La Rosa Bianca – Per la libertà dello spirito e l’onore dell’uomo

Tematiche: Pubblicazioni

Il volumetto, edito in proprio dalla Ccdc, ha avuto 4 edizioni. L’ultima è del 2001.

 

La Rosa Bianca

Per la libertà dello spirito

e per l’onore dell’uomo

 

a cura di

Matteo Perrini

Interventi di

Paolo Corsini

Matteo Perrini

Mino Martinazzoli

Silvano Zucal

Alberto Conci

 

Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura

Comune di Brescia

 

III EDIZIONE aprile 1999

 

Stampato per conto della

Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura

via XX Settembre 72 – 25121 Brescia – fax (030) 47013

da Industrie Grafiche Bresciane,

via Triumplina 18 – 25127 Brescia

 

«Noi non taceremo,

noi siamo la voce

della vostra cattiva coscienza;

La Rosa Bianca

non vi darà pace»

(Dal quarto volantino)

PER LA LIBERTÀ DELLO SPIRITO E PER L’ONORE DELL’UOMO – Paolo Corsini

Nel mosaico, vasto e complesso, della Resistenza europea, l’esperienza limpida e tragica della Rosa Bianca emerge, anzi spicca, per la straordinaria qualità dei suoi protagonisti e del suo messaggio. Come è noto, tutto accade e si consuma a Monaco di Baviera nella città che Hitler considera la “culla del movimento”, tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, otto mesi nel corso dei quali cinque studenti universitari ed un loro professore coltivano ed attuano il passaggio dalla dissidenza interiore alla personale obiezione di coscienza sino alla Widerstand – la resistenza consapevole e attiva – e al sacrificio supremo della vita.

Una ribellione, una scelta d’azione, l’approntamento di iniziative e attività illegali tutte scaturite sul terreno di una riflessione e di una maturazione culturale da parte di giovani dallo “spirito inflessibile” e dal “cuore tenero” – secondo la massima desunta dalla lettura di Jacques Maritain – che nell’ispirazione religiosa tanto cattolica, quanto evangelica ed ortodossa, trovano il fondamento primario, costitutivo della propria libertà spirituale.

È la parola, infatti, la scaturigine e lo strumento essenziale della loro battaglia. La parola della Rivelazione anzitutto. “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori”, come ammonisce l’apostolo Giacomo.

E poi la parola che gli studenti della Rosa Bianca e il loro professore trovano nelle scritture di quegli autori della cultura umanistica, comunitaria, personalistica, scelti ad antidoto della disumanità dell’ideologia nazista in quanto testimoni, contro il riduzionismo biologico della “filosofia” ariana, del senso del mistero umano, della nostalgia di Dio, della necessità di un trascendimento metafisico.

La parola, infine, dei volantini, delle lettere, delle scritte cubitali sui muri: “Abbasso Hitler”, “Viva la libertà”. La riappropriazione della parola, dunque, come terreno di contesa con un regime che sulla falsificazione della parola ha fondato potere e dominio. “Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler – si legge in uno dei volantini della Rosa Bianca – è una menzogna. Quando parla di pace pensa alla guerra, quando egli in modo blasfemo pronuncia il nome dell’Onnipotente, si riferisce invece alla potenza del Male[…], la sua bocca è come l’ingresso fetido dell’inferno”. Questa la ragione, l’ansia di verità, e dunque di libertà, all’origine del martirio. “Noi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza”.

Non certo una sorta di velleitarismo giovanilista come qualche storico ha voluto superficialmente, e con incomprensibile attitudine sbrigativa, liquidare la vicenda; piuttosto l’espressione di un ardimento cresciuto nella coltivazione di un sorvegliato spirito critico, di quella virtù del discernimento che, mentre rifiuta il sentimentalismo della retorica e le menzogne della propaganda di Stato, si assume la responsabilità onerosa di denunciare nefandezze e crimini della dittatura.

C’è una parola in nome della quale per i giovani della Rosa Bianca ogni sacrificio è dovuto, una parola insieme laica e cristiana, che può originare una perenne mobilitazione della coscienza – individuale, di gruppo, nazionale- ed una forza non resistibile in grado di opporsi ad ogni violenza, ad ogni coercizione: la parola libertà.

È la libertà che si oppone, che resiste, cioè ispira l’azione e illumina la coscienza, che costituisce giustificazione e senso dell’agire.

Testiomoniando con la vita e con la morte il diritto alla libertà, i giovani della Rosa Bianca, come ha scritto un grande interprete della loro esperienza e, se pure indirettamente loro maestro, Romano Guardini, hanno affermato ‘il diritto a qualche cosa che costituisce il fondamento dell’intera Resistenza europea: il diritto alla libertà, ma alla libertà di tutti, così che la libertà dell’uno trova la propria misura nella libertà dell’altro”. La libertà della coscienza, dunque, e la libertà del dovere. In questo sta infatti la tentazione della dittatura, l’origine delle apocalittiche devastazioni del nazismo: “esso ha tolto al singolo il peso di dover pensare con la propria testa, di dover giudicare, decidere, rispondere del proprio destino”.

È questa la radice antropologica del totalitarismo che il ricordo della Rosa Bianca ci stimola a contrastare e combattere: una concezione della vita per cui vivere è “stare di fronte” a qualcuno e a qualcosa che, interpellandoci, esige il dovere della risposta. Non una nostalgia, ma un ammonimento della memoria del passato – di un passato che pare tornare con i lutti, le tragedie, gli orrori della guerra, delle deportazioni, delle “pulizie etniche” – per l’ispirazione del nostro impegno di oggi.

 

UN EVENTO NELL’ORDINE DELLA NOBILTÀ INTERIORE – Matteo Perrini

La lotta più difficile contro il nazismo fu quella combattuta dagli stessi tedeschi soprattutto negli anni del secondo conflitto mondiale, tra il 1939 e il ’45. La resistenza tedesca fu radicalmente diversa da quanto si indica con questo termine in Italia e negli altri Paesi europei. In questi, infatti, la resistenza aveva un carattere di liberazione nazionale; per i resistenti tedeschi si trattava, invece, di lottare contro il proprio governo impegnato in una guerra senza scampo. Per essi l’alternativa era terribilmente angosciosa. «Colui che osa fare qualcosa ora per la Germania – disse Claus von Stauffenberg pochi giorni prima dell’attentato a Hitler nel luglio ’44 – deve essere consapevole che passerà alla storia tedesca come un traditore. Ma se tralascia di fare quel che deve fare, si sentirà traditore verso la propria coscienza». Lo stesso concetto era stato espresso nella Confessione di Altona delle Chiese protestanti in aperta polemica con i filonazisti “cristiano-nazionali”: «Siamo chiamati a obbedire all’autorità statale. Ma se si verifica il caso che l’autorità stessa operi in senso contrario al miglior bene dello Stato, allora è giunto il momento in cui occorre obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».

 Un gruppo di ragazzi e un professore

Tra coloro che, in nome della dignità umana e in obbedienza a Dio, iniziarono in Germania la loro eroica battaglia e pagarono con la vita ci furono i giovani del gruppo La Rosa Bianca (Die Weisse Rose). I quattro ragazzi erano studenti in medicina: Hans Scholl, Willi Graf, Alex Schmorell e Christoph Probst. C’era pure una donna, Sophie Scholl, sorella di Hans, iscritta a biologia e filosofia. Nel tratto finale ad essi si unì un professore, Kurt Huber. È inevitabile chiedersi come a quei giovani fu possibile, vivendo in uno Stato totalitario, scoprire il gusto della libertà e dell’autentico onore nazionale, sottraendosi alla presa di una propaganda che tutto dominava e asserviva a sé. La biografia dei protagonisti è su questo punto illuminante.

Hans Scholl, nella prima adolescenza, si lascia conquistare dalla Gioventù hitleriana; ma ben presto è offeso dal divieto di leggere autori come Stefan Zweig perché ebreo, o Remarque e Thomas Mann. Il disprezzo per gli altri popoli e le teorie razziste lo spingono a ritrovarsi sulle posizioni del padre, un liberale progressista che non si faceva illusioni sulla vera natura del nazionalsocialismo. Hans aderisce a un’associazione giovanile vietata dal regime e, scoperto, viene incarcerato. Con la guerra lo studente di medicina alterna il servizio negli ospedali e la frequenza ai corsi universitari a Monaco, essendo assegnato a una compagnia militare studentesca, in cui incontrerà quelli che diverranno i suoi grandi amici.

Willi Graf proviene dalla Saar e ha frequentato la lega studentesca cattolica. La famiglia è apolitica, ma non aderisce al nazismo perché esso si caratterizza come ideologia anticristiana. «Al mio liceo – scrive Willi – su mille studenti solo una dozzina non appartenevano alla Gioventù hitleriana».

Alex Schmorell è il personaggio più affascinante. Figlio di un medico tedesco e di una russa, che muore un anno dopo averlo messo al mondo, grazie alla sua vecchia “tata” cresce bilingue. Sportivo, fine intenditore di pittura e scultura, è insieme slavo e tedesco. Gli tocca come soldato partecipare all’invasione della Cecoslovacchia e lo fa con profonda ripugnanza.

Il quarto amico del gruppo è Christoph Probst. La volgarità estetica e umana, prima ancora che politica, della messinscena nazista – ossessiva, menzognera, disumanizzante – lo avvicina sempre più al padre, orientalista e critico d’arte fieramente avverso al regime. Il giovane Probst non ha ricevuto un’educazione religiosa, ma la sua anima è colma di due certezze: la fede in un Dio trascendente e nell’immortalità personale. È sposato e ha due bambini. L’incontro con Hans, Willi, Alex e Sophie è come un riconoscersi tra fratelli, pur nella forte diversità dei caratteri.

Sophie Scholl, ventunenne, è la più giovane del gruppo. È una magnifica ballerina, vive di musica e poesia, disegna molto bene. Scopre che l’autore del primo volantino è suo fratello Hans e da quel momento si butta anch’essa nella rischiosissima impresa. È innamorata di Alex, ma tiene in serbo per il futuro il suo segreto. L’exploit delle armate naziste nella primavera del ’40 la inquieta fortemente e scrive a un amico ufficiale: «Dobbiamo per forza occuparci di politica. Finché la politica è confusa e malvagia, è da vigliacchi tirarsi indietro… Bisogna essere pronti a offrirsi totalmente per una causa giusta». Due giorni prima di essere presa confida ad un pittore qual è la missione sua e del suo gruppo: «Cadono così tanti uomini per questo regime, è ora che qualcuno cada perché è contro».

La simpatia umana vivissima tra personalità così originali, il festoso senso di accoglienza reciproca, la prorompente gioia di vivere, l’amore per la grande arte sono legami già di per sé molto forti; ma gli elementi che portano i cinque alla decisione che muta l’esistenza sono da individuare soprattutto nel progressivo approfondimento, personale e di gruppo, della visione cristiana della vita e nella dolorosa, lucidissima consapevolezza che per l’onore del cristianesimo e della Germania bisognava passare assolutamente dal rifiuto interiore del nazismo alla resistenza attiva. Quei giovani più scoprono il legame strutturale tra libertà e Vangelo, più avvertono come ineludibile il dovere di passare all’azione. Che non ci sia dignità senza libertà essi lo hanno appreso attraverso la lettura – prima individuale e poi confrontata in comune – dei libri giusti: L’Apologia di Socrate, le Confessioni di sant’Agostino, i Pensieri di Pascal e singole opere dei francesi Bernanos, Mounier, Gilson, Maritain, Claudel; ma anche dei tedeschi, da Schiller e Rilke ai contemporanei Ernst Wiechert e Romano Guardini, a Theodor Haecker, il traduttore di Kirkegaard e di Newman, il cui libro, Che cosa è l’uomo?, apparso nel ’33, era già una sorta di manifesto della resistenza. I ragazzi della Rosa Bianca conobbero di persona Haecker, conversarono con lui e dalla sua viva voce ascoltarono la lettura di alcune sue pagine. Ma Alex, il tedesco-slavo, fa sì che tra i maestri il primo posto spetti a Dostoevskij, in particolare per le pagine della Leggenda del Grande Inquisitore, la più penetrante, profetica analisi del totalitarismo e della sua logica perversa.

«Strappate il manto dell’indifferenza»

«Libertà» (Freiheit) scrivono i nostri giovani a lettere cubitali, col catrame, sui muri di Monaco dopo l’ecatombe dei soldati tedeschi a Stalingrado e quella parola fa paura al regime, che l’aveva resa estranea al popolo tedesco. Nel giugno ’42 la Rosa Bianca decide di far sentire la sua voce sia ai tedeschi che sanno, ma hanno paura, sia ai tedeschi che sostengono fanaticamente il regime, pensando che il futuro della Germania fosse legato in modo indissolubile al trionfo del nazismo. Il mezzo scelto è il volantino. Le difffcoltà per procurarsi il ciclostile e la carta sono enormi, interminabili i tempi per la stampa a mano, un foglio per volta; grandissimi poi sono i rischi per la diffusione dei volantini, ma anche per il loro trasporto da un quartiere all’altro e, in treno, da una città all’altra, falsificando documenti di viaggio e permessi militari. Di quei volantini ne uscirono sei. I giovani della Rosa Bianca, rivolgendosi ai compatrioti, avevano scritto: «Noi non taceremo. Siamo la voce della vostra cattiva coscienza». E ancora: «Strappate il manto dell’indifferenza che avete avvolto intorno al cuore. Decidetevi prima che sia troppo tardi».

I primi ad essere arrestati furono Hans e Sophie. Era il 18 febbraio ’43. Poi fu la volta di Probst. Interrogati per diciassette ore consecutive, non si lasciarono sfuggire un nome. Quando Sophie lesse il foglio dell’atto di accusa, che comportava la pena di morte, trasse un profondo sospiro e disse solo: «Dio sia lodato». Quel foglio fu trovato nella sua cella dopo l’esecuzione della condanna; sul retro c’era scritto, con tocco lieve, una parola: Freiheit! (Libertà!). Nell’ultima lettera alla madre Probst scrive: «Se guardo indietro, vedo che la mia vita è stata un’unica strada verso Dio». Hans dà una consegna alla guardia che lo aveva in custodia: «A dispetto di ogni violenza, tener duro». È un verso di Goethe. Prima di entrare nella stanza della morte, Hans lancia con forza un grido: «Es lebe die Freiheit!» (Viva la libertà!).

Alex, il professor Huber e Willi al processo che si celebrò in un secondo tempo, dichiarano che non potevano fare diversamente da quello che la coscienza loro imponeva e si trasformano da accusati in implacabili accusatori del regime. I fratelli Hans e Sophie Scholl erano evangelici, Willi Graf e il professor Kurt Huber erano cattolici, Alexander Schmorell ortodosso e Christoph Probst chiese il battesimo un’ora prima di essere consegnato nelle mani del boia. Furono tutti ghigliottinati. Affrontarono la morte affermando di aver agito per scuotere le coscienze dei giovani tedeschi e con la fede di chi è pronto a entrare in un’altra vita.

Quei nomi entrati nella storia

Al primo processo della Rosa Bianca, alla lettura della sentenza di morte per Hans e Sophie Scholl, il padre gridò: «Hitler non può cancellare quello che avete fatto. Voi siete entrati nella storia». Sono passati più di cinquant’anni da quando i cinque giovani della Rosa Bianca e un loro professore furono scoperti e ghigliottinati, e tuttavia la loro vicenda non cessa di inquietarci e di commuoverci profondamente. Me ne sono chiesto più volte il perché e mi pare di poter rispondere così: il comportamento dei giusti non lascia scampo, zittisce con l’eloquenza silenziosa dei fatti le nostre chiacchiere, dissolve gli alibi delle nostre cattive coscienze e gli uomini onesti con se stessi non possono non avvertire un’eco della loro lezione di vita. Hans e Sophie Scholl, Willi Graf, Alex Schmorell, Christoph Probst e il professor Huber sono entrati nella storia perché fratelli di Antigone, l’eterna eroina della legge naturale, che sapeva di trasgredire ingiusti divieti, inventati dagli uomini, per obbedire ad un comandamento migliore, a «quelle leggi non scritte e immutabili che non sono nate dall’arbitrio di oggi o di ieri, perché – come dice Sofocle – vivono sempre e per sempre nella coscienza umana». Quella coscienza che per l’ideologia nazifascista era una «malattia», una «depravazione giudaico-cristiana», e che un ignoto autore cristiano celebra, invece, come l’altare stesso di Dio: «Sit ara tua conscientia mea».

Per questo motivo la testimonianza della Rosa Bianca si inscrive – come ha ben detto Romano Guardini – nell’ordine della nobiltà interiore, di ciò che proviene dalle sorgenti del cuore e dalla profondità dello spirito. Essa assurge a simbolo della rivolta cristiana al neopaganesimo e della grandezza umana in quanto tale, perché ciò che quei giovani fecero lo fecero per l’onore del nome cristiano, per l’onore del popolo tedesco e dell’umanità.

Il primato del valore morale

«Uno alla fine deve pur incominciare», rispose Sophie Scholl, davanti al cosiddetto tribunale del popolo, a chi le domandava che cosa mai l’avesse spinta all’azione. Ebbene, in quelle semplici, sublimi parole sta la ragione per cui in ogni tempo, a ogni giovane che si apra alla vita dello spirito è data la possibiltà di sfuggire al pericolo mortale della viltà, del conformismo, dell’indifferenza.

La tragica purezza delle scelte operate da quei magnifici ragazzi è di un livello così alto da far quasi scomparire la loro dimensione politica. Certamente i giovani della Rosa Bianca nel quinto e nel sesto volantino indicarono con precisione le mete a cui tendere: il collegamento con gli altri gruppi della resistenza, una Germania federale, l’Europa unita, un ordinamento costituzionale idoneo a conciliare i diritti della classe lavoratrice e le conquiste proprie della cività liberal-democratica. E tuttavia il valore propriamente politico della resistenza di quegli studenti sta nell’aver compreso con straordinaria lucidità e nell’aver scritto a chiare lettere che prima di ogni discussione sull’una o l’altra forma di Stato, sull’una o l’altra legge, la cosa assolutamente necessaria è che lo Stato diventi Stato di diritto, che renda cioè praticamente riconoscibile nel suo operare il primato del valore morale a cui ogni legislazione e lo stesso potere esecutivo debbono essere incessantemente ricondotti. Noi sappiamo che non v’è questione più importante di questa anche per la politica dei nostri giorni e del nostro Paese, se non si vuol degradare la democrazia a scelta illusoria, a menzogna convenzionale.

Mi sia permesso concludere questi cenni sulla resistenza degli studenti contro Hitler, rivolgendomi particolarmente ai giovani, con i quali l’avvenire è già in mezzo a noi. I giovani della Rosa Bianca ci hanno dato una lezione indimenticabile. L’onore che tributiamo ad essi – che hanno dato la vita per la libertà e perché la croce uncinata non sostituisse la croce di Cristo – esige da parte vostra un’assunzione di responsabilità degna del loro sacrificio: anche voi non potete sottrarvi all’impegno di capire dove si gioca oggi l’istanza di un’uguale libertà e al dovere di essere interiormente pronti a portare a compimento quell’istanza con purezza di cuore.

Se vuol evitare il naufragio a cui la sospinge il consumismo e lo svuotamento spirituale che l’accompagna, la nostra civiltà ha bisogno dell’eroismo morale dei giovani di ogni generazione, e dunque anche del vostro.

 

LA FORZA DELLA PROVOCAZIONE – Mino Martinazzoli

Autorità, signore, signori e soprattutto giovani così presenti e dunque così attenti ai messaggi che contano, mi è particolarmente gradito darvi lettura del testo di un telegramma giuntomi ieri: «Partecipo con fervido pensiero alla cerimonia inaugurale della mostra sulla Rosa Bianca promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Brescia e dalla Cooperativa cattolico-democratica di cultura. L’esempio della resistenza degli studenti tedeschi contro il nazismo testimonia con grande forza come i valori ideali di democrazia e di libertà siano irrinunciabili e presenti ovunque. Insieme ai voti augurali per il miglior successo dell’iniziativa giunga a tutti i presenti il mio più cordiale saluto. Oscar Luigi Scalfaro».

Avete già ascoltato parole significative e altre importanti le ascolteremo.

Un grande drammaturgo della modernità, che ha soprattutto esplorato gli abissi dell’angoscia dei moderni, fa dire ad un suo personaggio rivolto ad un interlocutore: «Signore, se la sua sofferenza è intollerabile, si affidi alla parola».

Potrebbe essere anche questa una epigrafe del gesto di questi giovani che qui commemoriamo, nel senso che essi altro non avevano se non la loro parola, la forza della provocazione della loro parola, ma certo non per riscattare la loro angoscia, ma anzi, poiché erano giovani vivi ed intensi, lieti, carichi di speranza per il futuro, così confidenti nella vita, nella forza della vita, che accettarono di scommetterla, per le ragioni più alte, che la vita rendono nobile e degna.

Oggi noi li ricordiamo qui, con una cerimonia sobria, come deve essere, alla inaugurazione di una mostra né clamorosa né accattivante, ma volutamente vera e preziosa, nel giorno in cui in tutta l’Europa si festeggia il ricordo della fine della seconda Guerra mondiale e della liberazione degli uomini europei dal giogo nazista.

Nella lunga e controversa mappa della resistenza europea la vicenda della Rosa Bianca ha un suo spazio inconfondibile proprio per la ragione che non vi fu lì nulla di militare, nulla di resistente in termini di contrapposizione violenta, ma l’affidarsi al gesto di una ribellione prima di tutto e quasi tutta morale.

Non avevano avuto maestri di antifascismo, o di antinazismo, avevano avuto dei buoni maestri nelle loro discipline, erano ragazzi molto colti, intelligenti, avevano letto la grande cultura tedesca, l’arte, la musica tedesca e chiedevano di sollecitare l’apatia dei cittadini ormai oppressi, ma quasi consenzienti con quel regime, provocandoli così, scrivendo, in un loro volantino: «Noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza».

Avevano imparato quello che anche altri giovani della resistenza italiana avevano imparato sui grandi autori, ricordavano anch’essi il distico latino summum nefas esse, propter vitam vivendi perdere causam: essere un delitto, una diserzione l’idea che per una sopravvivenza, purché sia, si possono perdere le ragioni della verità della vita.

Attingevano insieme, pur provenendo da ambiti diversi, quel sentimento religioso e sacro della vita che si radicava appunto su una ispirazione che li aveva portati ad incontrarsi e a riconoscersi pur attraverso esperienze diverse. I più grandi avevano anche fatto parte della gioventù hitleriana; avevano conosciuto dal di dentro il nazismo e ne avevano percepito la barbarie. Così come accadde da noi, perché non dirlo orgogliosamente e rivendicarlo, qui a Brescia, con tanti uomini illustri e coraggiosi di quel tempo, quali padre Manziana, padre Bevilacqua, quando agli albori del fascismo riconoscevano nel fascismo una radice di barbarie, di paganesimo che non poteva non essere contrastata in termini radicali.

 La libertà del dovere interiore

Questi giovani andarono alla morte così, la loro esistenza si riassunse in sei volantini, l’ultimo fatto calare dal loggiato dell’Università di Monaco, sapendo bene che la Gestapo era sulle loro tracce e che quel gesto sarebbe stato l’ultimo, irrimediabile gesto della loro vita.

Li seguiva un professore, Kurt Huber, del cui figlio abbiamo recentemente, in Università Cattolica, ascoltato una emozionante testimonianza non solo di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che potrebbe ancora accadere se non fossimo attenti, se non ci fosse nella nuova gioventù, così fervida, così carica di speranze e promesse, la verità di questa scelta di valori.

Sophie Scholl scrisse sul retro del capo di imputazione che la riguardava una sola parola: Libertà! Intendendo non la libertà facile, non la libertà della pretesa, ma la libertà del dovere interiore. Sapeva quanto brucia il sale della libertà, quale assunzione di responsabilità, della propria singolare responsabilità, significhi questa parola.

Non siamo qui a ricordare solo per un rimpianto, ma anche per una sorta di ammonimento.

Dal messaggio che il cancelliere Kohl ha rivolto ai tedeschi in occasione del cinquantesimo anniversario della fine della seconda Guerra mondiale, possiamo, credo, trarre questa indicazione. Egli scrive così: «Dopo quella guerra sono nati i due terzi dei tedeschi di oggi: è assolutamente imperativo che le immagini e i film, i racconti dei testimoni dell’epoca, i diari e prima di tutto i ricordi personali di chi ha partecipato a quel tempo, in ogni famiglia, insegnino a rammentare loro le terribili e devastanti conseguenze della guerra che Hitler volle e della tirannide nazista. Quel ricordo ci ammonisce a cercare per l’Europa un ordine di pace che sia fondato sul rispetto illimitato dei diritti umani; allora, e solo allora, potremmo essere fiduciosi che gli orrori del passato non abbiano più a ripetersi».

È il senso, umile e discreto, di questa nostra iniziativa. Della memoria del passato abbiamo assoluto bisogno per rafforzare l’ispirazione del nostro impegno nel presente.

 

UNA STORIA, UN MAESTRO -Silvano Zucal

Per tutti noi oggi c’è il rischio tragico di un venir meno, di una eclissi della memoria. Proprio qualche tempo fa in Germania, un giudice con una sentenza scandalosa ha affermato che è perfettamente legittimo negare lo sterminio degli ebrei, questa terribile macchia della coscienza tedesca ed europea. Quando assistiamo a questa eclissi della memoria, quando si rimuove il ricordo che inquieta, tutto può ritornare: anche la violenza più atroce. La pulizia etnica sta del resto riemergendo non come un fantasma, ma come un dato di cronaca e non solo nel lontano Ruanda, ma nell’ex-Jugoslavia, qui alle nostre porte. Oggi ritorneremo dunque a fare memoria, ricordando i ragazzi della Rosa Bianca, e – dal momento che siamo a Brescia, la città dell’editrice Morcelliana –, ricordando anche il loro Maestro, Romano Guardini, di cui la Morcelliana sta pubblicando tutte le opere, tra cui i due bellissimi testi dedicati proprio ai ragazzi della Rosa Bianca.

Quando la ghigliottina nazista, nel 1943, spezzò le loro vite, Hans Scholl aveva 24 anni, Alexander Schmorell 25 così come Willi Graf, Christoph Probst ne aveva 23 e la ragazza del gruppo, Sophie Scholl, sorella di Hans e studentessa di filosofia e biologia, 21 appena. I ragazzi erano tutti studenti universitari di medicina, inquadrati in una compagnia militare studentesca. Davanti ai giudici del tribunale speciale nazista, si sentirono gettare addosso come massima infamia l’aver «pugnalato alle spalle» l’esercito tedesco, proprio mentre grazie alla magnanimità del Führer potevano continuare a frequentare l’Università, e per giunta con una borsa di studio statale.

Dunque fu davvero una giovane e ardente resistenza quella della Rosa Bianca. E fu anche una breve resistenza, perché nell’azione effettiva del suo nucleo originario durò nemmeno otto mesi, dal giugno 1942 al febbraio 1943. E fu una piccola resistenza, perché produsse complessivamente 6 volantini (di cui i primi quattro stampati in poche centinaia di copie e solo gli ultimi due a tiratura discretamente elevata) e qualche decina di scritte murali contro Hitler.

Quattro aggettivi per definirla: giovane, ardente, breve, piccola resistenza. Forse per questo, nei libri di storia e anche nelle opere specifiche sulla resistenza tedesca, la Rosa Bianca è spesso liquidata in poche righe, come un nobile ma un po’ patetico esperimento di ragazzi di buona famiglia. Insomma, secondo una linea interpretativa pragmatico-realistica (che troviamo esposta nel saggio di Hans Mommsen e nel libro di Christian Petry), la Rosa Bianca sarebbe stata un’avventura giovanilistica e velleitaria, certo una luce accesa nella notte, una pagina straordinariamente poetica, ma di scarso spessore storico.

Giustamente, però, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’arresto dei fratelli Scholl all’Università di Monaco, il Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Richard von Weizsäcker, ha efficacemente confutato queste tesi riduzionistiche, affermando che l’appello al ripristino dell’etica e della legalità – lanciato dai volantini della Rosa Bianca – è in realtà un atto peculiarmente politico.

Ma ci sono perlomeno altre due ragioni per cui la storia della Rosa Bianca merita di essere riletta e analizzata sempre più a fondo, anche in Italia dove è ancora per larga parte sconosciuta.

La prima è metodologica: il valore di una resistenza non si misura sull’efficienza della sua organizzazione e sull’efficacia dei suoi risultati. Se questo fosse il metro di giudizio, che cosa dovremmo dire dei cospiratori del 20 luglio 1944, la cui attività pur giganteggia nelle ricostruzioni dell’opposizione al nazismo in Germania? Non è forse fallito anche quel complotto, che pur disponeva di mezzi organizzativi e fina