Le idee di Edward Carr sulla storia

Lo storico inglese Edward Carr morì il 10 novembre 1962 all’età di novant’anni. In Italia è noto per la sua Storia della Russia sovietica (1917 – 1929) e soprattutto per l’agile volume Sei lezioni sulla storia, che in questo articolo è criticamente rivisitato.

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L’opera a cui Edward H. Carr affida l’esposizione delle idee direttrici del suo lavoro storiografico, Sei lezioni sulla storia, ha in inglese un titolo assai più impegnativo Che cos’è la storia? (What-is History?). Il volume, scritto con stile brillante e sottile humour, suggerisce indicazioni utili sia allo storico che al filosofo e ad ogni attento lettore. Carr critica a ragione il culto positivistico dei fatti. «I fatti storici non ci giungono mai in forma pura dal momento che in questa forma non esistono e non possono esistere; essi ci giungono sempre riflessi nella mente di chi li registra». L’autore insiste su questa tesi, ricorrendo talora anche a qualche paradosso di troppo: «Un personaggio di Pirandello dice che un fatto è come un sacco: non sta in piedi se non gli si mette dentro qualcosa». Tuttavia Carr non intende naufragare nel soggettivismo. Per cogliere in un’opera storica il rapporto tra presente e passato è opportuno, suggerisce il Carr, rendersi conto in primo luogo della personalità e della situazione storica dello storiografo. Ciò è più che giusto, ma a nostro giudizio insufficiente. Infatti se dovessimo limitarci a vedere in Mommsen un liberale deluso dagli avvenimenti del 1848 o in… Carr un intellettuale inglese ancora legato alla democrazia del suo paese ma tanto incline al dirigismo statalistico da non cogliere la logica oppressiva che gli è immanente, la possibilità della storia come ricerca volta a ricostruire vicende reali e non immaginarie o deformate si smarrirebbe in continui rinvii e svanirebbe nel nulla. Certamente l’opera di un Carr non si spiega senza la personalità del suo autore e il suo modo di rapportarsi alla situazione storica del proprio tempo; e tuttavia, per ciò che essa ha di valido e di solidamente accertato, quell’opera rimane una tappa importante per intendere un evento di portata mondiale per lo meno dal punto di vista dell’interpretazione leninista degli eventi, al di là delle sue stesse falsificazioni inconsce e dei suoi silenzi fin troppo eloquenti.
Il punto cruciale di ogni teoria storiografica è il rapporto tra fatti storici e valori. A noi sembrano molto belle le osservazioni conclusive della lezione quarta. «Secondo le parole di Meinecke la ricerca delle cause della storia è impossibile senza riferirsi ai valori, Al di sotto della ricerca delle cause vi è sempre, direttamente o indirettamente, la ricerca dei valori. Il pensiero storico – scrive lo storico olandese Huizinga – è sempre teleologico. I buoni storici, ne siano o no consapevoli, hanno il futuro nel sangue. Oltre alla domanda perché? lo storico si pone anche l’altra verso dove?» La chiusa della lezione quinta è anch’essa da sottoscrivere a due mani: «Una società che ha perduto ogni fiducia nelle proprie capacità di progredire verso il futuro, cessa entro poco tempo di occuparsi anche dei propri progressi passati».
Tuttavia il Carr, rimettendo in circolazione alcune dei più famosi luoghi comuni dello storicismo di derivazione hegeliana – tanto diffusi nella cultura della prima metà del nostro secolo – ottiene il risultato di oscurare, rendere aporetiche o assurde le felici situazioni or ora ricordate, fino a svuotarle di ogni verità e a capovolgerle addirittura in affermazioni di segno opposto. Il Carr contesta, ad esempio, in ossequio al postulato storicistico, la possibilità di giudizi di valore sulle azioni pubbliche. «Che utilità – si domanda lo storico inglese – può avere il denunciare, oggi, le colpe di Carlo Magno e di Napoleone? Lo storico non è un giudice e se ha il dovere di emettere un giudizio morale, lo può, come suggeriva Max Weber, solo sulle istituzioni e non sugli uomini che le hanno create. I personaggi storici sostennero già i tribunali del loro tempo e non possono essere assolti o condannati due volte». Anche noi pensiamo che il paragone dello storico con il giudice sia fuori posto. Le pagine dello storico non sono certo sentenze da eseguire o denunce da presentare al tribunale della storia. Lo storico non deve fare requisitorie, né sermoni. Ma questa osservazione in sé giusta, e tante volte ripetuta, non deve essere male interpretata, traendo da essa conseguenze indebite. Non si può, infatti, inibire allo storico i giudizi che sono di sua spettanza e che, espressi o taciuti, espliciti o impliciti, sono il logico coronamento della sua indagine. Allo storico si deve chiedere solo che il giudizio sugli avvenimenti scaturisca dagli avvenimenti stessi, rebus ipsis dictantibus, come diceva il nostro Vico, una volta che siano fedelmente ricostruiti e rivissuti. Dissimulare questo giudizio è una specie di ipocrisia e di nuovo conformismo, che nasce dall’idolatria del fatto compiuto o dell’efficaci storica, o comunque si voglia chiamare il movente dell’assurda neutralità postuma che si pretende dallo storico. Paradossalmente, per fare il suo mestiere, lo storico dovrebbe spogliarsi della sua migliore umanità e giustificare crimini, eccidi, orrori mettendo a tacere la sua coscienza e il senso di partecipazione al dramma di altri uomini. Ma anche se lo storico tace, vi sono fatti che parlano con una loro tragica eloquenza alla coscienza dell’umanità, a meno che lo storico non abbia posto il suo impegno nel deformarli, dissimularli o giustificarli ad ogni costo, il che non escluderebbe del resto l’uso, sia pure insincero o erroneo, dei giudizi di valore, insopprimibili nel pensiero e nel discorso umano.
Qualunque cosa ne pensi il Carr, può essere utile conoscere le colpe di Carlo Magno e di Napoleone, di Hitler e di Stalin, innanzi tutto per accertarle, giacché ignorarle sarebbe appunto mutilare la storia o falsarla, ma anche per riflettere su di esse. Non si può parlare dell’inferno di Auschwitz senza pronunciare un giudizio di inesorabile condanna su quelle ideologie e su quelle forze che storicamente condussero l’Europa a quel calvario. Se così non fosse, la storia non varrebbe un’ora di pena. Capire fino in fondo la logica omicida degli assassini non significherà mai accettarla e giustificarla. Fare i Pilati non è segno di oggettività storica e di serietà.
La vita privata dei personaggi storici, la storia vista dal buco della serratura, è fuori questione in una storia generale di avvenimenti, di popoli, di istituzioni a meno che non interferisca direttamente e palesemente con gli avvenimenti stessi. Non è invece del tutto eseguibile la proposta Weber-Carr di giudicare le istituzioni e non gli agenti storici che le hanno poste in essere: quelle, infatti, non sono separabili da questi, se non astrattamente e parzialmente. Il giudizio sulle istituzioni si ripercuote inevitabilmente sugli individui che le fondarono e le gestirono, le favorirono e le osteggiarono, contribuirono a riscattarle o a corromperle. Né vale per i personaggi storici il principio giuridico che non possano essere condannati una seconda volta. Quelli che furono giudicati, spesso non furono giudicati giustamente dai loro contemporanei. Un solo esempio fra tutti, Socrate, che proprio Hegel condannò una seconda volta per non smentire il suo panlogismo e la sua statolatria. Malgrado il fascino e i meriti delle Sei lezioni sulla storia, alla fin fine, è duro doverlo ammettere, anche per il Carr «la storia è un susseguirsi di lotte mediante le quali alcuni gruppi ottengono dei risultati (lasciamo andare se buoni o cattivi) direttamente o indirettamente, e più spesso indirettamente, a spese di altri gruppi. Chi perde paga». Sì, è scritto proprio così: «Chi perde paga». Non si può pretendere davvero di esprimere con questa disumana, desolante banalità tutto il significato della storia e le prospettive dell’umanità.
 

Giornale di Brescia. Non è stato possibile rintracciare la data di pubblicazione. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.