Le svolte epistemologiche: Popper

Popper è tra i filosofi del ‘900 che hanno acquisito una fama maggiore, anche a livello di grande pubblico. È difficile che qualcuno non abbia mai sentito parlare di Popper. A cosa è dovuta questa fama? È indubbiamente dovuta in misura fondamentale alla relativa semplicità ed evidenza delle tesi che Popper sosteneva. Le sue idee hanno potuto trovare ascolto proprio perché sono abbastanza limpide, schematiche nella loro enunciazione ed accattivanti. Non è un autore orecchiabile, ma afferma le proprie opinioni in maniera molto chiara e sono accettabili perché vanno quel tanto controcorrente che stimola l’intelletto. Di per sé non significa però che siano anche idee giuste.

In tema di filosofia della scienza le posizioni popperiane furono controcorrente quando vennero enunciate negli anni ’30, motivo per cui in un primo momento egli non venne apprezzato. La Logica della scoperta scientifica, uscita nel ‘34 nella sede privilegiata della discussione filosofica a Vienna, aveva un’impostazione in forte contrasto con la filosofia del Circolo di Vienna, la qual cosa condannò l’opera verso un certo isolamento. L’edizione inglese dell’opera esce solo nel 1968. A cosa è dovuta allora la sua fortuna? È legata a ragioni che poco hanno a che vedere con la filosofia della scienza. Essendo di origine ebraica, Popper dovette sfuggire al nazismo. Decise di partire per gli Stati Uniti, ma una volta salpati seppero che vi erano dei sottomarini tedeschi che siluravano le navi per l’America. Dovettero cambiare rotta ed il capitano li portò in Nuova Zelanda, dove insegnò alla Canterbury University College di Christchurch. Lì, passò alcuni degli anni migliori della sua vita da tutti i punti di vista.

Popper rientra in Europa nel ’46 e va ad insegnare alla London School of Economics. L’anno precedente era stata pubblicata a Londra la sua opera più famosa, La società aperta e i suoi nemici, che era un esplicito attacco al totalitarismo in nome di molti ideali che richiamano le concezioni più generali di Popper sulla conoscenza e la razionalità. Questa era un’opera che attaccava il totalitarismo in generale e quindi anche il nazismo, ma in quel momento – si era agli inizi della guerra fredda – era ben altro il totalitarismo che l’Occidente vedeva come un pericolo da sventare, il comunismo.

Nel clima culturale del tempo si poteva essere o marxisti per convinzione o per convenienza, e di fronte alla “intellighenzia” marxista le democrazie liberali non avevano un armamentario ideologico altrettanto agile, fresco e moderno. I sacri testi erano ancora quelli di Locke e di Smith, autori più vecchi di Marx che non avevano dietro di loro un partito. L’opera di Popper proponeva un discorso alternativo all’ideologia totalitaria in nome della scienza e della mentalità che dalla scienza traeva gli ammaestramenti per impostare un discorso critico e razionale. Popper diventa una bandiera per ragioni politiche e culturali, e di conseguenza avviene anche un movimento di rivalutazione della sua opera epistemologica. Non voglio per questi motivi sminuire l’apporto epistemologico del filosofo austriaco, ma darvi un’idea di come sono andate in verità le cose.

Veniamo ora al cuore della filosofia popperiana. Popper resta fondamentalmente uno scientista. Per scientismo intendo la posizione per la quale la scienza è sostanzialmente l’unica forma veramente adeguata di conoscenza e come tale lo strumento più adatto per risolvere i problemi dell’uomo. Questo apprezzamento della scienza come forma di conoscenza privilegiata è presente in Popper, sebbene non attribuisca alla scienza quel valore assoluto che le avevano assegnato soprattutto i vecchi positivisti. Per Popper la scienza non è una forma di conoscenza assoluta ed infallibile, anche se la conoscenza scientifica è la più alta, la più sicura a cui possiamo ricorrere. Da questo punto di vista non c’è una differenza fondamentale tra lui ed i neopositivisti.

I motivi di differenziazione si trovano piuttosto nel fatto che Popper non è un empirista radicale, dal momento che riconosce anche alla ragione e all’intelletto una funzione nella costruzione del sapere che, viceversa, i neopositivisti non riconoscevano, perché al di fuori dell’esperienza sensibile come fonte di conoscenza non ammettevano altro. Certamente non si può negare la funzione dell’intelletto e della ragione nel fare scienza, ma varia il modo con cui interpretarla. Se si interpreta semplicemente come un’attività formale che non fa null’altro che trasformare le proposizioni senza aggiungere niente che non sia già contenuto nelle premesse, la ragione potrà essere fonte di organizzazione, di chiarimento, ma non di incremento della conoscenza.

Popper su questo punto ha una visione opposta a quella dei neopositivisti e ciò spiega le due differenze sostanziali tra la sua filosofia della scienza e quella dei neopositivisti. La prima riguarda il valore da attribuire all’esperienza, al controllo empirico, nella scienza e nella conoscenza. I neopositivisti avevano applicato fino all’estremo il loro criterio di adesione all’esperienza sensibile, enunciando il famoso principio di verificazione per il quale il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica, per cui hanno senso solo le proposizioni passibili di verifica empirica o fattuale, vale a dire le asserzioni delle scienze empiriche. Un concetto che i neopositivisti avevano introdotto come criterio per distinguere ciò che è scientifico da ciò che scientifico non è, e che in particolare avevano utilizzato come un’arma contro la metafisica, il bersaglio di tipo culturale che avevano in mente, in totale sintonia con il vecchio positivismo. Mentre però il vecchio positivismo si impegnava a confutare le tesi metafisiche, ad esempio elaborando prove della non esistenza di Dio, i neopositivisti se la cavano molto più a buon mercato. Infatti essi affermano che le tesi metafisiche non hanno significato, non essendo costituite da concetti e proposizioni fattualmente verificabili, per cui non c’è nemmeno il bisogno di criticarle e provare che sono false. Un discorso privo di significato non è infatti né vero né falso.

Popper ha il coraggio nel ’34 di dire che in questo discorso c’era qualcosa che non va. Il principio di verificazione non può essere assunto come criterio di significato, perché i discorsi metafisici in particolare e quelli filosofici in generale, hanno un significato, altrimenti non si capirebbe come molta gente invece li possa capire pur non avendo, secondo i neopositivisti, alcun significato.

Popper va oltre questo nella critica al principio di verificazione, affermando che non serve nemmeno come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, in quanto non c’è bisogno di verificare le proposizioni che trascrivono l’esperienza immediata. Per Popper la logica ci insegna che se da una premessa ricaviamo conseguenze vere, queste non sono garanzia, sono semplicemente delle ragioni sufficienti, ma non necessarie, alla verità della premessa. Ad esempio, dalla premessa che il sole ruoti intorno alla terra, ricavo la conseguenza vera che lo devo veder sorgere la mattina e tramontare la sera. Non è la conseguenza vera che garantisce la verità della premessa, che in questo caso è falsa. La verità delle conclusioni non garantisce la verità della premessa. La verifica non è mai definitivamente conclusiva; certo, quante più conferme ho, tanto più sento corroborata la mia ipotesi, ma non è mai verificata. Basta, invece, una sola conseguenza falsa per dire che è falsa la premessa. In logica, da premesse vere si possono dedurre conseguenze vere. Quindi, se ne è venuta una conseguenza falsa, significa che non era vera la premessa o una delle premesse. La verifica non è mai definitiva, la falsificazione lo è.

Quindi, secondo Popper, il criterio di falsificazione e non il principio di verificazione costituisce la demarcazione tra scienza e non scienza. Come si distingue un discorso scientifico da uno non scientifico? Il discorso è scientifico se nel momento stesso, idealmente parlando, in cui lo scienziato propone una certa ipotesi, dice anche a quali condizioni sarebbe disposto ad abbandonarla. Siccome una teoria, per quanto confermata, resta sempre smentibile, allora bisogna tentare di confutarla. Questo è l’habitus della scientificità, che è opposto rispetto all’ideologia o a posizioni fideistiche. Chi esprime tesi ideologiche è nella posizione di affermarle a qualunque condizione: non ci sono né difficoltà logiche, né contraddizioni, né dati di fatto che poterebbero negare la tesi, troverà sempre la maniera di mantenere la sua idea.

Ci sono diversi stili di affrontare la vita ed il mondo. Secondo la proposta di Popper, lo stile scientifico è lo stile dell’assoluta criticità che consiste anche nel riconoscere il proprio errore e nell’abbandonare le proprie posizioni, qualora l’esperienza le smentisca. Un atteggiamento molto ideale di quella che è in realtà l’attività scientifica.

Sennonché allora nasce il problema: come vengono fuori queste ipotesi? È qui c’è il secondo punto di divaricazione tra Popper ed i positivisti. Quest’ultimi avevano detto che le ipotesi, che loro chiamavano leggi, non ponendo alcuna differenza fra leggi ed ipotesi, si potevano ottenere per induzione. Si guarda la realtà, si constata la sua regolarità e da questa la generalizzi per induzione. Popper chiama questi processi ipotesi, perché il carattere generale non è garantito da un numero anche notevole di casi particolari. Su questo Popper si è incaponito per tutta la sua esistenza. Ha sempre rifiutato l’induzione, in quanto logicamente scorretta: se si ha constatato cento volte una stessa cosa, non si può dire che sia sempre così. Non esiste per Popper in logica la capacità di trarre conclusioni universali da premesse particolari, anche se numerose e ripetute.

In fondo, cosa fa lo scienziato quando gli si pone un problema? Egli formula delle congetture per risolverlo. Questo vale anche nel senso comune. Lo scienziato non ha bisogno quindi di centinaia di casi, ma piuttosto pensa anche ad un solo caso che non quadra con quello che ci si aspetterebbe. Se da una congettura logica si arriva, ragionando, ad un fatto, allora lo si ha spiegato. Questa congettura è liberamente creata dallo scienziato, fa parte della sua creatività, non ha a che fare con la logica della scienza, ma con la psicologia dello scienziato. Quando dopo tante prove per mettere in discussione una tesi, si ottengono tanti risultati che continuano a confermare l’idea iniziale, non si potrà dire che si è di fronte alla verità, ma che l’idea è corroborata. E via così fin quando sarà confermata molte volte, per poi diventare verosimile, cioè vicina al vero.

Popper sostiene in ogni caso il carattere fallibile della conoscenza scientifica che non arriva mai alla certezza, ma ad un approssimarsi alla verità, attraverso il concetto di verosimiglianza; uno dei concetti più disastrati del popperismo. Come si fa a dire che qualcosa si avvicina di più alla verità se si afferma che quest’ultima non è mai raggiungibile?

Sono criticabili anche altre tesi più forti. È vero che la falsificazione è definitiva? Quando si incontra un fatto che non è conciliabile con un’ipotesi, non è che subito si deve gettare l’ipotesi, si cerca di vedere come stanno le cose, si cerca di correggere. Non per una sorta di lassismo, ma perché è molto difficile vedere quale è il punto che è stato toccato dalla falsificazione.

Anche l’ideale regolativo del razionalismo critico che secondo il filosofo austriaco caratterizza la mentalità dello scienziato non si può prendere alla lettera. Uno scienziato che ha formulato un’idea che gli sembra buona, chiamatela congettura, non è certo quello che si mette a vedere se può ammazzarla. Al contrario cercherà ulteriori conferme, mentre i colleghi cercheranno di negare la sua tesi. Se uno crede di avere ragione, trova conforto in una serie di verifiche della sua idea. Se fossimo sempre animati da uno spirito, per così dire, eccessivamente critico, non cammineremmo neanche. È chiaro che occorre sempre una giusta dose di spirito critico che consiste nel non piegare i fatti alle proprie idee, nel tener conto delle difficoltà, delle contraddizioni. Un salutare controllo critico è però ben diverso dal criticismo esasperato di Popper.

Gli stessi discepoli di Popper hanno modificato lo schema popperiano, cercando in parte di tener conto di quanto il filosofo austriaco aveva ignorato, cioè l’aspetto della contestualizzazione culturale, sociale, linguistica e storica in cui vengono proposte le teorie scientifiche. È chiaro che qui si cammina sul filo del rasoio. Il vantaggio del popperismo era di aver indicato un percorso sicuro della oggettività scientifica nelle due opere fondamentali dal punto di vista epistemologico: la Logica della scoperta scientifica e la Conoscenza oggettiva. Se si comincia a tener conto dei contesti storici e sociali nel cambiamento di paradigmi, si vede che l’esperienza conta fino ad un certo punto. Il divenire della scienza è qualcosa di molto simile al cambiare delle convenzioni politiche. Le rivoluzioni subentrano quando in un certo momento cambia il paradigma, il modo di vedere la realtà e si impongono attraverso strumenti che non sono né la ragione, né la logica, ma attengono alla propaganda. In fondo che cosa dire? Indubbiamente ci sono questi aspetti di critica a Popper, ma è innegabile che ci troviamo di fronte ad una proposta estremamente ricca ed interessante.

In genere i filosofi hanno ragione per quello che affermano e hanno torto per quello che negano. Nel caso di Popper è stato importante il suo continuo ribadire l’importanza della funzione della ragione nell’opera conoscitiva accanto a quella dell’esperienza. Quando questo diventa una critica all’induzione, allora il bersaglio è sbagliato, perché attraverso l’induzione si arriva stabilire le leggi empiriche e questa funzione non si può banalizzare o ridurre, come ha fatto Popper, ad una generalizzazione empirica.

Popper, come altri pensatori, ha avuto l’inconveniente di avere ragione per quello che affermava e torto per quello che negava. Le sue teorie sono comunque importanti e significative. Esse giustificano quel suo presentarsi come rappresentante di una forma di razionalismo critico che può essere applicata anche fuori dal campo scientifico. Per esempio, Popper non riconosce alla metafisica il carattere della conoscenza, però non dice affatto che è una vuota chiacchiera. Le discussioni metafisiche, etiche, politiche, filosofiche si possono valutare nel loro modo di riferirsi a fatti, nel loro modo di costruire un insieme coerente o meno. Questa capacità di applicare una metodologica di tipo critico è un insegnamento prezioso, di civiltà, che Popper ha fatto al mondo contemporaneo che, viceversa, di fronte a certe crisi del pensiero scientifico, si è lasciato andare facilmente a soluzione di carattere irrazionalistico o a negazioni della possibilità di conoscere in generale.

Quindi, per concludere, nel caso di Popper succede quello che capita ai classici. I classici in genere si possono superare, ma dopo esserci passati attraverso; può valere anche per una tesi sola. “Senza la cosa in sé non si entra nel criticismo kantiano, ma con la cosa in sé non vi si rimane”, è la scultorea frase pronunciata da Jacobi a proposito del cuore del kantismo. L’idealismo trascendentale lo ha superato, però passandoci attraverso. Direi che la cultura, non soltanto epistemologica, contemporanea, non può fare a meno di superare Popper, per le ragioni che ho detto, ma dopo essere passata attraverso di lui.

NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 28.2.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.