Lettera 999. Erasmo da Rotterdam all’illustrissimo cavaliere Hulrich von Hutten

INTRODUZIONE ALLA LETTERA 999

Gli “umanisti del Nord” maneggiano l’arma della critica in maniera superba e sono per lo più uomini di opposizione, anche se diverso è il modo in cui ognuno di essi combatte la sua battaglia. Tra i maestri, al primo posto, sono Erasmo e More – gli autori di due libri che fecero storia, l’Elogio della Follia e l’Utopia – e con loro Guillaume Budé; tra i numerosi discepoli spiccano i nomi del francese François Rabelais, il futuro autore di Gargantua e Pantagruel, e del tedesco Ulrich von Hutten, che aveva dieci anni meno di More e una ventina meno di Erasmo. Hutten giovane combattivo e brillante aveva destato le più belle speranze in Erasmo. Egli era di quella generazione che in Germania, nel secondo decennio del secolo, vide nel maggiore degli umanisti l’ispiratore principale e la guida nella lotta contro l’oscurantismo. Erasmo aveva incontrato per la prima volta nel 1514 il giovane tedesco – che apparteneva a un ceto ormai in decadenza, quello dei cavalieri o, se si vuole, della piccola nobiltà squattrinata – e di lui fece menzione nell’opera a cui teneva di più, la sua edizione del Nuovo Testamento (Epp. 365 e 611); egli, inoltre, garantì per lui presso i suoi numerosi amici, che accolsero il cavaliere umanista ovunque con premurosa ospitalità. Nel 1517 Hutten ricevette dalle mani dell’imperatore Massimiliano il diploma di “poeta laureato” e l’anello d’oro riservato agli oratori di grido. Malgrado le sue intemperanze, quando Erasmo gli dedicò la lettera su More, il tedesco non aveva ancora mostrato il lato peggiore della sua personalità.

Nella celebre lettera del 23 luglio 1519, l’Epistola 999, More è, per così dire, raffigurato “tutto intero”: nel suo aspetto fisico, dalle mani contadinesche agli occhi grigio-verdi; nei suoi affetti, delicati e intensi, per le due spose e per i figli; nei suoi interessi straordinariamente vari, nelle sue amicizie, nelle occupazioni, nella vita di pietà. L’animo di More è svelato per la prima volta al mondo cosmopolita della cultura in tutto lo splendore della sua umanità. Sempre serio e sempre allegro, appassionato in tutto ciò che intraprende e insieme interiormente distaccato, egli ha una personalità dolce e ardente. La sua trasparenza è quella di un fanciullo e ha la profondità misteriosa propria di chi vive unito alla divina Sorgente. Thomas More è l’uomo che ha saputo realizzare nella sua esistenza quotidiana, nella famiglia come nell’attività pubblica, la sintesi di virtù che sembrano opposte e sono, invece, complementari. Per Erasmo l’amico inglese è indubbiamente l’esempio più alto e persuasivo di un’umanità veramente superiore in cui, senza posa e senza albagia, natura e grazia, tecnica giuridica e vita mistica, azione politica e dono totale di sé, eredità classica e dinamismo evangelico si fondono mirabilmente. L’olandese ritrae More nel pieno vigore dei suoi quarantun’anni e la sua eccezionale testimonianza è ancora più credibile perché sulla testa dell’inglese non c’era allora l’aureola del martire. Dopo vent’anni di amicizia confidente e senza nubi, dal 1499 al 1519, Erasmo ne spiega l’origine mediante un’affinità segreta di anime, che ci fa trovare un’attrattiva preziosa in certi spiriti e non in altri.
La descrizione dell’aspetto fisico di Thomas è dettagliata, attentissima ai particolari: la taglia media, ben proporzionata; la barba rada, i capelli castani, l’andatura un po’ squilibrata; la voce perfettamente impostata, così necessaria a un avvocato e a un uomo politico. Vi è in tutto ciò quasi una tenerezza, che traspare nel giudizio complessivo sull’aspetto fisico dell’amico: nell’uomo maturo s’indovina ancora la bellezza del giovane incontrato vent’anni prima. Ma Thomas piace ancora più perché è uomo libero da ogni etichetta, di fronte al danaro e al potere, semplice in tutto: nel mangiare, nel vestire, nel trattare con gli altri. In lui la cortesia naturale si sposa all’allegria e questa si accompagna costantemente a uno scintillante humour: un’inclinazione, questa, pressoché irresistibile, che non l’abbandona mai – a casa e con gli amici, a corte e nel Consiglio del re, in tribunale o in Parlamento – e che mai si fa irrisione e sarcasmo. Aveva ragione John Fisher, il vescovo di Rochester, quando, in un’annotazione a margine dell’Opus epistolarum di Erasmo, apparso nel settembre 1529, a pagina 387 definiva la lettera a Hutten Thomae Mori verissima laus, un elogio di More quanto mai rispondente a verità. A quella lettera Erasmo aveva cominciato a lavorare, di tanto in tanto, fin dal 1517; due anni dopo la terminò a Lovanio, dove risiedeva, anche se la spedì a Hutten da Anversa. Erasmo la pubblicò nel mese di ottobre del ’19 inserendola nella Farrago nova epistolarum e ne rivide il testo sia per la raccota epistolare del ’21 e del ’29. L’ultima edizione è quella riprodotta da Allen nell’Opus epistolarum.

Per quali motivi e in che modo cambiarono i rapporti tra Erasmo e Hutten, “da amico fattosi all’improvviso nemico” (ex amico subito factus hostis)? Erasmo subiva il fascino di Hutten, di cui ammirava il genio poetico e l’ardore; quando, però, la protesta luterana cominciò a scuotere il mondo germanico, il cavaliere umanista ne diventò il propagandista più acceso e, ad un certo punto, il guerrigliero. Il suo disegno era collegare a Lutero la lotta armata per l’unificazione del mondo tedesco, trasformando il Sacro Romano Impero in uno Stato nazionale germanico. Lo strumento politico poteva essere l’uno o l’altro principe tedesco, anche lo stesso Carlo V, o suo fratello Ferdinando, se disposti a staccarsi definitivamente da Roma attraverso una vera e propria guerra contro i preti, il Pfaffenkrieg. Lasciato il servizio di Alberto di Magonza, che Erasmo ricorda verso la fine della lettera, Hutten si unì a Franz von Sickingen, l’ultimo condottiero dei cavalieri tedeschi, che egli assoldava ora per l’imperatore, ora per il re di Francia, pronto nello stesso tempo ad arruolarsi anche per un ideale. Dalla fortezza di Sickingen, Ebernburg, l’ex discepolo scrisse a Erasmo, esortandolo a unirsi al più presto ai luterani, anzi a lui stesso: “Fuggi, Erasmo, fuggi! […] Vieni da me” (Ep. 1161). Hutten evidentemente non aveva capito che in nessun caso Erasmo era disposto a seguire chi si poneva sul terreno della violenza, che squalifica sempre qualsiasi causa e rende ineluttabilmente disumani i suoi sostenitori. Il cavaliere umanista era finito addirittura col mettersi a capo di una banda, composta da una quarantina di elementi, che tendeva imboscate agli avversari. Erasmo – che deprecava la brutta fine di un uomo tanto dotato e lo sviluppo in senso deteriore del suo carattere – decise allora di assumere nei suoi confronti una linea ben precisa: continuare, malgrado tutto, a difendere l’uomo che aveva conosciuto, il letterato e il poeta, senza per questo avallare la totalità delle sue opinioni e tanto meno delle sue azioni. Erasmo era profondamente addolorato a causa dei ripetuti tentativi messi in atto da Hutten per comprometterlo dinanzi all’Europa e alla Chiesa cattolica, facendolo apparire come il vero maestro di Lutero e, in segreto, il suo più fervido sostenitore.
La crisi nei rapporti tra Erasmo e Hutten divenne aperta rottura quando il cavaliere tedesco concluse a Treviri, con una campagna disastrosa contro il vescovo di quella città, la sua avventura di poeta masnadiero e riparò a Basilea. Forse sperava nell’ospitalità che un tempo Erasmo gli aveva concesso e, comunque, sollecitò un incontro con l’ex maestro, non rendendosi conto che, al punto in cui erano giunte le cose, Erasmo non desiderava neppure vederlo (Ep. 1331). L’umanista olandese provava un’invincibile ripugnanza anche per la sifilide che copriva di piaghe il corpo del cavaliere tedesco. In ogni caso ben diversamente da Hutten si era comportato Melantone che, trovandosi nei pressi di Basilea, si era astenuto dal far visita a Erasmo; e sappiamo che l’olandese si dispiacque molto di non averlo potuto riabbracciare (Ep. 1496). Melantone, che per cultura e moderazione era il più erasmiano tra i compagni di Lutero, non aveva mai condiviso l’estremismo infantile di Hutten e, quando questi si scagliò apertamente contro Erasmo, non esitò a prendere posizione a favore del maestro (Epp. 1397, 1401, 1445). In ogni caso Erasmo, sempre restio a respingere del tutto un servitore delle bonae litterae, offrì a Hutten un aiuto in danaro e continuò a scrivergli. Hutten frattanto si era trasferito a Zurigo, dove la situazione era sotto il controllo di Zwingli.

Corroso dal rancore verso tutti e dalla sifilide, il cavaliere sconfitto trovò un altro pretesto per sferrare un nuovo attacco contro l’antico maestro proprio in una lunga lettera, l’Epistola 1342 del 1° febbraio 1523, che l’olandese aveva scritto a Marco Laurino, decano del Collegio san Donaziano di Bruges. In essa si leggevano affermazioni rivelatrici dell’intimo orientamento spirituale di Erasmo: “Odio la discordia non solo per gli insegnamenti di Cristo, ma anche per un certo oscuro impulso di natura. Non so se una delle due parti possa essere soppressa senza grave pericolo di un generale disastro. Potessi almeno negli anni della mia vecchiaia godere il frutto delle mie fatiche! Ma ogni parte mi pungola ed ogni parte mi rimprovera. Il mio silenzio nei riguardi di Lutero s’interpreta come consenso, mentre i luterani mi accusano di aver disertato per viltà la causa del Vangelo”. E ancora: “Io non posso essere diverso da quello che sono. Io non posso far altro che esecrare la discordia. Io non posso non amare la pace e la concordia […]. Io vedo quanto è più facile suscitare un tumulto che placarlo”.
Hutten lesse in quelle espressioni una clamorosa confessione di viltà e tornò ad accusare Erasmo di opportunismo e malafede in un velenoso libello, l’Expostulatio cum Erasmo («Spiegazione con Erasmo»), uscito nel giugno del 1523. Quando Erasmo ebbe tra le mani un esemplare dello scritto di Hutten, in sei giorni ne scrisse la confutazione: la Spongia, ossia «La spugna», per detergersi dal fango che gli aveva gettato addosso un discepolo che gli era stato tra i più cari. La fiammeggiante replica apparve a fine agosto e la sua pubblicazione venne a coincidere con la morte di Hutten, sopravvenuta, secondo quanto afferma Erasmo, il 29 di quello stesso mese, a trentacinque anni, su un’isoletta del lago di Zurigo. Il maestro degli umanisti cristiani dichiarerà in seguito che, se avesse potuto prevedere la morte di Hutten, non gli avrebbe risposto, o l’avrebbe fatto diversamente (Ep. 1388). Implacabile nel ribadire le sue convinzioni e le sue scelte, Erasmo signorilmente si astenne dal fare allusione ai misfatti briganteschi e alla condotta debosciata del tedesco (Ep. 1446, 8 maggio 1524), che pure lo aveva così crudelmente calunniato. E ciò gli fa onore. “In una delle mie lettere – annota Erasmo – giunsi a paragonare Hutten a More […], ma egli si è mostrato ben diverso da lui e ha fatto di me un cattivo profeta” (Ep. 1173). Negli anni dell’ammirazione illimitata per il maestro, Hutten chiamava Erasmo “il Socrate tedesco”. Di quel Socrate egli fu l’Alcibiade.

ERASMO DA ROTTERDAM ALL’ILLUSTRISSIMO CAVALIERE HULRICH VON HUTTEN

Anversa, 23 luglio 1519.

L’ammirazione profonda, direi quasi appassionata, che tu provi per la personalità di Thomas More nasce certamente dai suoi scritti che – come giustamente dici nella tua lettera[1] – sono quanto vi può essere di più dotto e di più incantevole. Credimi, carissimo Hutten, questo tuo sentimento è condiviso da molti e More lo ricambia nei tuoi confronti: egli, infatti, si compiace tanto dei tuoi scritti che io quasi quasi ne sono geloso. Tali affinità elettive sono manifestazioni di quella saggezza di cui parla Platone: sommamente amabile fra tutte, essa è capace di suscitare tra i mortali un amore molto più ardente di quello che riescono a destare in noi le meravigliose bellezze dei corpi, benché non si colga con gli occhi del corpo. L’anima, infatti, ha i suoi occhi e si capisce, allora, quanto sia vero il detto greco: presso gli uomini l’amore nasce attraverso lo sguardo[2]. Accade talvolta che, grazie agli occhi dell’anima, un affetto di straordinaria intensità leghi tra loro persone che non hanno avuto neppure l’occasione di vedersi e di conversare insieme. Come per misteriose ragioni uno è sedotto da una forma di bellezza, e uno da un’altra, così sembra esistere una segreta affinità spirituale per cui siamo afferrati dal fascino intellettuale di alcuni e non di tutti gli altri[3].

Mi chiedi con insistenza che per te ritragga More tutto intero, come in un quadro: piaccia al Cielo che io ne sia capace e che la precisione del mio dipinto eguagli l’intensità del tuo desiderio! Quanto a me, puoi esserne certo, sarà tutt’altro che spiacevole lasciarmi assorbire nella contemplazione dell’amico di gran lunga più delizioso. Occorre, però, premettere che non è cosa da tutti saper penetrare tutte le doti di More, né so se egli si lascerà ritrarre da un pittore qualsiasi come me: non credo, infatti, che il suo ritratto presenti meno difficoltà che raffigurare Alessandro Magno o Achille, né che questi fossero più degni del nostro amico di essere immortalati. Un tale soggetto richiederebbe la mano di un Apelle e io temo di somigliare più a Fulvio e a Rutuba che ad Apelle[4]. Per farti piacere proverò comunque a delineare, più che a dipingere veramente, l’immagine completa di quest’uomo nella misura in cui mi è stato consentito di osservarlo e attraverso i ricordi di una lunga, assidua familiarità. Se poi qualche missione diplomatica vi metterà un giorno in presenza l’uno dell’altro, ti renderai conto che in questa circostanza ti sei messo nelle mani di un artista ben mediocre. Temo proprio che finirai allora per accusarmi o di miopía intellettuale o di invidia, perché di tante qualità che ha More ben poche sono quelle che con la mia corta vista ho saputo scorgere, o che, peggio ancora, ho voluto evocare.

Comincio da ciò che di More ti è meno noto, la sua statura e il suo aspetto fisico[5]. Non è alto, ma non per questo appare piccolo. La proporzione delle membra è così perfetta che non si può desiderare nulla di meglio. È di carnagione chiara; il suo viso luminoso, non pallido e tanto meno rossiccio, lascia trasparire in modo costante un tenue rossore. I capelli sono castano-scuri o, se vuoi, scuri con riflessi biondi; la barba è rada. Gli occhi sono di colore grigio-verde e cosparsi qua e là di macchioline[6]: caratteristiche queste che denotano una felice disposizione d’animo e che perciò piacciono moltissimo presso gl’inglesi. Noi preferiamo gli occhi neri, ma per loro la chiarità dello sguardo è indice di un animo sgombro dal male. In More il volto corrisponde al carattere perché manifesta sempre simpatia e amicizia, ma anche l’abitudine di prendere occasione da un nonnulla per ridersela. In altre parole, è più portato al buonumore e alla festevolezza che ad assumere atteggiamenti gravi e solenni, pur non concedendo assolutamente nulla a sciocchezze sconvenienti e volgari[7]. La spalla destra sembra un po’ più alta della sinistra, e lo si nota soprattutto quando cammina; è così non per un’imperfezione di natura, ma per una delle molte abitudini che, fissandosi in noi, finiscono col causare difetti di questo tipo. Insomma, nel suo aspetto fisico non c’è nulla che stoni, eccetto le mani che, paragonate al resto della sua persona, sono tozze, da contadino. Per quanto poi riguarda la cura del corpo, è stato fin da ragazzo sempre molto negligente, al punto da tralasciare anche le poche cose che Ovidio[8] raccomanda agli uomini di tener presenti. Tuttavia ancora adesso, che ha passato da poco la quarantina, non è difficile ravvisare in lui, per quel che ne resta, la bellezza del giovane che conobbi quando non aveva più di ventitré anni[9].

Gode di buona salute, anche se non è di robusta costituzione[10]; in ogni caso le forze di cui dispone sono sufficienti a fargli sopportare le fatiche di un cittadino del suo rango; mai, o quasi mai, è soggetto a malattie e si può sperare che abbia lunga vita dal momento che il padre, che è molto avanti negli anni, sta trascorrendo una vecchiaia vigorosa e vivace[11]. Quanto al cibo, io non conosco nessuno meno esigente di lui. Fino alla soglia della maturità, preferiva bere acqua, come suo padre; tuttavia, per non mettere a disagio gli altri commensali, mascherava questa sua abitudine bevendo birra in un bicchiere di peltro, ma tanto diluita da essere assai vicina all’acqua, e talvolta acqua pura. In Inghilterra si usa brindare, bevendo a turno alla stessa coppa; egli allora sfiorava la coppa con le labbra per non sembrare uno schizzinoso e per adeguarsi agli usi comuni. Ai cibi ritenuti prelibati preferisce la carne di bue, il pesce marinato, il pane rustico ben lievitato: egli del resto  non ha alcuna avversione per tutto ciò che arreca un piacere onesto anche al corpo[12]. Di latticini e frutta è stato sempre goloso; le uova, poi, sono la sua delizia. La voce, non alta ma tutt’altro che debole, è gradevolmente penetrante: non avendo tonalità o inflessioni particolari, è proprio quella che conviene a un parlatore. Benché appassionato di ogni specie di musica, non sembra dotato per il canto. La sua pronuncia è meravigliosamente netta, ben articolata, senza precipitazione e senz’impaccio.

Ama vestire con semplicità; non porta abiti di seta o di porpora, e neppure catene d’oro, se non gli è imposto dal cerimoniale[13]. È sorprendente vedere quanta scarsa importanza dia all’etichetta, nel rispetto della quale i più fanno consistere la buona educazione. Egli, invece, non ne esige l’osservanza dagli altri nei suoi confronti e non se ne preoccupa più di tanto neanche nelle riunioni e nei pranzi ufficiali; non che ne ignori le regole quando gli piaccia farne uso, ma giudica cosa effeminata e indegna di un uomo adulto sprecare una buona parte del tempo in tali inezie.

Per molti anni si è tenuto lontano dalla corte e dall’intrattenere rapporti di familiarità con i principi, perché a lui è particolarmente odiosa la tirannia così come gli è carissima l’uguaglianza[14]. È ben difficile, infatti, trovare una corte che, per quanto abbia il senso della misura, non sia piena di strepito, ambizioni, ipocrisie e dissolutezze e che sia del tutto esente da ogni specie di tirannia. Si capisce allora che solo con molte insistenze lo si è potuto trascinare alla corte di Enrico VIII, che pure è un principe di cui non si può desiderare uno più civile e moderato. Per natura aspira a essere libero e a disporre del proprio tempo a modo suo: è felice, infatti, di usare come meglio crede il tempo che gli è concesso, ma nessuno è più attento e paziente di lui tutte le volte che le circostanze lo richiedano.

Sembra nato e creato per l’amicizia, di cui è il cultore più sincero e di gran lunga il più tenace[15]. Non teme la molteplicità delle amicizie, o poliphilia, da Esiodo[16] troppo poco lodata. Per lui, invece, non c’è persona con cui non sia pronto a stringere un legame d’amicizia. Per nulla esigente nella scelta delle amicizie, le alimenta con straordinaria generosità e le custodisce con immutabile fedeltà. Se per caso s’imbatte in qualcuno che non può guarire dai suoi vizi, se ne separa al momento opportuno, preferendo diradare i rapporti a poco a poco piuttosto che romperli di colpo. Quando, però, incontra amici sinceri che abbiano il suo stesso sentire, è felice di stare insieme e di intrattenersi con loro, tanto che sembra far consistere proprio in ciò la gioia essenziale del vivere. Ha una netta avversione, invece, per passatempi come le partite a palla, i dadi e altri giochi con cui la maggior parte della gente bene ha l’abitudine di ingannare la noia. È senza dubbio molto trascurato in ciò che riguarda i suoi interessi, ma non v’è nessuno che curi meglio quelli dei suoi amici. Che dire di più? Chi volesse cercare un esempio di vera amicizia, non ne potrebbe trovare uno più perfetto di More.

Quando è in compagnia, la sua squisita gentilezza e la sua capacità di piacere agli altri sono tali da rasserenare chiunque, anche chi per temperamento sia incline alla malinconia, non essendovi situazione penosa di cui egli non riesca ad allontanare il disagio. Fin da ragazzo traeva un tale piacere da battute e motti di spirito che sembrava fatto apposta per quel tipo di divertimento, pur senza mai scadere nella buffoneria scurrile e nel sarcasmo[17]. Adolescente, scrisse e rappresentò anche piccole commedie[18]. Provava un vero godimento quando ciò che si diceva, anche se diretto contro di lui, era espresso in modo spiritoso: anche adesso ama molto le battute, a patto che abbiano mordente e siano veramente scintillanti d’arguzia. Per questo in gioventù compose degli epigrammi e Luciano[19] divenne uno dei suoi autori preferiti. C’è di più: fu lui a spingermi a scrivere l’Elogio della Follia, che è come dire a far danzare un cammello!

Nelle vicende umane, anche quando si tratta di argomenti molto seri, riesce a cogliere sempre qualcosa di interessante e piacevole. Con i dotti e i saggi gusta le gioie dello spirito, con gl’ignoranti e gli scriteriati si diverte alle loro sciocchezze. Non lo infastidiscono neppure i buffoni, avendo il dono di sapersi adattare con un’abilità fuori del comune agli umori degli altri. Anche con le donne, a cominciare dalla moglie, usa lo stesso tono scherzoso e gioviale. Potresti dire di lui che è un altro Democrito[20], o piuttosto quel filosofo pitagorico che, aggirandosi per il mercato, con l’animo sgombro da preoccupazioni, contempla il tumultuoso affaccendarsi di venditori e compratori. Nessuno meno di lui è schiavo delle opinioni prevalenti, ma al tempo stesso nessuno meno di lui si allontana dal senso comune[21].

Il suo hobby preferito è osservare le forme, gl’istinti, le caratteristiche dei diversi animali; non vi è quasi specie di uccelli che non allevi in casa, dove alleva bestie che per i più sono rare, come la scimmia, la volpe, il castoro, la donnola e simili. Se poi gli capita di vedere qualcosa di esotico e di strano, è preso dall’irresistibile voglia di acquistarlo; la casa è tutta piena delle sue raccolte e non vi è un angolo che non attiri l’attenzione dei visitatori; ogni volta poi che More vede costoro trarne diletto, rinnova anche il suo. Quando pervenne all’età conveniente, non fu affatto insensibile al fascino femminile, senza per questo oltrepassare i confini del lecito: gli piaceva più essere desiderato che muovere lui in cerca d’amore, e la corrispondenza degli animi l’attraeva più che l’unione dei corpi[22].

Fin dai primi anni aveva avuto modo di attingere alle fonti delle buone lettere e da giovane si dedicò allo studio della letteratura greca e della filosofia, ma con l’opposizione del padre. Questi, uomo prudente e in tante altre circostanze assai ragionevole; pur di sviarlo da quegli studi, giunse a privarlo dei mezzi necessari e pensò persino di disconoscerlo come figlio, perché sembrava allontanarsi dalla carriera paterna, essendo John More specialista di diritto britannico. Questa professione è quanto mai lontana dalla vera cultura, ma chi acquista autorità in essa è ritenuto persona molto importante e gode della più alta considerazione in Inghilterra: è essa, infatti, la via più idonea a procurare vantaggi economici e notorietà e nell’isola ha reso possibile l’ascesa politica di gran parte della nobiltà. Per raggiungere, però, una vera competenza in materia occorre sudare molti anni. Non senza ragione, perciò, lo spirito di More adolescente, aperto a interessi più alti, si allontanò dagli studi giuridici; tuttavia, una volta terminato il periodo della formazione scolastica[23], egli finì con l’acquistare in quel campo una padronanza tale da essere preferito alla maggior parte dei suoi colleghi che si erano applicati esclusivamente al diritto, per cui aveva una clientela più numerosa e guadagnava di più. Tanto grandi erano la forza e la rapidità d’intuizione del suo ingegno!

Tutto questo non gl’impedì di mettersi a studiare con impegno i classici cristiani. Era quasi adolescente quando tenne conferenze pubbliche sul De civitate Dei di sant’Agostino dinanzi a un numeroso uditorio, in mezzo al quale c’erano preti e anziani che non provavano vergogna, né si rammaricavano di prendere lezione da un giovane laico su argomenti religiosi. Frattanto si applicò con intima adesione all’esercizio della pietà con veglie, digiuni, preghiere ed altre pratiche del genere; pensò di farsi sacerdote, e anche in ciò si dimostrò assai più saggio di quelli che si buttano in una missione tanto ardua senz’aver prima messo alla prova le proprie forze. Nulla contrastava in lui con quel tipo di vita, ma non riusciva a strappare da sé il desiderio di prender moglie. Preferì, pertanto, essere un marito casto che un prete impuro.

Sposò una giovanissima donna [24] di illustre casato, ma priva di cultura, perché era cresciuta in campagna e non aveva frequentato altre persone all’infuori dei genitori e delle sorelle. More la scelse così per poterla meglio formare secondo l’ideale che aveva in mente. Provvide alla sua educazione letteraria, la rese esperta in ogni genere di musica e la plasmò così bene che per il marito sarebbe stata una gioia passare in sua compagnia tutta la vita, se una morte prematura non gli avesse portato via la giovane sposa, quando però gli aveva dato un certo numero di figli, di cui quattro sono ancora in vita: tre figlie, Margaret, Luisa e Cecily, e un maschio, John[25]. Non sopportò di rimanere a lungo celibe e, contro il diverso parere degli amici, pochi mesi dopo aver sepolti la moglie, preoccupato delle necessità della famiglia più che del suo piacere, sposò una vedova: quella donna non era nec bella nec puella («né graziosa, né giovane»), com’egli scherzosamente amava dire[26], ma una madre di famiglia attenta ed energica, al fianco della quale la vita scorre con affettuosa tenerezza, quasi fosse una giovane di amabile bellezza. Con l’imposizione e la severità un marito ottiene a fatica di essere ascoltato dalla moglie come lui che usa, invece, modi gentili e scherzosi. E che cosa mai non potrebbe riuscire a un uomo come lui? Egli ha fatto sì che una donna già matura, di carattere tutt’altro che malleabile, e per giunta molto presa dalle sue occupazioni, imparasse a suonare la chitarra, il liuto, il monocorde e il flauto, eseguendo ogni giorno, alla presenza di un intenditore esigente come il marito, il brano che le era stato assegnato per quel giorno[27].

Con la stessa amabilità governa tutta la famiglia: una famiglia, la sua, in cui non si fanno drammi, né vi sono litigi e quando sorgono, egli vi porta subito il rimedio e la riconciliazione[28]. More ha fatto in modo che neppure uno andasse via portando con sé, o lasciando, un qualche rancore. Insomma, alla sua casa sembra sia toccata una felice sorte, per cui tutti coloro che vi abitano sono avviati a una condizione migliore e nessuno si sente sminuito nel suo onore. È difficile che qualcuno viva con la madre in buona armonia come lui con la matrigna: essendosi suo padre risposato, egli ha unito nell’affetto la madre e la matrigna, amandole come se fosse figlio di entrambe. Il padre in seguito prese moglie una terza volta e More dice in tutta onestà di non aver conosciuto una donna migliore di lei. Egli, d’altra parte, ha per i suoi congiunti – genitori, figli e sorelle – un affetto pieno di sollecitudine, senza riuscire mai assillante.

Egli è del tutto estraneo alla bassezza e all’avidità di un guadagno cercato con animo sordido. Ha messo da parte per i figli ciò che considera sufficiente ai loro bisogni; il resto lo dispensa con larghezza. Anche quando viveva facendo l’avvocato, dava a ciascun cliente un consiglio da amico, considerando il loro vantaggio piuttosto che il suo: di norma egli cercava di convincere le parti in causa a trovare un accordo perché avessero meno spese. Se non vi riusciva – perché c’è pure gente che a litigare prova gusto – indicava le vie per ridurre al minimo le spese legali. A Londra, sua città natale, è stato per alcuni anni giudice nelle cause civili: era un ufficio non gravoso, le cui udienze si tenevano solo il giovedì mattina, ma di grande prestigio. Ebbene nessuno più di lui portò a termine in quell’incarico tanti processi, né con maggiore integrità. Quasi sempre restituiva ai contendenti l’onorario che erano tenuti a versare per legge; prima dell’udienza, infatti, chi è ricorso al tribunale versa tre monete e così pure fa l’accusato, né il giudice può esigere di più. Per questi motivi egli è di gran lunga l’uomo più caro ai suoi concittadini.

La sua posizione gli conferiva prestigio senza esporlo a gravi rischi, ed egli ne era contento. Inviato due volte all’estero in missione per incarico del sovrano, operò con eccezionale avvedutezza ed Enrico VIII non si diede pace finché non riuscì a trascinarlo a corte[29]. “Trascinato” è, infatti, la parola esatta, perché nessuno ha brigato con tanta insistenza per entrare a corte come More per starne fuori. Desiderando quell’ottimo re riempire la propria casa di uomini insigni per cultura, nobiltà d’animo, saggezza e integrità morale, invitò molti personaggi illustri, primo fra tutti More: egli lo voleva tra i collaboratori più stretti, tra quelli che dovevano stargli sempre vicino. Se si devono affrontare questioni difficili, nessuno è più esperto di More; ma se il re ha voglia di rilassare il suo animo, volgendosi ad argomenti più ameni, quale miglior compagno di allegria? I problemi complicati, in cui occorre un giudizio severo e saggio a un tempo, non mancano certo, ma egli li affronta in maniera tale che ognuna delle due parti finisce con l’essergli riconoscente; e nessuno dei contendenti è mai riuscito a fargli accettare un qualche dono. Felici, dunque, quegli Stati in cui il principe riesca a nominare in ogni settore magistrati che somiglino a More; anche perché lui, malgrado i suoi meriti, non si è mai montato la testa.

In mezzo a così gravose responsabilità, non si dimentica degli amici d’un tempo, anche dei più modesti, né delle amatissime lettere a cui ritorna ogni volta che gli è possibile. Dell’influenza acquistata con la sua posizione e dell’ascendente che ha su un sovrano che dispone di così ampi poteri si avvale solo per il bene dello Stato e per giovare agli amici. Il suo animo, mirabilmente incline alla misericordia, ebbe sempre un’ardentissima aspirazione: fare il bene di tutti[30]. Aspirazione che in lui diventa più evidente nel momento in cui egli è effettivamente in grado di poter giovare di più. Aiuta gli uni con il danaro, dà sicurezza agli altri con la sua autorità, di altri ancora si fa personalmente garante; a quanti non può giovare altrimenti, offre il soccorso del suo consiglio. Non ha mai lasciato andar via nessuno con la tristezza nel cuore[31]. Si potrebbe dire che More è il patrocinatore di tutti quelli che si trovano in difficoltà: sollevare un oppresso, liberare qualcuno da un’incertezza paralizzante, far ritrovare il perdono e la pace a un disgraziato è per lui un guadagno, e un ingente guadagno. Nessuno accorda più volentieri di lui un favore, nessuno lo fa pesare di meno[32]. Ha tante ragioni per essere un uomo felice e benché alla fortuna si accompagna, di solito, un’arrogante ostentazione di superiorità, finora a me non è mai capitato d’incontrare una persona tanto lontana da quel vizio.

Ma torniamo alla sua attività letteraria, che più di ogni altra cosa ha legato me a More e More a me[33]. Da ragazzo coltivò principalmente la poesia; ma ben presto provvide a rendere più scorrevole la sua prosa, esercitando il suo stile in ogni genere letterario. Ma che senso ha ricordare quale sia il suo stile proprio a te che hai sempre in mano i suoi libri? La “declamazione” è la forma espressiva che preferisce, provando gusto a discutere argomenti fuori dal comune[34] perché in essi l’intelligenza meglio affina il suo acume. È per questo che, quand’era adolescente, pensava di scrivere un dialogo in difesa della società comunitaria di Platone, compresa la comunanza delle donne[35]. Scrisse anche una replica al Tirannicida  di Luciano, in cui mi volle come suo antagonista per meglio saggiare le sue forze e valutare i progressi compiuti in quel genere letterario. Pubblicò l’Utopia allo scopo di mostrare per quali ragioni gli Stati vanno meno bene di come dovrebbero; ma egli descrive innanzi tutto l’Inghilterra, di cui poteva parlare a fondo per diretta conoscenza. Egli compose in precedenza, nei momenti di riposo, il libro secondo, aggiungendovi poi il primo, buttato giù in fretta nei ritagli di tempo. Di qui una certa discontinuità di stile[36].

È difficile ascoltare un oratore più efficace nell’improvvisare, perché in lui la perfetta dizione asseconda felicemente la capacità inventiva. La sua intelligenza sa concentrarsi su un punto e, nello steso tempo, spaziare in ogni campo; la memoria è pronta e, conservando ogni cosa come in un archivio, gli suggerisce immediatamente, senza esitazione alcuna, tutto quello che è richiesto dalle circostanze o dall’argomento. Nei dibattiti non so chi possa credersi più acuto di lui, che spesso mette in difficoltà anche eminenti teologi, quando si porta sul loro terreno. Parlando di lui tra amici, John Colet[37], uomo acuto e preciso nei giudizi, è solito ripetere che in tutta l’Inghilterra – l’isola in cui pure fioriscono non pochi ingegni – non esiste che un genio, Thomas More.

Pratica con cura la vera pietà ed è lontanissimo da ogni superstizione. Ha le sue ore consacrate a Dio, a cui innalza le sue preghiere non per abitudine ma con intimo fervore. Quando con gli amici parla della vita futura, si capisce che le sue parole, aperte alla più grande speranza, vengono dal profondo dell’animo. E così si comporta anche alla corte del re. E poi dicono che i buoni cristiani si trovano solo nei monasteri!

Questi sono gli uomini che nella sua illuminata saggezza il re non solo ammette a corte, ma invita; meglio ancora, trascina di forza nella cerchia dei suoi amici. Li prende come giudici e testimoni costanti della sua vita, li sceglie per consiglieri e compagni di viaggio. Di questi uomini ama circondarsi, non di giovani scialacquatori e donne facili, di nobili ingioiellati come Mida, o di cortigiani servili: tra costoro, infatti, gli uni lo trascinerebbero verso piaceri abietti, gli altri lo spingerebbero addirittura con entusiasmo a farsi tiranno e ad escogitare nuovi sistemi per derubare i suoi sudditi[38]. Se anche tu, caro Hutten, fossi vissuto a questa corte, ne avresti parlato nel De vita aulica («La vita di corte»)[39] in un altro modo, cessando di esserle nemico. Anche tu, però, vivi con un principe che non si potrebbe desiderare più integro[40] e non mancano presso di lui uomini dediti alle cose più alte come Stromer e Cop[41], anche se si deve riconoscere che le personalità di quel livello sono poche a paragone della folta schiera dei Mountjoy, dei Linacre, dei Pace, Colet, Stokesley, Latimer, More, Tunstall, Clerk[42] e tanti altri: citando uno solo di questi nomi, tu nomini contemporaneamente un mondo intero di saggezza e di sapere. Spero ardentemente che Alberto di Brandeburgo, ornamento unico di cui si fregia oggi la nostra Germania, chiami intorno a sé molti altri spiriti simili al suo, offrendo così un esempio degno di essere imitato dagli altri principi, ognuno dei quali dovrebbe impegnarsi a fare altrettanto nella propria corte.

Adesso hai davanti ai tuoi occhi l’immagine di un modello perfetto, anche se malamente delineata da un pessimo artista: immagine che ti piacerà ancora di meno, se un giorno avrai la gioia di conoscere More da vicino. Nel frattempo io ho fatto quanto potevo per soddisfare la tua richiesta e questa volta non merito proprio il rimprovero che solitamente mi fai di scriverti lettere troppo brevi. Se questa lettera non mi è parsa lunga nello scriverla e se a te, nel leggerla, non sembrerà prolissa, io ne conosco la ragione: il merito va tutto all’incanto che promana dal nostro More[43]. Stammi bene.

 

[1] La lettera di Hutten a cui Erasmo si riferisce non ci è pervenuta.

[2] Quel detto è illustrato da Erasmo nell’Adagio 179, che reca il titolo: Amor videndo nascitur mortalibus..

[3] Per hos fit aliquoties ut ardentissima charitate conglutinentur inter quos nec colloquium nec mutuus conspectus intercessit. Et quemadmodum vulgo fit ut incertis de causis alia forma alios rapiat, ita videtur et ingeniorum esse tacita quaedam cognatio, quae facit ut certis ingeniis impense delectemur, caeteris non item.

[4] Apelle, il più illustre dei pittori greci, visse nel IV secolo a. C.; tra le sue opere più celebri si ricordano la Venere di Cos  e Alessandro con la folgore.Nella Storia Naturale (VII, 125) Plinio il Giovane riferisce di un editto con cui Alessandro proibiva a chiunque di ritrarre la sua immagine, tranne che ad Apelle. Fulvio e Rutuba sono i gladiatori citati da Orazio nelle Satire (2, 7, 96) per contrapporre i loro nomi sconosciuti e le loro esibizioni da attori grossolani al nome celebre e all’arte raffinata di Pausia, l’altro grande pittore del IV sec. a. C. Plinio (Storia nat. VII, 38, 125) e Orazio (Ep. 2, 1, vv. 239-240) scrivono che Alessandro vietò con apposito decreto a qualsiasi pittore di ritrarre la sua immagine, tranne che ad Apelle.

[5] Erasmo e More si somigliano per la taglia della corporatura, il colore degli occhi e dei capelli, il colorito e l’espressione del viso, il tono di voce, la pronuncia chiara e netta; e, sul piano spirituale, specialmente per la costanza nell’amicizia e la cordialità del tratto. Uno dei collaboratori più stretti di Erasmo, Beato Renano, che l’umanista definisce in una lettera homo candidus et amicus (Ep. 909), nel 1540 scrisse una biografia del maestro, la Vita Erasmi, e la dedicò all’imperatore Carlo V ( in Allen, Opus ep., I, pp. 76-71). Beato Renano, che cita l’Epistola 999, usa espressioni molto simili a quelle di cui si serve Erasmo per delineare il ritratto di More.

[6] Nel disegno e nel dipinto di Hans Holbein il Giovane, eseguiti nel 1527, More ha la barba non folta.

[7] Vultus ingenio respondet, gratam et amicam festivitatem semper praeseferens, ac nonnihil ad ridentis habitum compositus; atque, ut ingenue dicam, appositior ad iucunditatem quam ad gravitatem aut dignitatem, etiamsi longissime abest ab ineptia scurrilitateque (ed. Allen, linee 44-48).

[8] Ovidio, Ars amandi I, vv. 507-521.

[9] Un po’ dopo la metà dell’Ottocento fu trovata, negli ultimi fogli di un libro lasciati in bianco, la breve storia della famiglia More. L’aveva scritta il padre di Thomas, John More. Da quella specie di promemoria in latino risulta che Thomas “venne alla luce fra le due e le tre del mattino” il 6 febbraio 1478. Nel 1519 egli aveva compiuto da qualche mese 41 anni e mezzo o 42.

[10] More si lamenterà delle sue non buone condizioni di salute solo negli ultimi drammatici mesi del suo Cancellierato, nel 1532. Si pensa che soffrisse di angina pectoris.

[11] Il padre e la madre di Thomas, John More e Agnes Granger, appartenevano a famiglie borghesi di recente agiatezza. Nato quasi certamente nel 1451, John More aveva 27 anni quando gli nacque Thomas, il secondo di sei figli. Esperto di diritto inglese, fu avvocato di grido e giudice integerrimo. Si ignora la data di morte della madre di Thomas; quando Erasmo rivide nel 1521 la lettera a Hutten, John More si era sposato altre due volte. Alla terza vedovanza seguì il quarto matrimonio. Non volle assolutamente che Thomas facesse di professione l’umanista, ma padre e figlio rimasero vicini come pochi per tutta la vita: avvocati e giudici entrambi, furono uomini di specchiata rettitudine, di sorridente socievolezza, di gentile pietà per gli umili. John More si spense nel 1530 a 79 anni. Durante il Cancellierato, More non tralasciava di inginocchiarsi davanti a suo padre nel tribunale di Westminster, per riceverne, secondo l’uso del tempo, la benedizione. Il giudice John ebbe la fortuna di non vivere abbastanza a lungo da assistere alle tragiche vicende del figlio. Nell’iscrizione che compose per la propria tomba, Thomas rese un commosso omaggio al padre da poco scomparso.

[12] Alioqui neutiquam abhorrens ab omnibus quae voluptatem innoxiam adferunt etiam corpori (ed. Allen, linee 72-73). Anche gli utopiani non bandiscono affatto nullum voluptatis genus, a patto che i piaceri siano innocenti e non abbiano conseguenze spiacevoli (Utopia, Yale ed., p. 144).

[13] In Utopia l’uso dell’oro è riservato con allegro umorismo a umili impieghi: le catene per gli schiavi e i vasi da notte. “More è un pioniere dell’informality anglosassone”, annota Germain Marc’hadour.

[14] Erasmo fa la stessa allusione nell’Epistola 832 del 24 aprile 1518.

[15] Ad amicitiam natus factusque videtur, cuius et syncerissimus est cultor et longe tenacissimus est (ed. Allen, linee 97-98).

[16] “Non è bene avere molti amici, né esserne senza” (Esiodo, Le opere e i giorni, v.713). Esiodo visse intorno al 700 a. C. Cicerone e Plutarco rifiutano di sottostare a questa limitazione sistematica.

[17] In convictu tam rara comitas ac morum suavitas, ut nemo tam tristi sit ingenio quem non exhilaret, nulla res tam atrox cuius taedium non discutiat. Iam inde a puero sic iocis est delectatus ut ad hos natus videri possit, sed in his nec ad scurrilitatem usque progressus est, nec mordacitatem unquam amavit (e. Allen, linee 111-115).

[18] Doveva avere all’incirca dodici anni More quando, per imparare le rigide norme che regolavano la vita della buona società, fu accolto nella casa di John Morton, arcivescovo di Canterbury e Lord Cancelliere. «Lì, giovanissimo, durante le recite di Natale, si divertiva a introdursi tra i commedianti e, senza essersi preparato, improvvisava una parte che divertiva gli spettatori più di quelle recitate dagli attori stessi.» (W. Roper, The Life of Sir Thomas More; prima edizione critica a cura di E. V. Hitchcock, London 1935).

[19] Luciano di Samosata, vissuto tra il 120 e il 180 d. C., fu avvocato, conferenziere itinerante, professore di retorica. Come scrittore in lingua greca, creò il dialogo satirico. Seppe essere “serio nel far ridere”. Di lui More tradusse tre dialoghi e il Tirannicida.

[20] Filosofo greco, nativo di Abdera in Tracia, vissuto all’incirca tra il 460 e il 357 a. C., elaborò una concezione atomistica della realtà e ridusse tutte le cause ad una sola, di tipo meccanico. Furono suoi avversari Platone, che ne confutò le teorie senza mai nominarlo, e Aristotele. Nella tarda antichità fu conosciuto come “il filosofo che ride”, probabilmente per l’alto valore che nella morale attribuiva alla “letizia”. Più tardi, dopo la sua tragica fine, More sarà pargonato a Socrate.

[21] Nemo minus ducitur vulgi iudicio, sed rursus nemo minus abest a sensu communi (ed. Allen, linee 129-130). Nella lettera-prefazione all’Elogio della Follia Erasmo ravvisava nel dosaggio di autonomia di giudizio e di buon senso uno dei segni della riuscita di More e della sua grande umanità: “L’eccezionale penetrazione del tuo spirito ti porta di solito a prendere posizioni che sono molto lontane da quelle degli altri; e tuttavia l’incredibile tua gentilezza e l’indulgenza affabile del tuo carattere sono tali che a te riesce dolce essere in ogni momento l’uomo di tutti (cum omnibus omnium horarum hominem agere et potes et gaudes)”.

[22] La frase non abhorruit a puellarum amoris ha acceso l’immaginazione di alcuni biografi alla ricerca di una “conversione” nella vita di More, che in qualche modo somigliasse a quella di Agostino, o di Pico della Mirandola. In realtà, nella sua esistenza More non conobbe periodi di sviamento morale. Le parole di Erasmo dicono soltanto che il giovane More era sensibile alla bellezza femminile e che la ricerca di affinità elettive nei rapporti con una donna contava per lui più di ogni altra cosa. In un epigramma scritto poco dopo i quarant’anni More evoca egli stesso il momento nel quale, sedicenne, scoprì con tremore di essere attratto da Elizabeth, un’amica quattordicenne. Dopo un quarto di secolo More ricorda la tenerezza pudìca e l’innocenza di quella scoperta: “Tu che un tempo, in tutta innocenza, ti impadronisti dei miei sentimenti, / anche oggi, con altrettanta innocenza, mi sei rimasta cara. / Era stato un amore casto: a non renderlo oggi peccaminoso, / se non bastasse la rettitudine, basterebbe l’età” (Epigr. 263, 46-49. Testo latino e trad. it. in Tutti gli epigrammi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994).

[23] More passò a Oxford gli anni della formazione alle “umanità” e quelli degli studi giuridici alle Inns of Courts londinesi, che erano scuole superiori di diritto consuetudinario. Nel 1501 fu ammesso al Collegio degli avvocati. Quando studiava diritto, More alloggiò per quattro anni presso la Certosa di Londra.

[24] Joan Colt (1487-1511) diventò sposa di Thomas More nel gennaio 1505, a 17 anni; il marito ne aveva 27. I coniugi abitarono nella City di Londra, nel quartiere di Bucklersbury, in una casa ampia, ma che sorgeva fra strade anguste e brevi piaz-zette. In principio il disagio di trovarsi in un ambiente lontanissimo dal suo e la nostalgia per la verde campagna dovettero essere avvertiti acutamente dalla giovane sposa; ben presto, però, le difficoltà iniziali, che furono certamente notevoli, furono superate grazie all’affetto intenso e delicato di Thomas. Erasmo – che fu più volte, talora anche per lunghi periodi, ospite di Joan e Thomas – si divertì a scrivere nei Colloqui  un delizioso racconto sugli ostacoli che doveva superare una giovane coppia in cui le disparità di cultura e di ambiente erano molto forti, essendo lei cresciuta nell’ozio e nell’ignoranza, malgrado le sue doti naturali, e lui fin troppo colto e  aperto ai più nobili interessi. Nei protagonisti della scenetta del Coniugium («Un matrimonio») è facile riconoscere Joan e Thomas. La piena, felice riuscita del matrimonio non può farci dimenticare che esso ebbe per More il carattere di un “rischio” consapevolmente assunto, a dimostrazione delle straordinarie risorse della natura umana, e in questo caso di un’adolescente, se risvegliate dall’amore. Joan Colt morì nel 1511, a soli 22 anni, dopo cinque di matrimonio.

[25] Per inavvertenza Erasmo chiama Luisa la seconda figlia di More, Elisabeth. Margaret, la primogenita, era la più dotata intellettualmente e aveva passione per gli studi umanistici, teologici e di medicina. Fu la prediletta del padre. Margaret si sposò con William Roper il 2 luglio 1521. Di Elisabeth e Cecily sappiamo che si sposarono nello stesso giorno, il 29 settembre 1525. Nell’ultima lettera dalla prigionia, “scritta con il carbone”, More lascia come suo ricordo a Elisabeth un quadretto in pergamena ricevuto in dono e a Cecily un fazzoletto (Ep. 218 Rogers). Della famiglia More erano entrati a far parte i mariti delle tre figlie, giovani avviati a un grande avvenire, o già membri del Parlamento, ma il tragico destino di Thomas modificò anche il corso delle loro esistenze. Cinque anni dopo l’esecuzione del suocero, nel 1540, moriva per mano del boia il marito di Cecily, Giles Heron. William Roper e William Dauncey, il marito di Elisabeth, ebbero salva la vita, ma non evitarono il carcere; e così pure John, l’ultimo figlio di More.

[26] L’espressione nec bella nec puella è di Marziale (Epigr. I, 64).

[27] “Tra il regno di Enrico VI e quello di Enrico VIII l’Inghilterra era Avery musical nation. Era assai diffuso nell’isola l’interesse per la musica. Purtroppo la produzione misicale di quell’epoca è quasi interamente sparita” (C. S. Lewis, English Literatur in the sixteenth Century, London 1954, p. 222). More, sotto questo aspetto, è in piena sintonia con una felice disposizione della società inglese del suo tempo.

[28] Consimili comitate totam familiam moderatur, in qua nulla tragoedia, nulla rixa. Si quid extiterit, protinus aut medetur aut componit (ed. Allen, linee 187-188).

[29] “Platone non giudica qualificati a servire la cosa pubblica se non quelli che vi sono trascinati contro la loro volontà (nolentes pertrahunt)”. Così scriveva Erasmo nel 1517 a Filippo di Borgogna nella lettera-dedica dello scritto Querela Pacis («Il lamento della Pace»).

[30] Semper quidem adfuit animus de cunctis benemerendi cupidissimus mireque pronus ad misericordiam (ed. Allen, linee 234-235).

[31] Nullum unquam a se tristem dimisit (ed. Allen, linee 238-239).

[32] Nemo lubentius collocat beneficium, nemo minus exprobat (ed. Allen, linee 242-243).

[33] Quello che Erasmo pensava degli scritti di More lo dice in una lettera all’editore Johann Froben: “Tutto ciò che ha scritto finora More mi ha sempre incantato; solamente a causa dell’amicizia che ci lega strettamente io diffidavo un po’ del mio giudizio. Ora, però, che vedo tutte le persone colte sottoscrivere unanimemente la mia opinione, ed anche sopravanzarmi nell’ammirazione per il suo genio più che umano, non esito più a dire tutto il bene che penso di lui” (Ep. 635, 25 agosto 1517). Erasmo si chiede che cosa avrebbe dato al mondo il genio di More se avesse potuto “consacrarsi interamente alle Muse e attendere l’autunno della vita per offrirci i suoi frutti maturi” (ibid.).

[34] Erasmo fa la stessa osservazione a proposito di un altro grande amico inglese, John Colet (Ep. 1211).

[35] Erasmo sembra darci in questo passaggio una chiave di lettura sia della Repubblica di Platone, sia del ruolo che quell’opera aveva avuto nella formazione mentale dell’autore di Utopia. Erasmo scrive che More, volendo mettere alla prova la sottigliezza del suo ingegno e la sua capacità dialettica, difendeva tesi che sono proposizioni volutamente espresse in modo estremo e provocatorio. Gli adoxos, gli argomenti fuori dal comune, che More sceglie come test sono quelli che più colpiscono i lettori dell’opera platonica: la proibizione per le sole classi superiori di ogni proprietà e quella, ancor più decisa, di una vita familiare. Occorre quindi chiedersi quali verità profonde Platone voleva affermare per loro tramite. Il discepolo di Socrate voleva tener lontano nel modo più radicale dalla politica il potere economico-finanziario ed eliminare la confusione tra interesse pubblico e interessi privati, o familiari. Insomma, è nella plutocrazia e nel primato esclusivo del “particulare” a spese del bene comune che Platone individua la causa principale della corruzione e dell’ingiustizia che portano tutte le società, e in particolare le democrazie, alla rovina. In questo duplice imperativo, che è etico e politico a un tempo, More ed Erasmo concordano in pieno col filosofo ateniese.

Ben diverso è il discorso riguardante la configurazione mitologica che Platone dette al suo Stato ideale: essa non è solo cosa del tutto secondaria e discutibile, ma spesso contraddice apertamente alla vigorosa affermazione di quei valori che nella Repubblica e in altre opere sono riconosciuti come il fondamento di ogni giusta comunità politica. I due umanisti cristiani sanno che lo spontaneo mettere in comune i propri beni nelle prime comunità della Chiesa nascente non può tradursi in obbligo giuridico; ma essi pensano che da quella esperienza eccezionale, che è religiosa e non politica, giunga un appello a cercare le vie della fratellanza. Nel primo degli Adagi Erasmo giudica negativamente il modo in cui “i cristiani lapidano Platone” invece di sforzarsi di cogliere quello che c’è di profondo nei suoi paradossi.

[36] Queste brevi indicazioni di Erasmo sono illuminanti, perché correggono l’opinione diffusa che l’Utopia sia una fantasia da letterato. È un libro “serio”, come lo è l’Elogio della Follia.

[37] John Colet nacque a Londra nel 1467 e morì il 16 settembre 1519, due mesi dopo che Erasmo aveva datato la lettera a Hutten. Suo padre, un ricco mercante di drappi, era stato due volte Lord Major di Londra. Colet studiò a Oxford, ma fu insoddisfatto del tipo d’istruzione ricevuta. Giovane di acuta intelligenza, impetuoso e fortemente incline alla polemica, a ventitré anni attraversò la Manica per completare la sua formazione a Parigi, a Roma e a Firenze. In quest’ultima città – nella quale allora grandeggiavano le figure di Savonarola, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola – Colet si aprì all’influenza del platonismo cristiano e fece sua l’ansia di una profonda riforma religiosa. Il giovane che nel 1496 tornava in Inghilterra era interiormente trasformato, deciso ormai a dedicare la sua vita al rinnovamento religioso e allo studio della Scrittura. Al rientro, tenne a Oxford un corso pubblico e gratuito sulle lettere di san Paolo, raccogliendo uno straordinario successo. Fu ordinato prete nel marzo 1498. L’anno successivo, nell’ultimo semestre del secolo XV, giunse a Oxford Erasmo. Alloggiato in uno dei collegi della città universitaria, seguì le lezioni di Colet e si innamorò del suo progetto; nacque così tra i due un’amicizia che durò vent’anni, dal 1499 al 1519, e che fu feconda per entrambi, superata solo da quella tra More ed Erasmo. Colet prospettò a Erasmo l’ardito disegno di fondare sulla Scrittura la scienza di Dio, ma lo aiutò anche a individuare la sua missione, a prendere coscienza delle sue forze. Egli avrebbe voluto affidargli subito un corso sulla poesia latina e sull’Antico Testamento, ma l’umanista olandese, pur essendo a corto di mezzi, declinò l’invito. Non si sentiva ancora preparato a quel compito (Ep. 108): aveva compreso, infatti, la necessità di una perfetta padronanza del greco per lanciarsi in un’impresa del genere. Gli anni seguenti saranno consacrati a realizzare quel programma, in cui gli gioverà anche l’amicizia con i grecisti Thomas Linacre e William Grocyn, anch’essi del circolo di intellettuali che si muoveva intorno a Colet. Le vivaci discussioni fra Colet ed Erasmo – di cui ci riferiscono le Epistulae 109-

110-111 e le Lucubratiunculae («Discussioncelle») – attestano la loro grande libertà di spirito, ma la franchezza, talora aspra nel dissenso, non diminuiva in nulla la stima e l’amore reciproco. Erasmo mostra come abbia saputo far sua la “lezione” di Colet nell’Enchiridion militis christiani («Manuale del soldato cristiano»), non a caso pubblicato nel 1504 in un unico volume con le Lucubratiunculae (Ep. 181). Alla morte del padre, Colet poté disporre di una notevole eredità, che impiegò per istituire a Londra, presso la cattedrale di san Paolo, la Saint-Paul’s School, per giovani desiderosi di essere istruiti in Christo et in bonis litteris. In quanto decano della cattedrale, Colet intervenne nei momenti più importanti della vita della Chiesa inglese. Nel 1512 tenne l’allocuzione inaugurale al Sinodo del clero, in cui denunciò la corruzione della Chiesa e ne invocò con appassionata fervore la riforma; memorabile fu il sermone di netta condanna di ogni politica bellicista e di ostentazione di potenza pronunciato il venerdì santo 1513, alla presenza del re, mentre era in pieno svolgimento la guerra contro la Francia.

Erasmo ricordò sempre con gratitudine l’uomo che gli aveva messo nel cuore il desiderio di restaurare la teologia, ponendo al suo centro la Scrittura; Colet, dal canto suo, intuì fin dall’inizio la superiorità culturale dell’olandese e il ruolo che il suo genio avrebbe potuto svolgere nel rinnovamento della paideia cristiana e della Chiesa. Quando ebbe tra le mani l’edizione erasmiana del Nuovo Testamento, Colet ne fu profondamente commosso e scrisse all’amico una lettera toccante – l’Epistola 433 del 20 giugno 1516 – in cui esprime la certezza che il nome di Erasmo non perirà mai (nomen Erasmi nunquam peribit) per la fecondità inesauribile e la perfezione dei suoi apporti, e che la sola immortalità che conti, la felicità eterna, egli se l’è meritata affaticandosi a penetrare e a far conoscere il divino insegnamento del redentore (sudans in Jesu). Colet morì di peste nel corso del suo cinquantaduesimo anno. A John Fisher – vescovo di Rochester e amico comune di Colet, More e suo – Erasmo ne scrisse in questi termini: “La morte di Colet mi fa provare un dolore grande come non mi capitava da almeno trent’anni. Non posso fare a meno di deplorare, a nome di tutti, la perdita di un così raro esempio di pietà cristiana e di perfetto araldo della dottrina cristiana; personalmente, con lui io ho perduto un amico fedele e un incomparabile protettore” (Ep. 1030, 17 ottobre 1519). Dal momento in cui apprese la notizia della morte dell’amico, Erasmo si ripromise di presentarne la figura esemplare di prete cristiano. Lo fece con l’Epistola 1211 del 13 giugno 1521, indirizzata a Jodoco Jonas.

[38] Nel luglio 1519, quando Erasmo invia la lettera a Ulrich von Hutten, nessuno avrebbe potuto prevedere quello che sarebbe accaduto negli anni Trenta e ancor meno la conclusione tragica della vita di More. Da giovane, il principe Enrico aveva interessi vivaci e capacità multiformi. Amava le arti e specialmente la musica: sapeva cantare, ballare e suonava bene l’organo. Scriveva versi ispirati e componeva inni religiosi. Era colto: parlava, oltre all’inglese e al latino, il francese, l’italiano e lo spagnolo. Atleta pieno di grazia e di forza, primeggiava nelle partite a tennis e nei tornei cavallereschi. Il suo avvento al trono nel 1509 autorizzava le più belle speranze. Il giovane re, che aveva “l’ansia di rinnovare ogni cosa”, riuscì in breve tempo a rafforzare l’unità nazionale e la popolarità dei Tudor. Riportò la sicurezza e l’ordine in un Paese ancora stremato dalla guerra delle Due Rose e minacciato sia dalla Scozia celtica, che non voleva diventare anglosassone, sia dalle micidiali spedizioni di selvaggi montanari. Enrico VIII ruppe l’equilibrio dei poteri a favore della corona rafforzandone la presa autoritaria sui nobili, su quel che rimaneva dell’aristocrazia feudale e sul Parlamento, consultato in linea di massima ogni volta che occorrevano ulteriori mezzi finanziari. Egli sviluppò un’accorta politica marinara e di intese commerciali con i Paesi Bassi a sostegno della trasformazione dell’Inghilterra in senso capitalistico. Quando nel continente si spezzò l’unità religiosa dei cristiani, fu decisamente a fianco della Chiesa di Roma, guadagnandosi per un suo libro il titolo di defensor fidei. Aprì, infine, la corte e le università all’influsso della nuova cultura dell’umanesimo critico di Erasmo e dei suoi amici inglesi. Il matrimonio con Caterina d’Aragona fu per parecchi anni felice e la fedeltà di Enrico VIII alla moglie non fu inferiore a quella dei suoi colleghi per le rispettive consorti. Un destino crudele, però, si accanì contro i reali d’Inghilterra, che pure ebbero sei figli, di cui cinque nati morti, o morti dopo pochi giorni, e la sola creatura rimasta in vita, Maria Tudor, essendo donna, non risolveva affatto le difficoltà della successione al trono.

Dal punto di vista storico è un grave errore estendere retrospettivamente al ventennio 1509-1529 il giudizio negativo che si deve dare sulla seconda metà del regno di Enrico VIII, cioè sul periodo 1530-1547, in cui lo scenario mutò radicalmente: la questione del matrimonio del re con Anne Boleyn portò, infatti, alla separazione da Roma della Chiesa d’Inghilterra, alla distruzione dei conventi e al saccheggio delle loro proprietà; l’arbitrio e la crudeltà divennero pratica di governo, essendosi il re circondato di uomini senza coscienza come Cromwell, Cranmer, Audley e simili. Per le sue incredibili vicende matrimoniali il sovrano apparve agli occhi di molti, e non a torto, come un mostruoso Barbablù. Erasmo in questa lettera osserva acutamente che ogni corte comporta in qualche misura una dose di tirannia; ed Enrico, malgrado la “moderazione” mostrata fino a quel momento, era pur sempre un sovrano assoluto, che portava nell’esercizio di un potere pressoché illimitato un’impulsività irrefrenabile e un’insofferenza aggressiva verso quanti non erano in sintonia con le sue scelte e le sue inclinazioni. Senza dubbio l’occasione scatenante che portò alla luce il lato oscuro e malvagio che era in lui fu la sua torturante, folle soggezione all’astuta Anne Boleyn, che aveva appreso alla corte francese i modi raffinati e l’arte di sedurre. Non si sa per quanti anni quella donna giocò con la passione del re, di continuo sollecitata e nello stesso tempo elusa, essendo decisa a non darsi a Enrico se non a patto di diventare la nuova regina d’Inghilterra. Bellissimi erano i suoi lunghi capelli neri e gli occhi neri, ma i ritratti che la raffigurano ci mostrano l’angolosità dura, irregolare del suo volto, che a Parigi era giudicato addirittura repellente. Enrico la fece decapitare per tradimento e adulterio appena un anno dopo che aveva fatto rotolare la testa di Thomas More.

La politica estera inglese – affidata prima al cardinale Thomas Wolsey e poi, a partire dal 1529, con l’avvento di More alla Cancelleria, gestita personalmente dal sovrano – si mosse sempre lungo due direttrici contraddittorie: la vecchia, secolare pretesa inglese di garantirsi una forte presenza sul continente in funzione antifrancese, con il corteo di guerre che ne conseguirono, e l’intuizione nuova che l’avvenire dell’Inghilterra moderna era sul mare. La politica continentale, enormemente dispendiosa e inconcludente, fu criticata da John Colet in un suo sermone e non fu mai condivisa, nel suo intimo, da More. Questi, invece, fu l’artefice sagace e silenzioso, non a caso, di quella Pace di Cambrai che nel 1529 restituì alla Francia il posto che le spettava in Europa, pur salvaguardando gli interessi legittimi dell’Inghilterra e, più in generale, della pace. Fu anche per coprire la voragine del debito pubblico che il re e il Parlamento d’Inghilterra procedettero, dopo la separazione da Roma, all’incameramento selvaggio dei beni dei conventi. I nuovi proprietari – la piccola e media nobiltà, la gentry, e i borghesi – si legarono allora indissolubilmente alla corona, grazie alla quale si erano impossessati delle terre dei conventi a prezzi irrisori; la corona, però, vide ben presto liquefarsi tra le dita il danaro ricavato da quelle vendite e tornò a spremere i contribuenti con nuove imposte. Le conseguenze della distruzione dei rapporti economico-sociali che facevano capo ai conventi divennero subito evidenti: i nuovi proprietari erano assai più intraprendenti dei loro predecessori, ma spietati, e la massa dei diseredati non poteva più contare sulle cento forme di assistenza, di cura degli ammalati, di scuole d’istruzione a cui la Chiesa provvedeva. Quando una parte di quell’esercito di disperati si procurò le armi e si mise in marcia, nel 1536, per compiere il cosiddetto “Pellegrinaggio di Grazia” ai piedi del re, perché facesse cessare le loro sofferenze restaurando il vecchio e più umano ordine di cose, la risposta della corona fu la forca.

[39] Hutten aveva pubblicato nel 1518, in settembre, un dialogo sulla vita di corte, De vita aulica, in cui l’interlocutore principale si chiama «Misaulos», cioè nemico di corte, cortofobo. Lo scritto di Hutten, ristampato per interessamento di Erasmo nel novembre di quello stesso anno presso Froben, era dedicato a Thomas More.

[40] Alberto di Hohenzollern, figlio cadetto dell’elettore del Brandeburgo, a ventitré anni era già arcivescovo di Magdeburgo e amministratore del vescovado di Halberstadt. Non sazio, ottenne dalla Santa Sede anche l’arcivescovado di Magonza, a cui era annessa la dignità di elettore del Sacro Romano Impero. Aveva l’obbligo, però, di pagare a Roma una somma colossale, sia per il versamento consueto della prima annata di redditi dei vescovadi di cui era diventato titolare, sia per la dispensa ottenuta relativamente al cumulo di tante cariche nelle sue mani. Per pagare il debito con Roma Alberto ne contrasse un altro con i Fugger. Gli agenti romani dei grandi banchieri ottennero che nei vescovadi retti da Alberto si predicasse per otto anni l’indulgenza papale e che il ricavato fosse ripartito al 50% tra la curia romana e i Fugger, che avrebbero provveduto alla riscossione del denaro. Il tono e i contenuti della predicazione delle indulgenze, affidata al domenicano Johann Tetzel, fecero il resto. L’elettore di Sassonia impedì al frate di entrare nel proprio Stato e un giovane professore della neonata università di Wittenberg, il padre agostiniano Lutero, volle ricordare ai credenti con le sue Novantacinque Tesi che la salvezza viene dalla fede e non ha nulla a che fare con indegne speculazioni. Lo scandalo delle indulgenze dette subito vasta risonanza alla protesta di Lutero.

Il 14 aprile 1519, tre mesi prima di apporre la data al suo «ritratto» di More, Erasmo aveva affidato a Ulrich von Hutten una lettera confidenziale, riservatissima, per il vescovo di Magonza, l’Epistola 939: in essa l’umanista spiegava la ragione per cui gli sembrava giusto assumere un atteggiamento di neutralità nei confronti di Lutero nella speranza di indurre, per quanto stava in lui, entrambe le parti a non prendere decisioni inconsulte, da cui poi sarebbe stato molto difficile tornare indietro. Hutten subdolamente fece pubblicare quella lettera, insieme ad altre, per compromettere Erasmo e costringerlo a schierarsi con Lutero. I maneggi di Hutten disgustarono Erasmo, che osservava con innegabile verità: “Lo zelo inopportuno di certi amici mi reca più danno dell’odio dei miei nemici” (Ep. 1123, 13 luglio 1520). In ogni caso l’Epistola 939 ad Alberto di Brandeburgo offrì l’occasione ai teologi conservatori di Lovanio e al legato pontificio in Germania, Gerolamo Aleandro – già intimo amico di Erasmo, quando insieme soggiornavano a Venezia, presso Aldo Manuzio – di bruciare pubblicamente i suoi scritti. Aleandro inviò a Leone X un rapporto sfavorevole a Erasmo, ma il papa continuò, come fecero anche i suoi successori, a stimare l’umanista riformatore e a chiedergli consiglio. La successiva lettera del 19 ottobre 1519 ebbe la stessa sorte: fu intercettata e pubblicata dai luterani un mese prima che giungesse nelle mani del destinatario. In essa Erasmo scriveva al primo responsabile del traffico delle indulgenze che su quell’argomento Lutero aveva ragione (Ep. 1033).

[41] Heinrich Stromer (1482-1542), rettore dell’università di Lipsia nel 1508 e dal 1516 docente di patologia medica, fu medico dell’arcivescovo di Magonza. A lui Hutten dedicò l’opera De vita aulica. Wilhelm Cop (1466-1532) fu umanista e scienziato. Tradusse dal greco Galeno e Ippocrate. Fu medico di Francesco I. Nel 1519, quando Erasmo scrive a Hutten l’Epistola 999, Stromer e Cop erano al servizio dell’arcivescovo di Magonza, Alberto di Brandeburgo.

[42] Erasmo qui non compila, sia chiaro, l’inventario dei personaggi che attorniavano Enrico VIII, a corte, ma vuole sottolineare l’importanza dell’umanesimo inglese, che aveva direttamente conosciuto attraverso i suoi esponenti più qualificati. L’elenco si apre con l’ex allievo di Parigi e fedele protettore, almeno fino a quando i mezzi glielo permetteranno, Lord William Mountjoy. Viene poi ricordato John Colet, primo vero maestro spirituale di Erasmo; segue il gruppo dei più famosi ellenisti e cultori delle bonae litterae, a cominciare da More, dirette alla formazione non solo del dotto in quanto tale, ma dell’uomo integrale, moralmente e politicamente retto, del cristiano autentico.

Gli altri amici umanisti citati da Erasmo sono anch’essi attori, benché non di primo piano, del rinnovamento culturale e religioso in Inghilterra. Medico, insigne latinista, editore di Aristotele fu Thomas Linacre (1460-1524); a lui si deve anche la versione in latino di Galeno. Richard Pace (1483 circa-1506) conobbe Erasmo in Italia e ne custodì i manoscritti (Ep. 412). A lui il re affidò numerose missioni diplomatiche. Fu sempre amico fedele di Erasmo e ne fu ricambiato. John Stockley (1475-1539), conoscitore dell’ebraico oltre che del greco e del latino, era cappellano di Enrico VIII e in tale ufficio assistette il re nella questione del divorzio. William Latimer (1460 circa-1545) fu sacerdote coltissimo, ma non lasciò suoi scritti. John Clerk fu ambasciatore di Enrico VIII in Francia e a Roma e vescovo dal 1523. Morì nel 1541.

[43] Nella chiusa della lettera – che qui si riporta integralmente – Erasmo passa a parlare d’altro. Chiede a Hutten spiegazioni su un paio di episodi poco chiari, su cui tornerà nell’Ep. 1033, aggiungendovi notizie su un comune amico, il grande ebraista Johann Reuchlin. Egli dà voce, infine, all’amarezza del suo animo, trovandosi in quel momento al centro degli attacchi che gli vengono mossi nella sua Lovanio e proprio per l’edizione greco-latina del Nuovo Testamento. Il genio malefico di tutta l’operazione è, a suo avviso, il teologo inglese Edward Lee, che studia a Lovanio e agisce in stretto collegamento con i teologi conservatori di quella università. Di lui, però, Erasmo tace per ora il nome. Ecco il testo degli ultimi due capoversi della lettera.

In risposta alla tua ultima lettera – che ho letto già stampata, prima di ricevere quella scritta di tuo pugno – posso dirti che un’idea dell’umanità dell’illustrissimo principe Alberto me la sono fatta attraverso le lettere che mi indirizza. Sono venuto a sapere del dono che egli mi ha inviato da una tua lettera, resa pubblica quando la patèna [d’oro e d’argento] non mi era ancora giunta. Come si spiega ciò? Eppure tu non potevi affidare quel dono a mani più sicure di quelle di Richard Pace, ambasciatore del re serenissimo d’Inghilterra, che io ho avuto occasione d’incontrare nel Brabante e nel suo stesso Paese. A quanto vedo tu combatti attivamente con la penna e la spada, né il tuo successo è inferiore al tuo valore. Ho sentito dire che godi anche di grande credito presso il reverendissimo cardinale Caietano. Mi rallegro nell’apprendere che Reuchlin sta bene. [Per quanto poi riguarda] Franz von Sickingen, le lettere, se non vogliono essere accusate d’ingratitudine, non permetteranno che perisca il suo nome [perché egli ha difeso Reuchlin]. Delle nostre faccende parleremo un’altra volta. Per ora mi limito a dirti che qui [a Lovanio] abbiamo a che fare con i più sordidi delatori, con cui io non posso certo competere. Se qualcuno dei tuoi desiderasse apprendere quel mestiere, gl’indicherò io un uomo straordinario in quel campo, uno che tu diresti nato proprio per quel tipo di infamia. Al suo confronto persino un oratore come Cicerone sembrerebbe meno valente, e dire che quel signore trova presso di noi molti adepti. Il momento non è ancora venuto, ma presto ti confiderò il suo nome perché egli, che continua a brigare indecentemente, possa essere additato da tutte le persone colte per quello che è: più che un uomo, un mostro”.

NOTA: il testo  è tratto dal volume “Erasmo da Rotterdam. RITRATTI DI THOMAS MORE” con saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini (La Scuola Editrice, Brescia, 2000). Il volume è fuori commercio.