza enorme sulla Patristica greca e latina (Gregorio di Nissa, Agostino, Pseudo-Dionigi l’Areopagita), sulla scolastica (da Boezio a Tommaso), sugli arabi, sugli umanisti (da Dante a Ficino), su Hegel, Schopenhauer e Bergson.

La processione dell’Uno

L’emanatismo è la dottrina del processo discensivo dall’Uno alla materia. L’emanazione lascia intatto il principio da cui deriva, come il sole non affievolisce il suo splendore per la luce che da lui si irradia. Ma come la luce viene via via digradando man mano che si allontana dalla sorgente luminosa, così il processo cosmico che deriva dall’Uno si va depotenziando nella capacità della materia, piuttosto non essere che essere.

L’Uno-Bene non è nulla di ciò che conosciamo, benché tutto viene da lui. Esclude ogni molteplicità e dipendenza, ma è vita e attività pura. Si pensa per vivente coscienza di sé.

Egli trascende tutte le categorie del pensiero umano in virtù della sua assoluta perfezione. «Che c’è il Primo risulta da ciò che c’è dopo di esso e da esso».

Infatti «ricercare il fondamento di qualcosa significa ricercare un fondamento diverso da essa, ma il fondamento originario non ha fondamento».

L’Uno è l’Assoluto, il Principio senza principio, l’Uno in sé.

Plotino rifonda la metafisica classica, con la sua concezione dell’infinito non più nello spazio e nel tempo, come l’avevano concepito i naturalisti, ma nella dimensione spirituale.

«Potenza abissalmente infinita», «Egli non rientra né in una misura né in un numero». «Egli non attinge a una diversa fonte», ma è causa sui. «La sua volontà e la sua essenza coincidono… come Egli volle, così anche è». «Egli è un compagno di viaggio a se stesso, giacché è proprio quello che vuole»; «Egli non è così com’è, perché non poteva essere diverso, ma perché questo suo “così com’è” è quanto di più alto si possa immaginare» (Enneadi).

L’Uno è libera attività autoproduttrice. Non ha il bene, ma è Bene, l’Agathon assolutamente trascendente.

Il Principio primo è Bene e non a proprio vantaggio, non avendo bisogno di nulla; ma è bene per gli altri esseri che eventualmente siano in grado di parteciparne.

Plotino confuta in anticipo la concezione patologica di un «dio vampiro», che si nutre di ciò che sottrae all’uomo.

«Chi è principio non può aver bisogno di ciò che gli tien dietro; il principio del tutto non ha affatto bisogno di questo tutto». «Egli è il Bene in sé e non come uno che agisce secondo il bene» (Enneadi).

Assolutamente semplice, semplicità anteriore a ogni altra, «tutto il suo contenuto non solo è in lui, ma anche con lui». «Egli discerne perfettamente se stesso» (autocoscienza assoluta).

Non pensa sdoppiandosi in pensante e in pensato, giacché tale sdoppiamento implica, appunto, rottura dell’unità, e quindi il suo pensiero trascende la nostra possibilità di determinarlo e comprenderlo.

«Il pensiero umano si muove in seno alle distinzioni del finito e della molteplicità; non così l’Uno. Se questo è il pensiero, l’Uno è al di là di esso».

In quanto infinito, a lui non si addice alcuna delle determinazioni del finito, che sono posteriori a lui. «Egli riesce ineffabile nel senso vero del termine. Qualsiasi parola tu pronunzi, tu avrai pur sempre espresso qualcosa; tuttavia, l’espressione “al di là di tutto” è l’unica che risponde al vero tra tutte le altre… Egli è l’Innominato, appunto perché non sappiamo dire nulla sul suo conto, ma tentiamo, come ci viene, alla meglio, di dare qualche indicazione intorno a lui, solo per nostro uso, tra di noi». «Giriamo con le nostre parole intorno a qualcosa di inesprimibile a parole» (Enneadi).

L’anima umana avverte l’amara insufficienza del molteplice e, in opposizione dialettica ad esso, intuisce Dio. «Ma come, lui fermo, si svolge il divenire?». Perché e come dall’Uno sono derivati i molti?

«Pensa a una fontana che non abbia altro principio che se stessa, la quale però dia di se stessa a tutti quanti i fiumi, senza mai esaurirsi in essi, ma perseveri in sé» (III, 8, 10).

L’Uno è infinita forza traboccante, che nella sua insondabile libertà pone ciò che consegue necessariamente al suo operare. La processione è pertanto una necessità che consegue ad un atto di libertà.

Plotino non dice: tutto è Dio, ma tutto è potenza di Dio.

«Tutte le cose sono come una vita unica che si estende in linea retta. Ciascuno dei punti successivi della linea è differente, ma la linea intera è continua. Essa ha punti incessantemente diversi, ma il punto anteriore non perisce affatto nel punto che segue» (Enneadi).

La potenza emanatrice dell’Uno-Bene (Dio genera perché è Bene e il Bene ha una tendenza naturale ad espandersi) non si disperde in una molteplicità indefinita, ma si concentra in un soggetto sussistente o ipostasi.

La prima ipostasi, che si distingue dall’Uno senza separazione, è l’Intelligenza o Nous o Noesis Noeseos che con atto di intuizione produce il cosmo noetico o mondo delle Idee. L’Intelletto è la fonte di ogni determinazione, è l’essere per eccellenza. Esso è tutto: non però nella forma dispersa, bensì in una concentrazione assoluta, quale può aversi in un pensiero dove le determinazioni non siano reciprocamente esterne, ma tutte raccolte entro un solo principio, privo di esternità ed estensione.

È infinita ricchezza delle idee, è «come contenuta in un punto indivisibile, e ne esce fuori solo quando diviene operante» (Enneadi).

La seconda ipostasi è l’anima cosmica, intermediario tra il cosmo noetico e la realtà sensibile. L’anima cosmica, in quanto prodotta dallo Spirito, ne dipende e ne partecipa; ma è insieme Natura, potenza produttiva e inconsapevole. Indivisibile per la sua origine, «diventa divisibile nei corpi, restando nella sua interezza in ciascuna delle parti». L’anima cosmica entra tutta in tutte le parti (fonte primaria della concezione fondamentale di Arthur Schopenauer). L’anima fa vivere nel diverso ciò che ab aeterno ha contemplato nello Spirito, «la visione di lassù». E poiché essa implica la sua attività nel sensibile e in una successione di atti e momenti, il tempo sorge con l’anima cosmica.

Il mondo sensibile è positivo; in quanto prodotto dall’anima, è sotto il segno del Bene. Ma è anche privazione di Bene, cioè male, perché il principio informatore ha pur sempre a che fare con la materia. Il mondo non è il modello, ma una copia che imita il modello. In quanto immagine, è la più bella immagine dell’originale.

Nel sensibile il valore si preannuncia per accenni e presentimenti.

Limite estremo della generazione divina, la materia è la negatività assoluta in cui alla fine cessa l’irraggiamento dell’Uno. La materia tocca il massimo della deficienza ontologica.

Il dualismo di Plotino non è metafisico, ma dialettico.

La materia è il male, non come realtà cattiva opposta al Bene, ma come negatività, mancanza di ordine e di misura, pensiero oscuro, impotenza della volontà (I, 8; II, 4); (cfr. Gaetano Capone-Braga, Il mondo delle Idee, Carlo Marzorati Editore, II, Milano 1954, pp. 170 – 171).

L’anima cosmica include infine in sé: le anime dei corpi celesti o dèi secondi e visibili; i dèmoni, tramite tra gli dèi e il genere umano; le anime umane individuali.

L’anima individuale e le vie del ritorno

Collocata fra due limiti egualmente indefinibili, fra l’infinito e lo zero metafisico, fra l’Uno e la materia, l’anima individuale è l’autentico protos agonistés nel quadro della vita universale. Fuori di lei i piani ipostatici della realtà – malgrado la teoria emanatistica che ne vorrebbe salvare la continuità – sembrano irrigidirsi l’uno fuori dell’altro, ciascuno chiuso e autosufficiente in se stesso.

Soltanto l’anima individuale rende possibile la continuità e la sutura dei piani metafisici, in quanto li accoglie tutti dentro il suo ritmo interiore e tutti li riconquista nel dinamico processo della sua attività spirituale.

A questo titolo, essa è davvero compendio di tutto l’universo: il suo autoesplicarsi, dalla vita sensoriale inferiore alla mistica esperienza dell’Uno, è insieme un adeguarsi a un ordine realissimo e divino. La semplicità dell’anima, secondo Plotino, è provata dal fatto della stessa sensazione: se l’anima non fosse semplice e cioè tutta intera in tutto il corpo e tutta intera in ogni singola parte, la sensazione così come avviene non avverrebbe, perché una parte sentirebbe una parte e un’altra un’altra e non vi sarebbe l’unità della sensazione.

Chi vuol percepire qualcosa dev’essere in se stesso unità, e deve cogliere ogni cosa con l’identico principio, anche se per svariate vie ciò che è sentito penetra dentro al senziente.

I materialisti pensano che le complicazioni della materia diano origine alle anime e non vedono che, se una cosa passa da una condizione imperfetta a una perfetta, da una particolare potenza ad un atto, è necessario che preesista un assoluto perfetto e un assoluto in atto. Esiste prima ciò che vale di più.

Plotino non accoglie la concezione aristotelica dell’anima causa formale del corpo: l’anima ne è solo causa efficiente in relazione di profonda compresenza col corpo e non di unità sostanziale. Viene pure soppressa la causa ontologica dei mutui influssi del corpo sull’anima e dell’anima sul corpo.

Perché le anime si uniscono ai corpi?

L’anima ha in sé il desiderio di riprodurre fuori di sé, in qualche modo, quell’ordine di cose che contempla nell’intelligibile puro.

Plotino ha esercitato un influsso immenso nella concezione della vita, come indagatore finissimo di quella «storia dell’anima», di quella auto-biografia spirituale che ogni uomo, in qualsiasi temperie storica, va scrivendo con le sue conquiste e le sue viltà.

Sua è la formula che meglio esprime l’ansia di liberazione spirituale e la volontà di autoperfezionamento di tutta la paideia ellenistica: «Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita lo scultore di una statua che deve riuscire bella; quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinnanzi» (Enneadi).

La storia dell’anima è essenzialmente presa di coscienza della condizione umana e insieme dramma morale e religioso.

Impasto di necessità biologiche, attività conoscitiva e libertà, l’anima umana tende a vivere passionalmente secondo la spinta degli istinti, ma sa anche elevarsi al Bello, al Vero, al Bene.

È facile lasciarsi andare, ma nel groviglio dell’inconscio dei sensi e dei desideri smodati l’anima si perde.

È difficile affrontare il travaglio della riflessione e della volontà, ma attraverso quella fatica l’anima si risveglia, si ritrova e si instaura nell’Essere.

Le vie del ritorno

L’anima, avvinta alle cose, diventa dimentica di sé stessa e di Dio: «spregia il proprio essere e la sua origine» (Enneadi).

Ma l’anima il cui pensiero vince l’irrazionale, si fa veramente libera scegliendo per guida la ragione: «in ciò consiste la vera azione umana, quella che non scaturisce da estranea sorgente, ma rampolla dall’intimo, da un principio primordiale ch’è guida e signore» (Enneadi).

Questa presa di possesso dell’anima mediante la ragione – l’eterno messaggio di Socrate! – è la prima condizione che ci permette di elevarci e che sola rende fruttuose le vie idonee a ricondurci alla «Casa del Padre».

L’arte, l’amore, la virtù – le vie del ritorno – conducono all’Uno, ma solo se accompagnate e portate a compimento dalla presenza del pensiero.

Senza il pensiero razionale, i mezzi espressivi annuncerebbero se stessi e mancherebbe all’arte la funzione catartica, così come la feconda tensione fra idea ed espressione, contenuto e forma; l’amore degenererebbe in fariseismo ed egotismo; la virtù in mera disposizione naturale o convenienza sociale, priva di quella luce e verità che ne fanno un valore. La via liberatrice per eccellenza, la dialettica, o arte e metodo di elevazione al Bene, è lo stesso ritmo interiore della vita spirituale nel suo moto ascendente.

Se la schiavitù dell’anima è nell’esasperazione del contingente, del passionale, del banale, da cui si lascia occupare la nostra memoria empirica (mneme) ottenebrando la reminiscenza metafisica (anamnesis), il ritorno all’interiorità dell’io e a Dio è un riaccendersi dell’anamnesis e un conseguente affievolirsi della mneme.

«Il rapporto fra le due memorie – ha osservato il Faggin – è inversamente proporzionale, come la relazione fra i due oblii: l’anamnesis dell’Eterno è l’oblio dell’effimero, la memoria dell’effimero è oblio dell’Eterno».

«In questo ritmo è la vita dell’anima, ma anche il suo dramma interiore, che impegna tutto il gioco dei suoi affetti e delle sue sofferenze. L’oblio è più che una sospensione teoretica: è un atto eroico con cui l’anima taglia via ogni legame con la terra e annulla ricordi cari, dolcezze mondane, speranze vagheggiate, tutto ciò che costituisce la sua empirica individualità. All’acme del processo dialettico, l’anima non ha più bisogno né di riflessione, né di memoria, né di mediazioni logiche: ha raggiunto la visione immediata dell’Essere che è insieme visone di sé» («I neoplatonici», in Storia della Filosofia, a cura di Cornelio Fabro, Coletti, Roma 1954, p. 107).

L’estasi plotiniana (ek-stasis= uscita da sé per darsi a Dio) è uno spogliarsi di tutto per saziarsi di Dio, ma non è solo distacco, bensì esperienza positiva di una indicibile beatitudine.

È il telos dell’atto umano, sua realizzazione piena e perfetta; è vita, è fuga «da solo a Solo», semplificazione suprema dell’anima che toglie, elimina da sé ogni alterità.

Nell’estasi la ragione conosce le ragioni del suo venir meno (docta ignorantia); la persona non si trova in uno stato di incoscienza, bensì di ipercoscienza, non è infra-razionale, ma sovra-razionale.

È l’istante sublime in cui l’anima fa tutt’uno con Dio, abolendo ogni intervallo, ogni dualità, e allora si prova una «traboccante, gioiosa meraviglia», una «percossa, che non reca dolore».

«È impossibile distinguere l’anima da Dio, finché ella gioisce della Sua presenza. All’intimità di tale unione somiglia su questa terra quella di coloro che, amandosi, cercano di fondersi in un essere solo».

Non si può, dopo un’esperienza del genere, tornare tra gli uomini, se non col cuore mutato.

Nel neoplatonismo di Plotino, la filosofia tende a trapassare nella religione, o almeno tende a superare se stessa per aprirsi a ciò che la trascende e le dà compimento.

La riforma plotiniana della teoria delle Idee

Paradossalmente il Demiurgo per Platone occupa sempre un grado inferiore rispetto alle Idee, che costituiscono il vero assoluto.

Ma come è possibile che la Mente assoluta occupi un grado subordinato?

Un Assoluto subordinato non è l’Assoluto.

Per Plotino gli intelligibili non sono fuori della Mente divina, ma formano una sola cosa con essa. Dio è la verità stessa, conforme non a qualcosa che le sia estraneo, ma a se stessa.

Le idee sono atti vivi della Mente divina, non sono a caso, ma formano un cosmos noetos, un organismo di intelligibili, che Dio possiede e conosce intuitivamente, tutti in atto e non discorsivamente.

Nel mondo sensibile le cose diverse sono separate esteriormente; nel mondo intelligibile la distinzione è solo interiore e non impedisce la connessione organica delle idee nell’unità comune.

Per Plotino, come per Aristotele e per il pensiero cristiano, tante sono le forme quanti sono gli individui nella realtà. Così, ad esempio, gli uomini differiscono tra loro non solo per la materia, ma anche per i caratteri formali. Se c’è Socrate, ci deve essere l’idea individuale di Socrate nel Nous divino. Le differenze individuali si possono spiegare solo con le diverse idee, con idee individuali accanto a quelle universali. «Non bisogna temere di ammettere l’Infinità nell’intelligibile, poiché essa è tutta contenuta in un Principio indivisibile o Nous».

Differenze tra neo-platonismo e platonismo

In Plotino i piani della realtà sono collegati e fatti derivare gli uni dagli altri; in Platone era netta la separazione, spesso aporetico il rapporto di connessione.

Per i neoplatonici la deduzione del mondo fisico dal mondo soprafisico è totale e radicale e include la stessa materia, non forza negativa opposta alla positiva, ma mancanza e privazione del positivo.

Inoltre viene trasformato il concetto di assimilazione a Dio in quello di estasi e il concetto di vita filosofica in quello di vita mistica.

Platone è riconosciuto dai neoplatonici come il grande maestro, la fonte di ispirazione e non è mai criticato. Tuttavia il Platone che appassiona Plotino è solo quello metafisico e mistico-religioso.

I dialoghi a lui cari sono perciò il Fedone, il Fedro, il Simposio, il Timeo, i libri centrali della Repubblica, e subordinatamente il Sofista, il Filebo, il Parmenide.

Asceta non ignaro delle virtù civili, Plotino mette di fatto tra parentesi la componente politica del platonismo.

Plotino e Agostino

Di Plotino, al quale tanto deve Agostino, il più grande dei padri latini e, con lui, la chiesa universale, s’è potuto scrivere che, «pur non essendosi mai avvicinato al cristianesimo, fu un valido testimone dei suoi ideali spirituali e morali, non solo nei suoi scritti, ma anche nella sua vita» (F. Copleston, op.cit., p. I, p. 628).

Egli esercitò un forte influsso nel pensiero cristiano, sollecitando il cristianesimo a rivelarsi filosoficamente a se stesso.

Il pensiero cristiano non dipende da Plotino quanto al fondo autonomo della sua Weltanschauung, ma da lui prenderà a prestito temi e formule non meno che da Platone e Aristotele – e saranno prestiti filosoficamente giudicati – perché di tutte le istituzioni religiose solo il cristianesimo è in rapporto storico, anteriore e posteriore al suo apparire, con la filosofia delle epoche colte.

Il neoplatonismo era stato favorevolmente accolto nell’ambiente culturale cattolico di Milano, grazie anche alla traduzione in latino di Plotino e di altri scrittori neoplatonici fatta da Mario Vittorino.

Amico di Vittorino era stato Simpliciano, come risulta dal libro VIII delle Confessioni; Simpliciano aveva, a sua volta, guidato Ambrogio negli studi teologici e si può, quindi, pensare che il colto prete milanese abbia lavorato ad una fruttuosa assimilazione del meglio di quella filosofia all’organismo culturale del cristianesimo.

Quali che siano le ragioni del prevalere del pensiero di ispirazione neoplatonica nella cultura dell’Occidente cristiano in questo periodo, è certo che l’incontro di Agostino con i loro libri è preparato e matura in ambiente cristiano.

Agostino lesse le opere dei «platonici» quando non si era ancora del tutto emancipato da una residua mentalità manichea.

Egli cercava in Plotino, avversario degli gnostici, diretti antenati dei manichei, un aiuto a superare quegli ostacoli di ordine intellettuale, che rendevano ancora vaga e fluttuante la sua accettazione del cristianesimo.

Agostino legge Plotino in rapporto all’opzione di fondo: il sì o no totale alla visione cristiana della vita. Da questo punto di vista è esatto dire che «quando Agostino si incontrò con i platonici, si trovava sostanzialmente al di là dei platonici stessi» (Michele Federico Sciacca, S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949, p. 52).

Agostino sospinto da un’interiore inquietudine che non gli accorda più tregua, coglie in Plotino, assimila e trasfigura potentemente solo ciò che è o crede che sia in linea di concordanza e di continuità con il cristianesimo, mettendo tra parentesi il resto.

Nel suo animo trova un’eco immediata il nobile appello di Plotino all’interiorità, la sua splendida capacità di vedere nel Bene «la realtà a cui tutti gli esseri sono sospesi, che tutti desiderano e di cui tutti abbisognano» (Enneadi), un metodo di analisi razionale che gli fa comprendere la realtà dello spirito e Dio come suprema realtà spirituale.

Agostino accetta del neoplatonismo il concetto di filosofia intesa come amor sapientiae, la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile e, infine, l’indicazione per cui il male morale è sviamento da Dio.

Agostino passa sotto il silenzio nelle Confessioni che in Plotino si legge che «vi è un Primo Male, un Male in sé», la materia, il non essere che si mescola necessariamente alle cose, e che ogni realtà corporea è da fuggire.

Ma ben presto, già nelle opere scritte a Cassiciaco e in quelle immediatamente successive, Agostino constaterà che anche il neoplatonismo presentasse degli aspetti irriducibili alla concezione cristiana. Agostino individuerà e respingerà del neoplatonismo l’emanazionismo; il supporto offerto al culto pagano, al politeismo, all’animismo cosmico; la preesistenza dell’anima umana e la teoria della metempsicosi; la dottrina dell’unione dell’anima al corpo come pena; l’avversione al corporeo.

Sono aspetti centrali della concezione metafisica che a nessuno è lecito trascurare.

Il giudizio di Agostino sul neoplatonismo diventa ancora più misurato e critico nelle opere della maturità; ma già nel racconto delle Confessioni appare evidente che agli occhi di Agostino il vizio radicale del neoplatonismo è l’ignoranza in cui esso ci mantiene intorno alla doppia dottrina del peccato e della grazia che ce ne libera.

Sin dall’inizio Plotino appare ad Agostino, malgrado la magnanima interpretazione data dal suo pensiero, un medico che consiglia la salute senza conoscere la natura della malattia, né quella del rimedio.

Giudizi su Plotino

Antonin-Dalmace Sertillanges: la filosofia di Plotino è una «metafisica religiosa». Per la prima volta la filosofia cerca la propria unità sistematica nello studio della realtà suprema, a cui tutte le cose si collegano. Il tema unico della filosofia di Plotino è quello dell’Assoluto e della sua presenza ineffabile.

Luigi Stefanini, Estetica, Studium, Roma 1953, p. 15: «gran parte di ciò che il pensiero cristiano ha ricevuto da Plotino e dal neoplatonismo, è una restituzione di quanto il pensiero ebraico e cristiano ha donato a Plotino e al neoplatonismo: la storiografia filosofica non ha ancora sviluppato questa tesi, la cui dimostrazione resta un compito da assolvere».

Émile Bréhier, La filosofia di Plotino, Celuc Libri, Milano 1975, p. 44: «Plotino deve essere collocato tra i pensatori che hanno cercato di superare non il conflitto tra ragione e fede, perché in questa forma esso si porrà solo in altra temperie storica, ma un conflitto molto più generale: il conflitto tra una rappresentazione religiosa dell’universo, cioè una rappresentazione tale che il nostro destino vi abbia un senso, e una rappresentazione filosofica, che sembra togliere ogni significato a una realtà quale il destino individuale dell’anima».

Vincenzo Cilento, «Premessa» alle Enneadi, Vol. I, Bari 1947, p. IV: «Plotino è l’ultimo uomo del mondo antico – egizio per nascita; greco, della paideia alessandrina; romano, di vita e di ambiente; ma, a dir vero “patria ei non conosce altra che il cielo” – uno che si sta perplesso tra due mondi e, pur sentendosi, per dirla col Hermann Friedrich Müller, “uno schietto germoglio ellenico”, ha, nondimeno, come un’attrazione strana verso certi gnostici abissi del pensiero, dai quali pure rilutta razionalmente; un uomo, tuttavia, intrepidamente fermo al limite tra quella pura misura ellenica e il tumulto inquieto del nuovo mondo pervaso e percorso da un lievito e da un fremito creatore».

Nicola Petruzzellis, Storia del pensiero filosofico e pedagogico, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1966, vol. I, p. 190: «Mistico e razionalista, asceta non ignaro delle virtù civili, lontano e distaccato dal mondo, avversario tuttavia del pregiudizio gnostico, che faceva del mondo qualcosa di essenzialmente malvagio, il frutto di una decadenza cosmica, esempio di altissima libertà morale e tuttavia assertore di una necessità universale; vicinissimo al cristianesimo, sotto alcuni aspetti, e tuttavia riluttante ad esso, Plotino è una complessa personalità di pensatore, che sarà sempre per lo storico un problema ricco di grande interesse umano, filosofico e filologico».

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.

[1] «Cosa magnifica e gloriosa peri romani non aver più bisogno in filosofia di scrittori greci: e questa cosa sarà fatta, se potrò completare il mio programma», De divinazione, II, 2.