L’eredità greca

Nella collana “Storia e società” presso Laterza è uscito il volume “L’uomo greco”, a cura di Jean-Pierre Vernant, che si è servito della collaborazione di altri otto studiosi per tracciare da altrettante angolature il profilo della civiltà che è fattore decisivo, fondante e in un certo senso archetipo della civiltà europea. L’intento è di restituirci un quadro documentato e attendibile di un mondo che è lontano da noi e che tuttavia è percorso da interrogativi e problemi in gran parte simili ai nostri, quasi ad attestare l’unità della natura umana che permane nell’incessante mutamento, e comunque la nostra diretta discendenza dai Greci. I saggi in tal modo compongono un insieme di elementi che si intersecano e si completano, per offrirci un’immagine complessiva di grande interesse. Gli autori de “L’uomo greco” sono impegnati a far emergere gli aspetti caratteristici delle varie attività dispiegate dai Greci nei grandi settori della vita collettiva, le loro regole di vita, il loro modo proprio di impostare e vivere i problemi dell’economia, della guerra e della pace, dei fini e dell’organizzazione della società politica, della vita religiosa, dell’educazione e della vita domestica.

Pur avendo letto attentamente tutto il volume, mi pare più utile per i lettori non ripercorrere la trama concettuale dei singoli saggi, ma segnalare solo alcune cose che più parlano ancora oggi al nostro spirito. Per esempio, come non guardare con ammirata nostalgia a quella forma di socialità che per i Greci era essenziale, la convivialità, il banchetto, che sta scomparendo nelle nostre società atomizzate? Che cosa possono mai avere in comune le nostre infami “cene di lavoro” con la descrizione del banchetto che fa Omero nell’”Odissea” come di un rito sociale il cui vertice è rappresentato dalla poesia cantata con la lira dallo stesso poeta? “Penso non v’è godimento più bello / di quando la gioia pervade tutta la gente, / i convitati ascoltano nella sala il cantore / seduti con ordine, le tavole accanto son piene / di pane e di carni, dal cratere attinge vino / il coppiere, lo porta e nelle coppe lo versa: / al mio animo questo sembra una csa bellissima”. I fiori da cogliere sono tanti. Eccone uno non è che un verso e mezzo dell’”Iliade”, ma l’animo nostro è sorpreso dalla sua perenne verità e bellezza : “Odioso m’è colui / ch’altro nasconde in cuore ed altro parla”.
Certamente la morte in combattimento è tema e motivo di glorificazione per i Greci, al pari dello statista che governa con giustizia e dell’atleta vittorioso alle Olimpiadi; ma il bellicismo è estraneo alla mentalità greca. La lode della pace ha, infatti, un posto eminente sia nell’opinione pubblica che nell’opera dei poeti e dei filosofi, da Omero alla fine dell’epoca ellenistica. È Platone che afferma: " È nella pace che bisogna vivere, e meglio che si potrà, la maggior parte della propria esistenza”. E come tacere che Aristotele fu un implacabile critico dell’imperialismo? “Non è lecito un impero senza giustizia” e “non c’è nulla di grande nell’avere dei servi” – scriveva il filosofo di Stagira. Il che impediva all’uno e all’altro di fare di Sparta il loro modello.
Persino sul tema dei mutamenti costituzionali in politica, a me sembra che i Greci potrebbero aiutarci a rendere più razionali i nostri discorsi. Platone nell’ultima sua opera, “Le Leggi”, vorrebbe reagire al caos politico dei suoi tempi, e teme l’instabilità delle leggi e dei governi, ma non si nasconde l’inevitabilità del mutamento, del kinèin, avvertendo l’ambivalenza della parola, la quale, appunto, sta a significare sia alterazione che sviluppo. Aristotele osserva giustamente che “il fine che tutti devono perseguire non è la tradizione in quanto tale, ma il bene comune”. In tempi brevi è pericoloso modificare le leggi, ma nel tempo la modificazione della legge avviene comunque e pertanto è meglio prendere coscienza del fenomeno e individuare una misura, un criterio che consenta di valutare fino a che punto e quando innovare, quando invece, nonostante i difetti siano visibili, rinunciare alla formulazione di nuove regole dell’assetto politico-istituzionale di uno Stato.

Nel saggio sulla vita domestica l’interrogativo centrale verte sulla posizione della donna nella famiglia e nella società greca. Tale posizione è per lo meno ambigua. Non erano cittadine, non potevano essere eredi (se non a Sparta), non potevano viaggiare per proprio conto. Ovunque in Grecia un maschio era a capo della famiglia. Insomma la supremazia maschile aveva una forma pervasiva, la si avvertiva dappertutto. James Redfield tende, tuttavia, a sdrammatizzare la situazione con un’osservazione di carattere dialettico: ogni dicotomia – secondo lo storico di Chicago – tra pubblico e privato, maschio e femmina, cultura e natura, è accompagnata da una mediazione e la mediazione della donna è quella dell’amore nella duplice forma della donazione di sé al marito e della donazione di sé ai figli. Insomma, per dirla ancora con Aristotele, quali che siano i loro ruoli dentro e fuori la famiglia, “i maschi non sono che la metà dello Stato”. Sì, ma dalla polis la donna era radicalmente esclusa e il fatto rimane incontestabile.

“L’uomo greco”, come si vede, è un libro ricco di spunti e di singole felici osservazioni. Ha bisogno però di un completamento. Chi voglia entrare nel cuore della civiltà ellenica – che ha anch’essa i suoi limiti e i suoi aspetti negativi, e tuttavia rimane altissima e direi al 90% paradigmatica – deve fare un passo ulteriore. Deve prendere in mano i “grandi libri” che ci rivelano l’anima stessa della civiltà greca. E anche qui, come in ogni campo, i “grandi libri” sono sempre pochi, alla fin fine: la “Storia dei Greci” di Gaetano De Sanctis e Paideia, “La formazione dell’uomo greco” di Werner Jaeger (La Nuova Italia, Firenze); Platone educatore di Julius Stenzel (Laterza, Bari); “Storia dell’educazione nell’antichità” di Irénée Henri Marrou (Edizioni Studium, Roma); “Storia della filosofia greca” di Giovanni Reale (Vita e Pensiero, Milano). Senza Atene non ci sarebbe mai stata una civiltà europea. La “grecità” ha creato l’unità culturale europea e ci è più facile sottovalutare l’originalità dei greci che esagerarla. Poi, in progresso di tempo, da Roma e da Gerusalemme ci è venuto ciò che ha reso possibile l’unità giuridico-politica ed etico-religiosa del nostro continente. Atene, Roma, Gerusalemme sono le nostre radici, la comune eredità che ogni europeo è chiamato a riscoprire.

Giornale di Brescia, 15.12.1991.