Libertà della cultura e diritti dell’uomo

La cultura da una parte e i diritti dell’uomo dall’altra sono concetti apparentemente molto distanti tra di loro; in realtà essi sono strettamente legati, specialmente in situazioni come quella dell’Unione Sovietica, e non perché la cultura debba necessariamente difendere i diritti dell’uomo o parlarne. La cultura può benissimo non dilungarsi sui diritti dell’uomo, ma il diritto stesso della sua esistenza costituisce implicitamente una loro affermazione.

Mi viene in mente un episodio che ben caratterizza la vita culturale della Russia d’oggi. Il 30 maggio del 1960 morì Boris Pasternak. Morì escluso dall’Unione degli Scrittori e in grave disgrazia presso i governanti del suo paese, insultato sui giornali, e tutto perché aveva ricevuto un premio Nobel per la letteratura non gradito dalle autorità. Per questo motivo i giornali non avevano neppure comunicato dove e quando si sarebbero svolti i funerali del poeta: al contrario il governo aveva tenuto la cosa nel più rigoroso segreto, contando sul fatto che i funerali si sarebbero svolti senza alcuna partecipazione di folla. Pasternak, che viveva allora a Peredelkino, un piccolo centro vicino a Mosca, aveva lasciato disposizione che lo seppellissero nel piccolo cimitero locale, un cimitero molto pittoresco, disposto su una collina, che si vede dalle finestre della dacia di Pasternak. Però nonostante tutto la gente venne a sapere la data e il luogo delle esequie di Pasternak e lo venne a sapere principalmente dalle radio straniere. Attorno alla casa di Pasternak si raccolse una grande folla; gli scrittori noti erano pochi, perché di norma essi sono prudenti e temono sempre di dispiacere alle autorità. C’erano molti giovani, molta gente comune e anche molti agenti della polizia segreta. Le autorità avevano escogitato un espediente per rendere più sbrigativo il funerale: avevano cioè disposto che un furgone arrivasse fino alla casa, benché di norma nei funerali russi ciò non sia affatto richiesto. Infatti la gente ignorò completamente la presenza del furgone e la bara di Pasternak venne, come è normale, trasportata a braccia attraverso il bosco, fino al cimitero sulla collina. E questo assunse persino un carattere simbolico: il nostro dolore era frammisto a uno slancio interiore, a una nuova consapevolezza. E poiché il cimitero si trovava su una collina, a noi che portavamo e accompagnavamo la bara di Pasternak sembrava non di calare il poeta sotto terra, ma di innalzarlo verso il cielo. E benché gli agenti ci incalzassero dicendo “Svelti, spicciatevi, sotterratelo!” direi che quello fu un momento di vera esaltazione. Dopo la sepoltura molti dei convenuti non si decidevano ad allontanarsi dal cimitero, incominciarono anzi a leggere versi del poeta, e questo continuò fino a notte fonda.

Passarono cinque anni, a quell’epoca ero già stato arrestato, e durante uno degli interrogatori il giudice istruttore mi disse con tono irritato: “C’era anche lei ai funerali di Pasternak, vero?”. “Sì, c’ero – risposi – c’è qualcosa di strano?”. E lui di rimando, sempre più irritato, esclamò: “Fu una vera e propria manifestazione politica!”. In realtà non ci fu nessuna manifestazione politica, il popolo esercitò semplicemente un proprio diritto, quello di congedarsi da un poeta amato. E i funerali di Pasternak divennero un fatto di consapevolezza culturale, e adesso anche le autorità ammettono che la tomba di Pasternak è meta di pellegrinaggi.

Cercando di approfondire fatti del genere, ci si interroga sul significato della cultura e sul perché il potere si accanisca tanto a perseguitarla. Personalmente mi sono imbattuto in episodi di persecuzione della cultura fin da quando ero giovane, studente, a metà degli anni Quaranta, quegli anni in cui si svolgevano epurazioni particolarmente feroci nel campo della cultura, che presero persino un nome, zdnavošcina, da Zdanov.

Di queste persecuzioni furono vittime anzitutto due scrittori: la poetessa Anna Achmatova e lo scrittore Michail Zošcenko. Zošcenko e Achmatova furono letteralmente calpestati, banditi dalle autorità. Zdanov, che fu per certo un periodo il braccio destro di Stalin nel campo della cultura, definì addirittura Achmatova come una “dama oziosa che ciondola tra boudoir e chiesa”, e benché Zošcenko e Achmatova non avessero allora un ruolo particolarmente rilevante nella letteratura, né potessero averlo, dopo le risoluzioni del Comitato Centrale che li riguardavano, furono espulsi dall’Unione degli Scrittori e per loro non fu più possibile pubblicare neanche un rigo. Ricordo un altro episodio: Míchail Zošcenko incontra per strada un suo amico, fa per andargli incontro, e quello fugge precipitosamente gridando: “Miša vuoi rovinarmi?”. Zošcenko poteva, al massimo, avvicinarsi e salutarlo ma era ormai un tale reietto che, l’amico aveva l’impressione che bastasse una sua stretta di mano per essere arrestato. Proprio in questo periodo, attraverso episodi del genere, vidi personalmente e con una sensibilità particolarmente acuta, dato che studiavo alla Facoltà di Lettere, come la cultura veniva perseguitata e distrutta.

Perché si possa meglio immaginare com’era in quei tempi l’atmosfera all’Università di Mosca, voglio ricordare un altro episodio. Nel 1949, terminata l’Università, incominciai a lavorare per ottenere la libera docenza; un giorno partecipai a una riunione della Facoltà riservata normalmente ai professori. La riunione verteva sul tema dell’educazione dei giovani da parte degli insegnanti. Esordisce dunque la titolare della cattedra, un’anziana signora che si chiamava Kovalcik e dice che gli studenti si possono dividere in tre categorie. Alcuni sono molto bravi, attivi komsomoliani (cioè giovani comunisti); altri sono molto meno fidati, anzi quasi sospetti, tant’è che pongono continuamente domande che rivelano le loro divergenze rispetto all’ideologia. Ma c’è una terza categoria di studenti, cui gli insegnanti devono dedicare una particolare attenzione: sono studenti che studiano molto bene, dando i loro esami, però non pongono mai domande, semplicemente tacciono. E l’anziana insegnante, a un tratto, come colta da un raptus, sollevò le braccia ormai ossute al cielo e gridò: “Ma che cosa pensano quando tacciono?”. Vale a dire: non si può più neanche tacere, lo stesso tacere ha in sé qualcosa di criminale. A questa esclamazione un brivido mi percorse la schiena e capii di essere di fronte non a un professore, ma a un inquisitore. Naturalmente fatti e tendenze del genere, di grande rilevanza sociale, inducevano tutti a chiedersi quale fosse la vera natura del potere nel nostro paese. Cominciai allora a pensare che lo Stato in Unione Sovietica non poteva semplicemente definirsi come una dittatura, ma piuttosto come uno Stato trasformato in Chiesa. Una Chiesa particolare, naturalmente, senza Dio, ma chiaramente caratterizzata per esempio dal suo ritualismo, dalla pretesa di controllare ogni aspetto dell’uomo, i suoi pensieri, la sua anima. Un’altra circostanza secondo me di grande significato simbolico, è il fatto che il tempio di questa religione senza Dio è un mausoleo nel quale giace una salma, la salma di Lenin, dove in sostanza si svolge l’adorazione di un cadavere.

Naturalmente quando, poco dopo la morte di Stalin, incominciai a scrivere, mi resi subito conto che i miei scritti non potevano essere pubblicati in Unione Sovietica, e non perché vi esprimessi particolari idee politiche, ma per altre e numerose ragioni: ad esempio per ragioni di stile. Compresi che come scrittore potevo esistere solo al livello della clandestinità e, affinché gli scritti non scomparissero, decisi di farli pubblicare all’estero sotto lo pseudonimo di Abram Terz. Questo continuò per dieci anni, un periodo della mia vita che definirci poliziesco, da romanzo giallo, e non perché ami questo genere di letteratura; è piuttosto vero il contrario, anche per il mio carattere tutt’altro che incline all’avventura: sono un tipo piuttosto mite e tranquillo. Nonostante ciò dovetti scegliere la via dell’intrigo poliziesco. Ogni tanto venivamo a sapere che stavano cercando quegli autori pubblicati all’estero e allora dovevamo cancellare le tracce o creare delle false piste. Ad esempio la francese che si occupava di esportare e diffondere all’estero i miei manoscritti faceva circolare la voce che l’autore era di Leningrado, mentre io vivevo a Mosca, e così via. Ma c’è anche da noi un proverbio che dice: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Naturalmente capivamo che prima o poi ci avrebbero presi e, infatti, così accadde. Anche in prigione, durante gli interrogatori, ebbi modo di constatare una volta di più che la mia idea del potere sovietico come falsa chiesa era giusta. Per il giudice istruttore e poi per il giudice incaricato del processo era estremamente importante che io e Daniel’ ci pentissimo, ci dichiarassimo colpevoli. In Unione Sovietica era ed è tradizione inveterata che i delinquenti politici, anche se incriminati in base a false accuse, confessino le proprie colpe. Ma ci si chiede: perché agli assassini e ai ladri non si impone con tanta insistenza di riconoscere le proprie colpe, mentre i cosiddetti detenuti politici, anche se innocenti, devono assolutamente confessare?

Ma perché la verità è una, e anche quelli che non sono d’accordo con questa verità non possono dire di non essere d’accordo, devono riconoscere di essere nel torto e cadere in ginocchio di fronte a questa verità. Perciò ai tempi di Stalin i detenuti politici venivano torturati, picchiati, sottoposti a ogni genere di vessazioni perché si dichiarassero colpevoli. Naturalmente anche all’epoca staliniana ci sono state persone che non si sono dichiarate colpevoli, ma sono state tutte uccise e quindi non ne abbiamo nessuna testimonianza. Ai giorni nostri, specialmente nelle grandi città, nelle capitali, non torturano e non picchiano, ma ricorrono piuttosto a forti pressioni psicologiche, per esempio promettendo una diminuzione della pena se l’imputato si riconosce colpevole.

Personalmente, cercarono di impaurirmi minacciando di arresto mia moglie e dicendo che in questo modo nostro figlio, che era nato poco prima che fossi arrestato, sarebbe perito. Comunque Daniel’ e io non ci dichiarammo colpevoli. E questo semplicemente perché in situazioni del genere ogni uomo deve cercare di comportarsi in modo naturale, e noi, in quanto scrittori, naturalmente sentivamo e dovevamo difendere contro chiunque il fatto che lo scrivere non può costituire un reato.

Vorrei raccontare un episodio secondo me curioso e significativo. Dopo la conclusione del processo vengo convocato dal giudice istruttore, mi aspetta il trasferimento nel lager, e lui ritiene di dovermi dire un buon consiglio. Comincia anzitutto con lo spaventarmi: “Vede, – mi dice – anche se volessimo non potremmo lasciarla libera, perché la gente per strada riconoscendola la farebbe semplicemente a pezzi, dopo quello che hanno sentito al processo”. Poi, con un tono molto comprensivo e umano, passa ai consigli. Mi dice: “Badi che non le parlo in veste di giudice istruttore, ma da uomo a uomo: segua il mio consiglio, si tagli la barba”. Contro la mia volontà non potevano fare nulla, perché la mia barba era per così dire agli atti, in una foto del fascicolo processuale. Mi spiega poi perché devo tagliarmi la barba: “La sua barba costituirà una provocazione per i delinquenti comuni, che prima o poi gliela strapperanno o le daranno fuoco”. Anche il mio compagno di cella, un detenuto comune, continuava a ripetermi che i malavitosi non sopportavano la gente con la barba e in generale non sopportavano i detenuti politici. “Tenga presente che i vostri nomi, il suo e quello di Daniel’, sono finiti sui giornali, siete stati coperti di insulti e accuse”, continua il giudice, “e la gente semplice – i detenuti comuni sono per la maggior parte gente semplice – vorrà farvela pagare”. Io non seguii quel consiglio: mi sembrava che la barba fosse una specie di bandiera da tenere ben alta. Dopo quest’ultimo colloquio con l’istruttore iniziò il trasferimento. La mattina prestissimo mi fecero salire su un’automobile che mi portò alla stazione, dove mi fecero trasbordare su un vagone ferroviario, di quel tipo particolare usato per il trasporto dei detenuti, che da noi chiamano stolypin. È senza finestrini, e comunque gli arrestati che vi sono rinchiusi non possono guardare all’esterno. Il mio vagone è suddiviso da paratie in varie celle isolate, ognuna con tre pancacci; mi rendo conto di essere per ora il primo, mi rinchiudono nell’ultima cella. Sono solo in una di queste celle per tre persone, ma di lì a poco sento i clamori di una folla numerosa che stanno spingendo nel vagone. Ma la folla non arriva fino alla mia cella, sento dal rumore che si ferma allo scomparto precedente. Dalle grida e dalle imprecazioni capisco che si tratta di una folla di detenuti comuni. Alla fine il treno parte, io non so dove sto andando perché nessuno mi ha detto qual è la mia destinazione e dopo qualche tempo chiedo di essere portato al gabinetto; accompagnato da due guardie, una davanti e una dietro, mi muovo lungo lo stretto corridoio di fianco alla fila di celle. Poiché le celle sono separate dal corridoio solo da una rete metallica, vedo che all’interno sono stracolme di persone. Essendo scortato dalle guardie non mi è permesso guardare né a destra né a sinistra, però con la coda dell’occhio vedo tutta quella gente stipata nelle celle e sento un grido alle mie spalle: “Sinjavskij, Sinjavskij!”. A tutta prima penso che possa essere Daniel’, rinchiuso nello stesso vagone, che mi chiama. Ma la voce non è la sua, e quando al ritorno si ripete l’esclamazione seguita da una risata amichevole, mi rendo conto che si tratta di uno di quei detenuti comuni e, memore delle parole e dei consigli del giudice istruttore, comincio ad arrovellarmi sul significato di quanto accade. Concludo che devono essere stati i militari della scorta ad aver detto loro chi ero e pensando a quel che mi avevano raccontato dell’odio dei malavitosi per i detenuti politici, comincio a preoccuparmi. A un certo punto si avvicina il capo scorta e comincia a guardarmi attraverso la rete. Gli chiedo ragione di quel fatto, di come mai i detenuti sapessero chi ero. Il capo mi lancia un’occhiata di fuoco, neanche fossi un brigante e dice: “Ormai ti conoscono tutti”, una frase enigmatica che mi dà da pensare.

La sera arriviamo da qualche parte, ci fanno scendere dal vagone, è marzo, per terra c’è neve, stiamo tutti raggruppati e infreddoliti. Chiedo: “Qualcuno sa dirmi dove ci troviamo?”. E un tale replica, con aria stupita: “Dove ci troviamo? Siamo a Pot’ma, Repubblica autonoma della Mordovia, ma come? Non c’è mai stato?”. Come seppi più tardi, i miei compagni di viaggio erano tutti “recidivi”, cioè persone esperte di quei luoghi. Altri mi chiedono: “E lei da che prigione arriva?” – “Vengo da Lefortovo” (la prigione di Mosca dove vengono rinchiusi perlopiù i detenuti politici). Animazione tra gli astanti… “Lefortovo? E senta non ci ha per caso visto, come si chiama? quel Daniel’, o Sinjavskij?”. “Sono io Sinjavskij” rispondo e aspetto il primo colpo. Mi si fanno tutti attorno, si congratulano mi danno delle pacche sulle spalle. Non che fossero degli estimatori delle mie opere, che naturalmente non conoscevano, ma mi stimavano anzitutto perché dalle radio e dai giornali avevano appreso che io e Daniel’ avevamo scritto dei libri pubblicati all’estero i quali non potevano essere pubblicati in Unione Sovietica, e che quindi, secondo loro, erano senz’altro apprezzabili. Avevano anche capito che noi non ci eravamo pentiti, non avevamo chinato il capo, e perciò eravamo dei “duri” meritevoli di rispetto. Devo dire che, nonostante lì fossi l’unico detenuto politico, da quel momento fui circondato da un’atmosfera amichevole e calda. Un ragazzo poi mi disse: “Sa, ero io che la chiamavo: Sinjavskij, Sinjavskii, nel vagone”. “E come ha fatto a riconoscermi?”. “Non l’ho riconosciuta, semplicemente ho visto arrivare un tipo buffo con la barba e ho gridato: Sinjavskij!”. Come avrebbe potuto gridare Trotzij a qualcuno che ne evocava l’aspetto.

In definitiva la conseguenza di tutto questo fu che io nel lager mi trovai molto bene, anche se poi scontai la mia pena non con queste persone che avevo conosciuto all’inizio, ma in un lager per detenuti politici. Quello della prigionia fu naturalmente il periodo della mia vita più duro e pesante dal punto di vista fisico, perché, come appresi in seguito, da Mosca era arrivato l’ordine di adibirmi esclusivamente ai lavori fisici più pesanti: anche da un punto di vista psicologico fu un periodo molto duro, innanzitutto per la separazione dalla famiglia. Inoltre in cuor mio avevo ormai messo una croce sopra il mio lavoro, perché avevo potuto leggere quello che i giornali sovietici avevano detto sul mio conto e avevo capito che non sarei mai potuto tornare alla letteratura. Ma da un altro punto di vista, direi spirituale o estetico, posso dire di essere stato felice, perché mi ero venuto a trovare in un mondo straordinario, un mondo di favola, favola paurosa, certo, ma pur sempre favola. Un mondo molto grande, quello dei lager, grande almeno quanto quello in cui viviamo normalmente, ma sotto un certo aspetto ancor più grande, perché è un mondo estremamente concentrato, e anche le persone sono in certo qual modo concentrate, nel bene o nel male. Vi si trovano degli autentici criminali dell’epoca dell’occupazione nazista e al tempo stesso degli uomini giusti, persone quasi sante. Prima della prigionia avevo viaggiato parecchio per il mio paese, ma non avevo mai avuto la possibilità di incontrare tanta gente e gente così diversa come nel lager, perché un lager politico come quello in cui mi trovavo è come un’Unione Sovietica in miniatura, e quindi ti trovi fianco a fianco con baltici, caucasici, ucraini, tutta una geografia; e anche dal punto di vista della storia, vivi con gente dal passato storico estremamente variegato: partigiani anti-comunisti della Lituania o dell’Ucraina le sette più strane, di alcune delle quali non sospettavo neppure che esistessero ancora, perché sono sempre vissute nella clandestinità, sia sotto il vecchio regime che sotto i comunisti; in una parola, la maggior parte delle persone, escluse rare eccezioni, sono fuori dell’ordinario, personaggi straordinari, cioè persone fantastiche per le quali non valgono i criteri comuni.

Voglio fare qualche piccolo esempio. Ricordo un uomo relativamente giovane, soprannominato “leader”, perché era a capo di una piccola organizzazione clandestina, autenticamente politica. Era preside di una scuola e al tempo stesso capo di questa organizzazione clandestina. Un’organizzazione marxista, del tipo di quello che qui in occidente chiamano “comunismo dal volto umano”, cioè sostenitori del comunismo, che però vogliono aperto alla democrazia. Avevano in programma di diffondere una serie di volantini programmatici; di fatto erano riusciti a stampare e a diffondere in vari luoghi solo il primo volantino. A quanto raccontavano i suoi compagni, che lo prendevano un po’ in giro, mentre venivano diffusi i volantini il nostro leader si comprò un vestito e un paio di scarpe nuove e si piantò davanti al televisore, perché nella sua ingenuità era convinto che il governo, colpito dal loro gesto, si sarebbe rivolto a loro attraverso la televisione. Essi erano convinti che il volantino contenesse cose tanto importanti che il governo sarebbe subito reagito, invitando il gruppetto a uscire alla superficie e a contribuire al miglioramento della situazione. Questo spiega perché il leader si era comprato un abito e delle scarpe nuove: appunto perché aspettava di essere convocato dal governo. Infatti le autorità cominciarono subito a cercarli con molto impegno, non per chieder loro consiglio, ma per metterli in prigione. Tutta questa favola dell’uomo che si era comprato un vestito nuovo per presentarsi degnamente a raccogliere i frutti della propria azione politica mi sembrava semplicemente fantastica.

Un altro caso fantastico. Un uomo semplice, un ortodosso che ha studiato a fondo l’Apocalisse, era giunto alla conclusione che ormai i tempi erano maturi, che la fine del mondo era imminente e aveva studiato il modo per prevenirla. Aveva quindi inviato al Cremlino un suo scritto nel quale esponeva le misure da adottare per salvare l’umanità dalla catastrofe. Una delle proposte avanzate era di sciogliere il Partito Comunista dell’Unione Sovietica: non proibire, ma sciogliere semplicemente il partito, perché solo così secondo lui, i comunisti si sarebbero dispersi. Ebbi molte interessanti conversazioni con l’autore di questo progetto. Una volta il discorso cadde sui due ladroni crocifissi insieme a Cristo. Come sappiamo dal Vangelo, uno dei ladroni credette in Cristo e fu salvato, mentre l’altro continuò a irridere Cristo in croce e si può presumere che la sua anima non si sia salvata. A questo punto il mio interlocutore mi disse: “No, anche il secondo ladrone fu perdonato. Cristo lo perdonò e quindi la sua anima fu salva”. E dicendo questo le lacrime gli scorrevano dagli occhi, e v’era in lui un tale impeto, una tale immedesimazione ch’io compresi che per qualche ragione sconosciuta lui si sentiva come il secondo ladrone.

Ho portato questi esempi per illustrare quali destini singolari accompagnino talvolta le persone che si trovano nei lager e, dal punto di vista di uno scrittore, quali spunti particolari e interessanti vi si possano incontrare. Da questa creatività, da questa capacità di invenzione, vidi come il popolo, anche se non scrive libri o compone poesie, sia dotato di vero talento. Quindi, mentre non credo nella possibilità di sostanziali riforme socio-politiche in Unione Sovietica, di una vera liberalizzazione, credo molto invece nelle potenzialità del popolo. Cioè vedo come l’humus del popolo – e non esiste cultura che non affondi le proprie radici in questo humus – sia ricco, pieno di talento, capace di manifestarsi in mille forme diverse.

(Nota) Trascrizione della conferenza non rivista dall’Autore, tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 16.10.1986.