Lettera a un figlio

Quando uscì nell’ottobre del 1990 il volume Zaccagnini di Corrado Belci, pubblicato dalla Morcelliana di Brescia, ne informai ampiamente i lettori del nostro giornale, perché il libro offre un ritratto a tutto tondo di un italiano pulito, anche se per quarant’anni è stato protagonista delle vicende politiche italiane. In questi giorni quel libro di Belci è giunto ormai alla terza edizione, ma va riproposto soprattutto per un capitolo interamente nuovo, che si intitola «1968. Lettera ad un figlio».
Il 1968 fu l’anno della contestazione e dei moti giovanili. Per «papà» Zaccagnini fu l’anno di una duplice, acuta sofferenza: un figlio, Luca, era stato colpito da una gravissima malattia; l’altro, Carlo, era attirato dal vortice della protesta e interpellava polemicamente il padre in quanto uomo di partito e di salde convinzioni democratiche. Da Carlo, appunto, era giunta una lettera a cui bisognava rispondere, una «lettera impegnata e impegnativa», una di quelle che ti obbligano a uscire allo scoperto e, nello stesso tempo, a penetrare nel cuore del tuo cuore.
E fu dalla stanza del figlio Luca, che sedeva silenzioso in poltrona, che papà Zaccagnini rispose al figlio contestatore; ne uscì una lettera, non limata certo, ma densa di pensiero, di umanità, di concretezza morale e politica. I giovani hanno mille e una ragione per criticare le storture, le infamie, le ipocrisie del sistema in cui viviamo ed è innegabile che vi siano serie esigenze morali e giustificazioni della loro protesta. Ma, d’altra parte, era ed è necessario, oggi come ieri, convincerli a non separare mai l’energico rifiuto di una prassi che infanga il nome stesso della democrazia della difesa appassionata del valore etico-politico della democrazia. Invece, spesso sono proprio i giovani più generosi nelle loro aspirazioni che diventano preda della mitologia rivoluzionaria, riponendo le loro ardenti speranze di rinnovamento in ideologie strutturalmente disumane, incapaci di produrre beni e libertà, orientate a costruire la più oppressiva delle società in nome di un valore altissimo come la giustizia.
«Non è vero che la giovinezza sia un’età felice – osserva acutamente Zaccagnini all’inizio della lettera – è, credo, la più tormentata e difficile, anche se la più feconda e viva proprio per la sua carica di tensioni e passioni, di ideali e di volontà… La giovinezza è l’età più onesta e sincera, perciò non può essere gaia e spensierata, ma piena di strappi, incertezze, di lotte e di contrasti, anche se affrontati sportivamente, cantando e ridendo, e caricati di tanta speranza». Zaccagnini è un papà che non cede alla tentazione, fin troppo ricorrente, di vantare dei meriti agli occhi del figlio e, anzi, giunge a scrivere: «So di non poter rispondere ai molti problemi che ti poni… Ti chiedo quindi di scusarmi per la delusione che certo proverai leggendo la mia lettera; ma puoi essere certo che ti parlerò con assoluta sincerità e onestà d’intenzioni».
Zaccagnini capisce il tormento del figlio, ma proprio per l’amore che gli porta non può limitarsi a rispettarne le scelte e a battezzarle come buone solo perché dettate da una schietta passione di giustizia. Un papà non può, infatti, far tacere ciò che la sua coscienza gli detta per essere «compiacente» nei confronti del figlio. Come ogni padre che onori veramente la dignità del figlio, anche papà Zaccagnini sa e sente che il suo primo dovere è di rendere ragione, nella maniera più semplice possibile, dei valori assunti liberamente come misura della propria vita. È questa l’offerta più alta che un papà possa fare ad un figlio: mostrargli le cose che per lui contano veramente, e le motivazioni persuasive delle proprie scelte. Poi toccherà al figlio giudicare e decidere; e non è affatto scontato – quale che sia la limpidezza dello stile di vita di un padre, o il disinteresse personale di cui egli ha dato prova nell’impegno politico e nella professione – che il figlio sia in quel momento nelle condizioni idonee a ospitare nel suo cuore le ragioni del padre.
Nella lettera di Zaccagnini al figlio si possono riconoscere tanti genitori e insegnanti; ma, a distanza di quasi un quarto di secolo, in essa possono trovare quella risposta che cercarono e che non ebbero tanti giovani, la cui vita fu rovinata dai cattivi maestri incontrati soprattutto nei Licei e all’Università. La risposta di Zaccagnini è bella e attuale perché chi l’ha scritta ha saputo andare diritto al nocciolo delle questioni. Questioni che sono essenzialmente due. La prima riguarda, per così dire, lo statuto ontologico dell’uomo e il carattere diveniente, perennemente in fieri di qualsiasi realizzazione storica e della storia stessa dell’uomo. La seconda questione è del pari inevitabile e decisiva, anche se, a veder bene, dipende logicamente dalla prima. Un uomo civile, che voglia servire la giustizia e il bene comune, può veramente credere di farlo nel modo migliore se rinuncia alla lotta democratica e alla non-violenza per affidarsi alla lotta armata e al terrorismo? La mobilitazione delle coscienze, al servizio di ideali storico-politici, perché mai dovrebbe cedere il passo all’utopia assurda della violenza redentrice e del totalitarismo generatore di una società paradisiaca?

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Sulla prima questione Zaccagnini è estremamente chiaro. «Il vero problema è l’uomo, la sua natura. Ogni problema è sempre, essenzialmente, un problema umano. Io credo fermamente che l’alienazione dell’uomo è un’alienazione metafisica. Il cuore dell’uomo è inquieto per sua natura, nessuna conquista lo soddisferà mai; nessuna struttura né alcun ordinamento sarà mai possibile che ne esaurisca la sete e il tormento di progresso, nessuna scoperta la sete di sapere, nessuna filosofia la sete di verità… Come scrisse sant’Agostino «il cuore nostro è inquieto finché non riposi in te, Signore». Questa verità toglie alcune facili illusioni, certo, ma non toglie valore all’impegno per combattere il male, cercare la verità, far progredire la storia: rende anzi, quest’impegno più consapevole, più carico di significato e di tensione perché non fa mai perdere di vista la radice di ogni male». E tra le «facili illusioni» da cui ci si deve liberare, la più pericolosa è quella che più falsifica il reale: l’illusione cioè di aver costruito una volta per sempre, in qualche parte del mondo (i più sognavano l’Urss a occhi aperti), o di poter costruire la Gerusalemme celeste in terra, una sorta di società senza scacco, senza errori, realizzazione perfetta e definitiva della storia.
Di qui la lucida determinazione di Zaccagnini di non evitare affatto il punto più controverso. «Ti dico con fermezza che, di fronte al dilemma che mi sembra tu stia vivendo, riformismo o rivoluzione, sono francamente per la prima soluzione, convinto che non vi sia altra rivoluzione vera da compiere all’infuori di quella che si attua spingendo al massimo in ogni fase storica le possibilità concrete e reali di riforma… Credo che occorra custodire in se stessi intimamente un’anima rivoluzionaria, operando però nel concreto, con metodo. Bisogna lavorare tenacemente, realisticamente, instancabilmente, senza sentirsi mai soddisfatti, guardando avanti al domani senza perdere di vista il presente».
Certamente anche chi agisce con retta coscienza può sbagliare in un campo difficile e complesso come la politica; ma è ora anche di dire apertis verbis che usa rettamente la sua coscienza nella lotta politica solo chi unisce alle intenzioni più alte il rispetto della verità e del metodo della libertà anche quando ciò non torni utile alla propria parte. Nessuno può veramente giovare ai suoi simili se è disposto a sacrificare alla Causa la verità e a sottrarre agli altri e a se stesso l’esercizio reale della libertà.
«Ciò che ha ispirato fin dal suo nascere il mio impegno politico – scrive nobilmente Zaccagnini – è stata la conquista e la difesa della libertà. È questo per me non il bene più importante, quanto la condizione necessaria e indispensabile per l’emergere e l’affermarsi di ogni valore umano. La libertà è come la salute: la si conosce e apprezza quando la si perde o non la si possiede; e come la salute non è mai definitivamente acquisita e sviluppata». Di più: «In tanti anni di esperienza politica, di fronte a ogni altro problema, che pure avvertivo nella sua importanza, ho considerato sempre preminente poter trasmettere ai miei figli (a te e a tutti i giovani di oggi) un regime libero».
È permesso ad un padre rivolgere ad un figlio una raccomandazione, affinché il risultato del suo generoso impegno possa essere positivo e coerente al fine che intende conseguire? Si sa, la raccomandazione può anche non essere accolta, al momento; ma «papà Zaccagnini» non si esime dal farla. Eccola: «Sii vigilante sempre perché la libertà cresca, sia sempre più ampia e vera, ma non accettare mai di poter pagare con una diminuzione di libertà una qualsiasi affascinante conquista».

Giornale di Brescia, 15 gennaio 1992.