Lettera 2750. Erasmo da Rotterdam a Johann Faber, vescovo di Vienna

INTRODUZIONE ALLA LETTERA 2750

Il destinatario dell’Epistola 2750 è Johann Heigerlin. Egli era di una decina d’anni più giovane di Erasmo e coetaneo di More, essendo nato nel 1478. Morì nel 1541. Figlio di un fabbro e fedele alle sue origini, prese il nome “Faber”. Studiò a Tubinga e a Friburgo. Prese gli ordini religiosi e ricoprì incarichi importanti in molte diocesi del mondo germanico. Ebbe simpatia per gli umanisti, molti dei quali trovarono in lui un protettore. Domenicano liberale, Faber fu costantemente premuroso con Erasmo; tra i gesti di amicizia verso il leader degli umanisti va annoverato anche il dono del manoscritto delle opere di Ireneo, il primo in ordine di tempo tra i Padri della Chiesa.
Faber fu nominato vescovo di Vienna nel 1530, ma da anni era autorevole ministro e uomo di fiducia del fratello di Carlo V, l’arciduca d’Austria Ferdinando, che era anche re di Ungheria e di Boemia. I suoi gravi impegni, i continui viaggi e le missioni diplomatiche si moltiplicavano, perché in quegli anni incombeva sulla capitale del dominio asburgico la minaccia turca, a cui era militarmente collegata l’insurrezione dei principi protestanti contro l’impero. La missione di Vienna nel mondo germanico fu di essere il centro propulsore della resistenza europea all’Islam e della difesa dell’unità religiosa con Roma; Faber fu l’instancabile interprete dell’una e dell’altra direttrice storica.
Nell’aprile del ‘26 il maestro dell’umanesimo cristiano aveva scongiurato Faber di “non gettare olio sul fuoco nella lotta contro la Riforma” e di prendere in considerazione una prospettiva nuova per risolvere con spirito cristiano il difficile problema dell’inevitabile convivenza tra luterani e cattolici in uno stesso Stato e addirittura in una stessa città. “Forse sarebbe preferibile – scriveva Erasmo – che ognuna delle due parti fosse lasciata alle sue convinzioni, fino a quando non giungano il tempo e l’occasione favorevoli per intendersi […]. Certamente i sobillatori di disordini devono essere severamente puniti, ma sta a noi cominciare subito a correggere alcuni degli errori che hanno dato origine a questo flagello, riservando a un concilio le altre questioni bisognose di chiarimenti” (Ep. 1690). Il presbite geniale, come al solito, guardava lontano, ma la situazione si fece sempre più inestricabile e pericolosa a causa dell’alleanza organica tra il re di Francia Francesco I, i principi protestanti e i turchi. Erasmo, temendo che Faber finisse con l’avallare provvedimenti troppo severi contro i luterani (Ep. 1926), che avrebbero aggravato irrimediabilmente le divisioni già esistenti, lo invita a non compiere atti che possano pregiudicare la riconciliazione futura. All’arciduca Ferdinando ricorda, con la solita finezza, che “Dio benedirà solo una politica che promuova il bene comune e la concordia della Chiesa” (Ep. 2005 del 15 luglio 1528).
Nel giugno 1528 Faber comunica a Erasmo l’invito dell’arciduca Ferdinando a trasferirsi a Vienna con un assegno annuo di 400 fiorini (Ep. 2000). Erasmo ringrazia, ma declina l’offerta: “è sempre difficile trapiantare un albero” ed egli è seriamente malato ai reni; né mancano, neppure a Vienna, “teologi dallo spirito confuso e monaci perversi” decisi a rovinargli l’esistenza (Ep. 2006 del 16 luglio 1528). Faber torna a insistere, ma comprende lo stato d’animo dell’illustre maestro e quando Johann Eck, che pure era personaggio di primo piano in campo cattolico, dichiara eretici alcuni brani tratti dagli scritti di Erasmo, non esita a “fargli una ramanzina” e ad applicare a lui, che pretendeva censurare Erasmo, l’antico detto: “Il maiale vuol farla da maestro a Minerva” (sus Minervam docet). A Erasmo Faber ne riferisce in questi termini: “Recentemente ho ammonito Eck a non esserti d’intralcio nei tuoi magnifici lavori, a non contristare la tua ardente pietà e il tuo spirito perfettamente cristiano” (Ep. 2503 del 21 giugno 1531).

All’Epistola 2750 può essere assegnata una data approssimativa, tra il novembre e il dicembre 1532, tenendo presente che Erasmo unì ad essa una copia della bellissima lettera che aveva ricevuto da More poco dopo le dimissioni da Cancelliere, l’Epistola 2659 del 12 giugno 1532; occorre, infatti, tener conto che in quel tempo tra l’invio di una lettera e la sua consegna potevano passare alcuni mesi. Marie Delcourt, a cui si devono contributi preziosi e assai penetranti su Erasmo e More, ha avanzato l’ipotesi secondo cui l’Epistola 2750 sarebbe stata scritta allo scopo di salvare More: in altri termini, essa era, sì, indirizzata a Faber, ma perché questi la facesse pervenire a Enrico VIII. Tali affermazioni non sono, però, sostenibili. Erasmo difende certamente l’onore, le idee-forza, la santità di vita, la grandezza umana e cristiana di More; l’apologia dell’amico più caro della sua vita non è, però, diretta in nessun modo a Enrico VIII. Erasmo sa fin troppo bene che qualsiasi intervento presso il re d’Inghilterra a favore dell’ex Cancelliere da parte del vescovo di Vienna, che era pure ministro dell’arciduca d’Austria, avrebbe fatto il gioco solo dei nemici di More, facendolo sospettare di essersi inteso con Carlo V. Né si può pensare, neppure per un istante, Erasmo così maldestro e naïf da scrivere in una lettera, il cui vero destinatario fosse Enrico VIII – il re che molto aveva rischiato, pur di non rinunciare ad Anne Boleyn – due cose insopportabili per le orecchie di quel principe: More è uomo al quale non placet ullum divortium (ed. Allen, linee 194-5) ed è un vero modello di virtù coniugale.
La lettera che Erasmo invia a Johann Faber fu scritta cinque o sei mesi dopo le dimissioni di More da Cancelliere e il suo definitivo ritiro dalla scena politica. Il momento, dunque, era estremamente delicato per More, i cui amici trepidavano pensando al suo futuro. Il distacco di More dalla politica era motivato da ragioni di salute ed era avvenuto d’intesa col sovrano, ma nella situazione drammatica che si era creata in Inghilterra bisognava temere che l’otium cum paupertate di More non sarebbe durato a lungo. Erasmo aveva ben presente un precedente storico: anche Nerone aveva mostrato di comprendere le ragioni del ritiro di Seneca dalla politica attiva e gli aveva esternato pubblicamente la sua gratitudine per i servizi resi all’impero. Nel momento in cui ringraziava il filosofo statista, Nerone era quasi certamente sincero, e con molta probabilità lo era anche Enrico VIII nei confronti del suo migliore ministro e consigliere; ma quando il potere diventa incontrollato e autocratico, lo scenario può mutare rapidamente e alla fin fine è proprio sugli uomini di coscienza intemerata e i veri servitori del bene comune che si abbatte l’ira del re. E l’indignatio principis mors est (Proverbi 16, 14). I despoti, infatti, a un certo punto non sopportano neppure il silenzio e il riserbo dei giusti. Questi pensieri dovevano agitare la mente di Erasmo quando scrisse di More al vescovo di Vienna, anche se l’olandese non poteva assolutamente renderli espliciti senza attirare sulla testa dell’amico l’inesorabile vendetta di Enrico: un re ormai sempre più in balia delle sue passioni e dei nuovi consiglieri. Prima, però, che la situazione volgesse al peggio, e sempre con la speranza nel cuore che ciò non accadesse, Erasmo vuol testimoniare a un eminente uomo di Chiesa e amico, quasi a futura memoria, quanto profonda fosse la sua stima, o più propriamente la sua venerazione, per Thomas More, uomo di cultura e statista cristiano.

ERASMO DA ROTTERDAM A JOHANN FABER, VESCOVO DI VIENNA

Friburgo, verso la fine del 1532.

Ha messo veramente poco tempo ad arrivare fino a voi la notizia secondo la quale l’illustre Thomas More è stato rimosso, in seguito a una sentenza, dalla carica di Cancelliere, in cui è stato rimpiazzato da un altro nobile, che subito ha liberato quelli che More aveva incarcerato a causa delle loro dottrine dissenzienti. Omero e Virgilio fanno prendere il volo alla Fama, il cui corpo è tutto rivestito di penne e di piume, per dirci che nulla è più veloce di essa. Ogni altro volo mi sembra tardo e lento, se paragonato alla rapidità con cui questa notizia ha raggiunto subito i luoghi più lontani: solo un lampo può arrivare dappertutto più speditamente. E tuttavia, sebbene questa fola volasse di bocca in bocca e io non avessi ancora ricevuto alcuna lettera dall’Inghilterra ( perché quella di Thomas More, che qui ti accludo, era stata ferma parecchi mesi in Sassonia), io sapevo con assoluta certezza che quanto si andava raccontando era del tutto senza fondamento. Conoscevo, infatti, il carattere assai umano del principe, la sua costanza nell’essere affettuosamente vicino agli amici, una volta che li abbia accolti nella sua cerchia, e con quanta fatica li allontana da sé, persino quelli in cui egli abbia ripreso qualcosa di sbagliato. Io conoscevo anche la lealtà di Thomas More, la sua grande abilità nel gestire gli affari, dai più importanti ai minimi, e che in nessun caso si assopirebbe in lui la vigilanza abituale, sicuro indice di notevole prudenza. C’è di più: la benevolenza del re verso More si mostrava, ai miei occhi, con maggiore evidenza nel momento in cui egli lo liberava da quell’ufficio – certamente di grandissimo prestigio, ma pieno di preoccupazioni e di pericoli – che quando gliel’aveva imposto. Affidando quell’incarico a un uomo che lo rifiutava, il re agiva da uomo provvido del bene della sua patria, tenendo conto nello stesso tempo dell’interesse suo e dello Stato; togliendolo a un uomo che implorava di esserne liberato, si mostrava amico di More. Allora egli ha meritato, con l’approvazione di tutti, l’elogio dovuto alla sua pietà e alla sua prudenza, per aver conferito l’incarico più difficile all’uomo che, in tutto il regno, era il più capace di assolverlo; ora merita anche di essere lodato per la sua rara umanità, avendo fatto prevalere, sui suoi sentimenti e sulla considerazione dell’interesse generale, la preghiera dell’amico. Questi, infatti, gli chiedeva di poter disporre del suo tempo libero [da impegni pubblici], così come una volta aveva fatto Cassiodoro, che lo aveva chiesto e ottenuto dal suo principe. Senza dubbio, per domandare il congedo al re More era spinto da ragioni serie; diversamente egli non avrebbe avuto l’ardire di sollecitare il suo ritiro e il re, da parte sua, non sarebbe stato tanto compiacente al punto da prestare ascolto a motivi pretestuosi.
Egli non ignorava che la stabilità del regno intero dipende in gran parte dall’onestà del Cancelliere, dalla sua prudenza, dall’elevato grado di conoscenza [dei problemi]. Con il nome di Cancelliere lì non si designa, come in altri Paesi, un segretario: [in quell’isola] la sua dignità è la più vicina a quella del sovrano. Quando appare in pubblico, egli tiene nella destra uno scettro d’oro, sormontato da una corona imperiale, anch’essa in oro, e nella sinistra ha un libro: in tal modo si intende designare, da una parte, il potere supremo che esercita sotto l’autorità del re e, dall’altra, la saggezza delle leggi. Egli è, in effetti, il giudice supremo in tutto ciò che rientra nella giurisdizione britannica: si potrebbe dire che è l’occhio del re, la mano destra sua e del suo Consiglio. Un principe veramente saggio non avrebbe mai affidato una così ardua funzione senz’aver fatto indagini, e nessuno come Enrico aveva esaminato più a fondo e apprezzava immensamente i doni rari, quasi divini, di quel genio. Quando si rese conto che non aveva speranze di ritornare ad esercitare l’antica autorità, persino il cardinale di York – che non era affatto, quale che sia stata la sua fortuna, uno stupido – affermò che in tutta l’isola More era il solo capace di assumersi un tale onere. E la designazione non era dettata dal desiderio di fargli un favore o da benevolenza, essendo il cardinale maldisposto, finché fu in vita, verso More: assai più che amarlo, egli infatti lo temeva. Non era diverso neppure il giudizio del popolo. Tutti si felicitavano pubblicamente, come non era mai successo prima, quando More assunse l’alto incarico; e quando lo lasciò, il suo ritiro fu accompagnato dalla tristezza e dal rimpianto di tutti gli uomini saggi e onesti. Al momento delle sue dimissioni, egli meritò il più bell’elogio: che nessuno aveva assolto quella funzione con maggiore abilità ed equità. E tu sai quali possono essere, soprattutto nei primi tempi, le recriminazioni della gente nei confronti di quelli che hanno ricoperto gl’incarichi più alti! Te lo potrei provare facendoti leggere delle lettere di uomini eminenti: prima, essi si felicitavano calorosamente con il re, con il regno, con se stessi e persino con me, perché More aveva ricevuto quell’onore; poi, nelle lettere successive alle sue dimissioni, le stesse persone deploravano che lo Stato avesse perduto un tale giudice e un consigliere che aveva voce in Consiglio, per usare l’espressione di Omero.
Il re, ne sono sicuro, avrà sostituito More con un uomo eminente, che tuttavia a me è del tutto sconosciuto. Per quanto riguarda la notorietà della sua famiglia – Thomas More nel suo spirito filosofico non ne parla mai e tanto meno se ne vanta – egli è nato a Londra, e il fatto di essere nato e di essersi formato in una città che è di gran lunga la più popolosa, è per gl’inglesi un titolo di nobiltà. La sua ascendenza paterna non è oscura, essendo il padre dottore in diritto britannico, titolo che gode presso gl’inglesi del più alto prestigio e da cui la maggior parte della nobiltà insulare trae la sua origine. Subentrando a lui, il figlio, con i successi conseguiti in ogni campo, eclissò l’illustre padre, sebbene nessuno renda onore in modo più autentico ai suoi maggiori, se non oscurandoli in tal misura.
Non elenco qui i titoli onorifici di cui l’uno e l’altro sono stati insigniti, non per averli ricercati, né per averli acquistati, ma per decisione spontanea del re: non è pensabile, infatti, che la vera nobiltà consista unicamente nel compiere e nel ripetere gesti di valore in guerra e che non vi sia il dovuto riconoscimento a quegli uomini che, in tempo di pace, rendono allo Stato eminenti servizi con il loro consiglio piuttosto che con le armi. Meglio va lo Stato, meno chiede all’arte militare; i re e i loro governi, al contrario, ritengono necessario in pace e in guerra ricorrere all’aiuto di uomini insigni per dottrina, acutezza di giudizio e competenza giuridica. Noi sentiamo la Sacra Scrittura dirci: È per me che regnano i re (Proverbi 8, 15). È la voce non della milizia, ma della sapienza che si adopera perché non ci sia guerra e, se non può essere evitata, perché sia condotta in modo da arrecare il minor danno possibile. C’è, infatti, più felicità nell’evitare una guerra che nel combatterla coraggiosamente. Purtroppo la pace non può essere di lunga durata e, quando lo è, finisce col generare corruzione nei costumi, a meno che non sia governata dai consigli di uomini prudenti. Torquato è diventato celebre per aver strappato [in duello] a un [soldato] gallo una collana; ma perché non rendere onore a chi ha servito tanti anni la patria come giudice equo e fidato consigliere? Sembrò di dover giudicare ben altrimenti a quei principi che nei tempi antichi conferirono gli onori più alti ai loro collaboratori, che avessero mostrato di essere padroni nella conoscenza e nell’uso delle leggi. Essi decisero di attribuire quei segni di distinzione, di cui fregiano i loro rappresentanti, anche ai grammatici, ai dialettici, ai professori di diritto, che per vent’anni avessero dato prova della loro scienza e della loro probità. In tal modo l’imperatore, eguagliando i professori ai suoi vicari, e questi ai conti e ai duchi, com’è attestato nel libro XII del Codice [di Giustiniano], li eleva alla stessa dignità. Oggi, invece, non sono riconosciuti nobili se non quelli a cui non la nascita, ma il principe accorda – e più propriamente dovrei dire “vende” – il titolo. Del resto, una distinzione conferita dal re per i servizi resi allo Stato crea, secondo me, una doppia nobiltà perché al valore, sorgente di ogni vera nobiltà, si aggiunge l’autorità del principe. La nobiltà ama richiamarsi al passato, ma c’è più grandezza nell’aver meritato un titolo nobiliare che nell’averlo ricevuto dagli antenati.
Quest’onore, lo so bene, conta molto poco agli occhi di More, che preferisce lasciare in eredità ai posteri l’esempio del suo amore per la religione piuttosto che il prestigio di qualche titolo. Quanto poi alle accuse che si vanno lanciando contro di lui, riguardo a quelli che avrebbe fatto imprigionare, io non so se esse siano vere. Ciò che a me consta è che quest’uomo per natura mitissimo non ha mai fatto del male a nessuno di quelli che, una volta posti sull’avviso, si sono voluti ricredere sulle sette di cui avevano subito il contagio. Si pretende forse che il giudice più elevato in grado in un regno così vasto non debba disporre di carceri? More detesta le dottrine sediziose, che oggi scuotono dolorosamente il mondo, e non lo nasconde, né desidera negarlo: egli è tanto portato alla pietà che, se la bilancia dovesse pendere per un momento verso una parte, inclinerebbe piuttosto verso la superstizione che verso l’empietà. Il fatto che meglio attesta la rara clemenza di More è che sotto il suo Cancellierato nessuna sentenza di pena capitale è stata pronunciata a causa di una condanna dottrinale, mentre nelle due Germanie [quella cattolica e quella protestante] e in Francia tanti uomini sono stati sottoposti al supplizio. Adoperarsi a porre rimedio al male e lasciare in vita nello stesso tempo le persone, pur avendo il diritto di metterle a morte, ecco il modo in cui More praticava la clemenza, pur detestando l’empietà. Ma si può arrivare al punto di chiedere a chi esegue una sentenza del re e dei vescovi di favorire una novità sediziosa? Immaginiamo per un momento che egli non provasse avversione per le nuove dottrine, e questo non è proprio il caso di More: egli doveva allora o lasciare l’incarico ricevuto, o dissimulare le sue convinzioni.
Infine, mettendo da parte il conflitto delle dottrine, chi può ignorare che sotto quel pretesto tanti uomini superficiali e sediziosi sono pronti a commettere qualsiasi crimine, se la loro sfrontatezza, che cresce ogni giorno di più, non è tenuta a freno dalla severità dei magistrati? Perché allora ci si indigna se il magistrato più alto in grado del regno ha fatto in Inghilterra ciò che il Senato è talvolta obbligato a fare in quelle città che hanno cambiato religione? Senza quei provvedimenti gli pseudoevangelici avrebbero ben presto fatto irruzione nei granai e nei forzieri dei ricchi, e chi possiede qualcosa sarebbe accusato di essere “papista”. Ebbene sì, la temerarietà [dei violenti] è così grande, e la malizia della folla è tanto scatenata che gli stessi autori dei nuovi dogmi e quelli che li difendono vi si sono opposti con i loro scritti, e con durezza. Com’è pensabile [in una situazione del genere] che il supremo magistrato in Inghilterra chiudesse gli occhi, permettendo che una tale melma inondasse un regno in cui fioriscono le ricchezze, gl’ingegni e la religione? Può darsi che alcuni prigionieri siano stati liberati per la nomina del nuovo Cancelliere, trattandosi di presunti innocenti o di detenuti per reati relativamente minori; volentieri lo si fa per l’incoronazione dei re, allo scopo di conciliarsi il favore del popolo. Immagino che sia successo anche quando More ricevette il sigillo [della Cancelleria]. Ma con tutte queste storie che vanno propalando dov’è che vogliono parare questi Trittolemi? Intendono farci credere che esiste presso gl’inglesi un rifugio pronto ad accogliere le sette e i loro sostenitori? Molte lettere inviatemi da persone serie attestano che, riguardo alle nuove dottrine, il re è meno indulgente dei vescovi e dei preti. Non vi è persona pia che non desideri la riforma dei costumi [nella Chiesa], ma nessun uomo saggio pensa che ciò comporti un sovvertimento generale.
Nell’apprendere l’ascesa di Thomas More al supremo fastigio [del Cancellierato], poiché per una lunga amicizia sentivo di conoscere, almeno in certa misura, il suo carattere, scrissi che dal punto di vista dell’interesse generale mi felicitavo col re e con l’Inghilterra, ma che con lui personalmente non mi rallegravo affatto. In questo momento, invece, mi rallegro di cuore con lui per il dono grandissimo che il principe gli ha fatto: con il grato riconoscimento di tutto il popolo, gli è stato concesso di districarsi per tempo dal labirinto degli affari pubblici. A lui, pertanto, è riuscito ciò che non fu possibile a Scipione l’Africano, a Pompeo Magno, a Cicerone. Ottaviano Augusto desiderò deporre il fardello dell’impero e non poté farlo. Thomas More, che è ancora nel vigore dell’età, accede invece con onore a quel genere di vita al quale aspira fin dalla giovinezza, libero di consacrarsi ai benefici studi e alla pietà, stando in mezzo ai familiari che ama come nessun altro. Sulla riva del Tamigi, non lontano da Londra, egli ha fatto costruire una casa di campagna non misera e neppure tale da suscitare invidia: una casa in cui, tuttavia, ci si trova a proprio agio. Là egli vive attorniato dai suoi cari: la moglie, il figlio, la nuora, tre figlie e altrettanti generi, a cui finora si sono aggiunti già undici nipoti. Cristo gli ha dato [la gioia] di vedere i figli dei suoi figli, ed egli vedrà quanti da essi verranno alla luce. In effetti, essendo nel fiore dell’età, promettono tutti una numerosa posterità. More stesso potrebbe ancora avere numerosi figli, ma la consorte da parecchio tempo non è più in grado di averne; egli l’ha sposata quand’era vedova e da essa non ha avuto discendenti. Dalla prima moglie sono stati messi al mondo tutti i figli che ha e altri che sono morti. More vide morire la moglie Joan ancora giovane, ma egli ama [ugualmente] la seconda moglie, benché sterile e anziana; ha per lei ogni attenzione, quasi fosse una giovinetta di quindici anni. Non è che ignori la differenza che passa tra una donna anziana e una giovane, ma la pietà e la saggezza gli fanno amare tutto ciò che entra a far parte della sua vita. Nessuno, poi, ama i figli come lui. Il suo carattere è tale – o, per meglio dire, la sua pietà e la sua saggezza sono tali – da trovarsi sempre al posto giusto in ogni situazione: quand’anche gli capiti qualcosa a cui non c’è rimedio, egli l’affronta come se nulla di meglio gli potesse toccare. Si potrebbe dire che abbia a casa sua un’altra Accademia di Platone, ma il paragone farebbe torto alla sua famiglia: nell’Accademia, infatti, si discuteva di numeri e figure geometriche e, talora, di virtù morali, mentre la sua casa merita di essere chiamata, più esattamente, “una scuola, un ginnasio di religione cristiana”. Non c’è nessuno lì, uomo o donna, che non sia occupato nelle discipline liberali o in fruttuose letture, anche se il primo posto è riservato alla pietà. Lì non vi sono dispute, non si odono parole insolentemente petulanti; non si vede nessuno starsene in ozio. E non è con la severità, né con i rimproveri che questo grande uomo custodisce l’ordine familiare, ma con la dolcezza e l’amabilità. Ciascuno fa quel che deve, ma con ardore, e non senza una sana, misurata allegria.
Egli ha costruito per sé e per i suoi, nella chiesa del villaggio [di Chelsea], una tomba in cui ha fatto portare i resti della prima moglie, perché non gli piaceva che fossero lontani da lui. Murata nella parete, c’è una lapide con un’iscrizione sulla sua carriera e sugl’indirizzi a cui ispirò la sua vita. Un mio famulus l’ha esattamente trascritta per me e io qui te ne accludo la copia. Mi accorgo di aver parlato troppo, ma si ama parlare di un amico a un amico. Ti dirò che piace moltissimo a tutti i buoni che tu predichi frequentemente al popolo, comportandoti da vero vescovo. Possa questo tuo esempio suscitare molti imitatori.
Quanto mi scrivi su quello che re Ferdinando va facendo, mi ha arrecato molto piacere. Questi primi anni di regno mi fanno ben sperare che un giorno la fortuna corrisponda ai meriti di questo principe assai buono e santo. Sta bene.
Il testo completo di note, reperibile nel file allegato, è tratto dal volume “Erasmo da Rotterdam. RITRATTI DI THOMAS MORE” con saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini (La Scuola Editrice, Brescia, 2000). Il volume è fuori commercio.