Lettera 1117. Erasmo da Rotterdam al suo caro Germain de Brie

INTRODUZIONE ALLA LETTERA 1117

Per i francesi Budé era grande come Erasmo e dopo di lui veniva Germain de Brie, latinamente detto Brixius. Nelle lettere erano loro i “principi delle Gallie”. Tra i due non mancavano tratti comuni: erano i migliori grecisti di Francia, maestri nell’arte epistolare e nella poesia neolatina; ma appartenevano a due generazioni diverse. Nato nel 1488, o nel 1490, De Brie aveva una ventina d’anni meno di Erasmo. Dopo aver studiato diritto, si era recato in Italia a perfezionare la sua formazione e a Venezia nel 1508 aveva incontrato Erasmo. Si stabilì subito tra loro un rapporto di familiarità, al punto che Erasmo piazzò tre poemetti del giovane amico in apertura degli Adagi, nell’edizione di Aldo Manuzio; ma è anche vero che i versi di De Brie celebravano Erasmo come il primo scrittore di razza barbara che fosse riuscito a innalzare il suo nome fino alle stelle, padroneggiando il greco e il latino come gli stessi antichi.
Libero da preoccupazioni finanziarie, che invece assillavano Erasmo, De Brie organizzò la sua vita in modo che trascorresse tra gli studi, gli atti di pietà e la compagnia di amici scelti, generosamente ospitati nella sua residenza in campagna. Ordinato sacerdote ancor giovane, divenne presto canonico nella sua Auxerre e poi a Notre-Dame-de-Paris. De Brie, umanista colto e spirito accogliente, ammira Erasmo, ma gli manca l’ansia riformatrice e la passione del combattente che caratterizzano la personalità dell’olandese.
L’umanista francese dedicò una costante attenzione a uno dei grandi padri greci, Giovanni Crisostomo, di cui tradusse egregiamente in latino parecchie opere. Di lui Erasmo elogia la “pari destrezza” del padroneggiare le due lingue (Ep. 2046); gli rimprovera, però, un eccessivo desiderio di perfezione che nuoce alla rapidità e all’efficacia dei lavori (Ep. 2599). La corrispondenza tra Erasmo e De Brie, così come il primo ce l’ha trasmessa, comprende venti lettere scambiate tra il 1517 e il 1532, di cui otto sono del francese e dodici dell’olandese; però da una lettera di Erasmo, l’Epistola 3101 del 20 febbraio 1536, apprendiamo che i due amici si scrivevano ancora.La sua produzione letteraria era iniziata molto presto, nel 1513, con la pubblicazione del poema epico la Chordigerae navis conflagratio («L’incendio del vascello La Cordelière»), in cui il combattimento navale fra inglesi e francesi nelle acque di Brest, il 10 agosto 1512, diventava occasione per fare del comandante della nave francese un eroico kamikaze, volontariamente sacrificatosi per dar fuoco alla nave inglese e farla inabissare nel mare insieme a La Cordelière. La passione nazionalistica e l’anglofobia resero popolare quel poema, che piacque molto anche alla regina Anna di Bretagna, di cui il De Brie era segretario. In realtà in quello scritto ci sono tutte le premesse della successiva disputa fra More e De Brie, che scosse per un biennio, dal 1519 al 1520, il mondo delle lettere, suscitando ripetuti interventi da parte di Erasmo e dello stesso Budé.

Erasmo dovette far ricorso a tutto il suo prestigio per porre fine alla polemica originata dalla violenta aggressione di De Brie nei confronti di More con la pubblicazione del poema in versi Antimorus. Lo scontro More-De Brie costituiva oggettivamente un pericolo assai grave, perché il fanatismo nazionalistico avrebbe potuto oscurare il giudizio degli spiriti che dovevano essere i più liberi e colti dell’Europa. Erasmo, europeo per vocazione e instancabile apostolo di pace in ogni campo, ravvisava nella “boria delle nazioni” la causa prima della menzogna e la rovina di ogni cosa buona e le parole che egli ripete, lettera dopo lettera, agli umanisti sono molto chiare: “Con tutti gli oscurantisti che abbiamo da combattere, noi uomini di cultura non dobbiamo metterci a litigare l’uno contro l’altro” (Epp. 1087, 1093, 1096, 1131, 1133, 1184). Erasmo agì con estrema prudenza e insieme con decisione nella disgraziata querelle che opponeva due suoi amici. Bisognava salvare la concordia tra gli uomini di cultura di tutti i Paesi europei, ma il libello del francese era pericoloso anche perché malignamente mirava a porre More sotto accusa agli occhi di Enrico VIII. More all’incoronazione del re aveva scritto un carme latino in cui censurava gli abusi di potere del defunto Enrico VII, augurando in tal modo al figlio di non seguire il cattivo esempio del padre; il carme, inedito per alcuni anni, fu poi pubblicato e De Brie colse a volo l’occasione per far apparire More sleale verso il suo re. L’intenzione di More era stata nobile nello scrivere quei versi, ma in un regime assolutistico nessuno poteva permettersi il lusso di essere sospettato agli occhi di un re. Il severo giudizio di Erasmo sul comportamento di De Brie, a lungo represso, è pronunciato in modo incalzante nell’Epistola 1117, scritta quando gli animi cominciavano a placarsi. In essa Erasmo, nel difendere le ragioni della parte lesa, illustra alcuni tratti del vero Thomas More e del suo talento di scrittore. Germain de Brie si ravvede e, nei confronti dell’inglese, passa gradualmente dall’acrimonia alla stima e all’amicizia. La grandezza spirituale di More e l’accettazione da parte sua – per amore di amicizia e per l’onore delle bonae litterae – delle pressanti raccomandazioni di Erasmo conseguirono nel tempo l’effetto desiderato.

ERASMO DA ROTTERDAM AL SUO CARO GERMAIN DE BRIE

Anversa, 25 giugno 1520.

Mi recavo in vettura ad Anversa quando un inglese a cavallo, con cui ci siamo incrociati per caso, mi ha consegnato una tua lettera che, a quanto mi dici, è la terza che mi spedisci. Tu mi rimproveri di averti lasciato senza risposta e più ancora di non essere venuto tra voi: stando alle tue parole, a meno che io non porti delle ragioni molto serie, rischio di dare l’impressione di avercela con tutti i miei amici di Parigi. Tu concludi dicendo che, per mia insistenza, consenti a riconciliarti con More, ritenendoti soddisfatto del giudizio da me precedentemente espresso, secondo il quale la tua erudizione è superiore alla sua. Questo è almeno come tu interpreti le parole – non so quali – della mia lettera a Bérault .
A ciascuno di questi punti risponderò brevemente, dal momento che sono assillato dalla mancanza di tempo. Vorrei proprio che tu, che sei un illustre studioso, ti rendessi conto del lavoro che mi è costato la confutazione delle calunnie di Lee, e Lee è solo uno dei tanti [avversari]; non parlo poi dei pacchi di lettere, alle quali riesco a malapena a dare solo un’occhiata nel tempo libero. Sapendo come sei umano, comprenderai quanto mi costi la fatica a cui mi sobbarco ininterrottamente per redigere, correggere, rivedere i miei libri. Per tutte queste considerazioni tu perdonerai il mio silenzio. Aggiungi che sono stato colpito da una grave malattia, contratta in seguito a eccessivo calore, per cui mi sento ancora debole e tutt’altro che ristabilito, e che, dopo di allora non ho incontrato nessuno che venisse da voi [a Parigi].
Ma supponi pure che io non ti abbia scritto a causa della mia pigrizia; era necessario per questo concludere che odio quelli a cui non rispondo? Posso dare una risposta all’amore di tutti, ma non a tutte le lettere. Non c’è nessun altro che io ami più sinceramente di Budé, eppure non ho ancora risposto all’invito che mi fa in due lettere. In realtà, io desidero gioire della compagnia così piacevole di Budé, di te, di Bérault, di Deloynes, di Ruzé, di Ruell, di Lascaris, di Paolo Emilio, di Cipriano , come voi desiderate vedere me in carne ed ossa, per usare la tua espressione. Ed ecco che prima si mette di mezzo il drammatico scontro con Lee , a cui ho dovuto dedicare un mese e mezzo; poi il ritorno del nostro imperatore Carlo e certe questioni relative alla Spagna mi hanno costretto a cambiar programma, ma non disposizione di spirito. Ho promesso di venire tra voi, ma sempre con la riserva che vi concorrano alcune circostanze favorevoli; va da sé che quelle circostanze devono rimanere riservate. Mi avete accordato la vostra indulgenza e io vi ho fatto ricorso volentieri, ma ciò non diminuisce il mio debito di gratitudine nei vostri confronti.
Circa il tuo scontro con More, che a me ha arrecato grande dolore, avevo pensato di inviarti una lettera più dettagliata, come quella scritta, e non certo a cuor leggero, a More. Finora, però, non mi è stato possibile. Ne ho riferito brevemente a Bérault perché temo che il male – quale che ne sia l’origine – abbia a propagarsi e ad aggravarsi. Da parte sua More non desiderava che questo accadesse, ma mi sembrava ben lontano dal tremare davanti al tuo Antimorus; anzi è intervenuto per farlo stampare, se devo credere a ciò che mi si scrive da Londra. Seguiva in ciò il consiglio di un gruppo di amici illustri e bene informati; tra loro io so che ve n’era più d’uno che aveva simpatia per te, prima che apparisse il tuo libello, e che ora ti ha voltato le spalle, deluso di non riscontrare in te quella cortesia che si richiede a un umanista. Se tento di mettervi d’accordo, non è perché credo compromessa la reputazione di More da una simile montatura: [passato il momento della polemica,] quasi nessuno legge più quel libello e comunque io non ho sentito una sola persona parlarne bene. Né sottovaluto la capacità che More ha di passare all’attacco nel caso in cui la discussione degeneri. Per l’onore delle belle lettere e perché esse possano farci godere dei loro frutti, io ho cercato di far valere una sola considerazione: è indispensabile una cordiale intesa tra i campioni delle umanità. In compagnia delle Muse ci devono stare le Grazie, soprattutto in questo momento in cui c’è un’intesa tra i nostri avversari, quali che siano le loro diverse provenienze, per sferrare alla nostra corporazione un assalto pieno di odio. Ho voluto difendere il diritto di More alla serenità più che la sua fama: egli è troppo grande, per unanime consenso dei letterati, perché aggressioni tanto meschine possano attentare alla sua gloria. Al contrario, a me stava a cuore prima di tutto la difesa della tua reputazione, desiderando vederla sempre più bella e meglio riconosciuta. Penso, infatti, che l’odiosa querelle riguardasse anche il buon nome della Francia perché, a giudizio di tutti, mai fino ad oggi il vostro Paese ha prodotto un libello così carico di acredine e di fiele come quello che tu hai scritto contro More.
Tu dici che More ti ha provocato? Ma tu l’avevi provocato per primo. Del resto il suo attacco – lo riconoscono apertamente anche i tuoi connazionali – era ben diverso e molto più cortese della tua risposta. I suoi epigrammi sono stati composti in piena guerra [tra l’Inghilterra e la Francia], mentre i tuoi versi risalgono a parecchi anni dopo la conclusione della pace. Non è stato lui a pubblicare i suoi versi latini; se li è lasciati estorcere dagli amici, a condizione che avessero provveduto a rivederli prima della stampa. Non deve meravigliare che un poeta mescoli una briciola di finzione alla verità per mettere in risalto il soggetto del suo canto e non è disonorevole guardare ad esso con la vista un po’ offuscata dall’amore per il proprio Paese. Non questo More ti rimprovera, ma solamente le tue insinuazioni, con le quali hai fatto di tutto per perderlo presso il suo re, accusandolo con crudeltà di aver infangato la memoria di suo padre. Quanto ai rilievi mossi ai tuoi versi, essi non erano tali da provocare un dramma, né io intendevo entrare nel merito delle critiche che tu, a tua volta, gli muovi. Io non ho proprio voglia di battermi con il mio amico De Brie e More non ha certo bisogno del mio aiuto (sono io piuttosto che ho bisogno del suo). Non amo neppure, a dire la verità, erigermi a giudice tra due amici, per non essere costretto a sacrificarne uno.
Sono molto sorpreso, mio caro De Brie, che ti sia messo in testa d’interpretare alcune frasi, non so quali, della mia lettera a Bérault come un verdetto anticipato, che attribuirebbe a te la palma dell’erudizione. Io desideravo solo conservare la mia amicizia a entrambi, non essendo mia intenzione esprimere le mie preferenze per l’uno col rischio di alienarmi l’altro, soprattutto quando la vostra polemica era al culmine. Non ricordo bene ciò che ho scritto a Bérault, ma oserei giurare che nulla esprime meno il mio sentire quanto la tua interpretazione. Ciò che mi stava a cuore precisare era che, dal momento che la lotta si svolgeva in ambito letterario, non era il caso che tu ti lasciassi prendere la mano da altre considerazioni, perché il confronto doveva rimanere possibilmente nel campo dell’erudizione. Io ho mostrato quale avrebbe dovuto essere il modo di confrontarsi e non ho espresso alcun giudizio di merito. Anche a supporre che io abbia potuto affermare che come scrittore tu sei più grande di More, la tua modestia e la tua acutezza avrebbero dovuto farti rifiutare quel complimento. In realtà io non mi sono pronunciato su chi dei due fosse il primo, e niente mi obbliga a farlo ora. Non spetta a me mettermi a fare il censore dei meriti tuoi e di More; il verdetto degli altri, però, lo conosco bene.
Non ho letto molte cose di te e non ho personalmente messo alla prova la tua erudizione. Ho più familiarità con gli scritti di More e sono vissuto in intimità con lui. La mia opinione su More è l’opinione di tutti quelli che lo hanno conosciuto bene: un’intelligenza semplicemente geniale, una memoria che non si può desiderare più felice, una straordinaria facilità di espressione. Egli si è imbevuto del miglior latino sin dall’infanzia e del greco durante la giovinezza alla scuola di maestri eminenti, tra i quali mi piace ricordare Thomas Linacre e William Grocyn. Nello studio della sacre lettere si è spinto tanto avanti da non demeritare la stima dei grandi teologi. Ha coltivato con discreto successo gli studi liberali e in filosofia non si è accontentato di una comune iniziazione. Non parliamo poi della sua specialità, che è il diritto, soprattutto il diritto britannico, in cui a stento c’è chi gli sia eguale. Tutto ciò si unisce in lui a una prudenza rara e davvero straordinaria. Avendo More tutte queste doti, Enrico VIII, uomo tra i più avveduti, non si è dato pace finché non lo ha costretto a entrare nel suo Consiglio più ristretto.
Vedi, mio caro De Brie, com’eri del tutto fuori strada quando continuavi a ripetere quel tuo penoso bisticcio di parole Morus/Môros [“pazzo”], dal momento che non vi è nemico dichiarato di More che non renda largamente onore alla sua saggezza. L’atteggiamento che tu assumi nei suoi confronti e il tono di condiscendenza col quale ti rivolgi a lui non sono fatti certo per piacere alle persone colte e pacate. Proprio perché ti annovero tra le persone di valore, non vedo per qual motivo tu non possa apprezzare More, la sua condizione, i suoi doni naturali, la sua intelligenza, la sua condotta di vita, le sue conoscenze nei campi più diversi. Più ammiro le qualità di More, e non sono il solo a farlo, più desidero che v’intendiate tra voi: nel tuo interesse più che nel suo, e anche nel mio, perché nulla venga ad offuscare la nostra amicizia. Ciò che è accaduto nulla può far sì che non sia accaduto, ma io mi auguro che ogni agitazione abbia fine. Se tu, però, credi difficile che il tuo Antimorus cessi di essere apprezzato, o io m’inganno, e di molto, o non lo si ripubblicherà più, se tu non fai nulla perché ciò avvenga. Una riedizione dispiacerebbe a molti, anche per il fatto che tu hai attaccato di nuovo More in una prefazione , mentre egli non ha ancora risposto al tuo libello.
Qui mi fermo, mio eccellente De Brie. Se ti sono graditi i miei buoni uffici presso More, perché riusciate a dimenticare entrambi questa faccenda, io li proseguirò, andando avanti nella stessa direzione. Se tu pensi, però, che More debba presentarti le sue umile scuse, ti sbagli. Da quel che ne so, ora il suo umore è tale che sarei felice se da lui ottenessi di non malmenarti troppo rudemente. Se egli consente a risparmiarti, sarà tanto di guadagnato per la rinomanza pubblica degli studi umanistici che insieme coltiviamo e anche per l’onore del tuo nome.
Non posso che rallegrarmi per le tue disposizioni che ti portano a interessarti con fervore di questioni teologiche e ad avere costantemente tra le mani le mie parafrasi. Ho appena pubblicato – ed è l’ultimo parto – la parafrasi alle due lettere di Pietro e a quella di Giuda. Attendevo a quel lavoro quando la malattia mi ha sorpreso, ma ora a poco a poco sto riprendendomi. Sta bene, dottissimo De Brie. Saluta di persona per me tutti i nostri amici.

Il testo completo di note, reperibile nel file allegato, è tratto dal volume “Erasmo da Rotterdam. RITRATTI DI THOMAS MORE” con saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini (La Scuola Editrice, Brescia, 2000). Il volume è fuori commercio.