L’impegno educativo nella visione cristiana dell’uomo

Il nostro tempo ha esplorato l’età evolutiva come nessun’altra epoca e ha registrato notevolissimi apporti da parte della biologia, della psicologia e della sociologia; ha dato alla elaborazione dei metodi una estensione impressionante; tende a porre al servizio della scuola tutti i mezzi di cui dispone una società tecnologicamente avanzata. E tuttavia qualcosa mina alle radici l’educazione e la rende inefficace, priva di nerbo, disorganica. Per Jacques Maritain il primo male di cui soffre l’educazione oggi consiste nel fatto che «il fine stesso dell’educazione è dimenticato o misconosciuto»; e così tutto rischia di diventare incerto, ambiguo, esposto alla contraddizione, e dunque angosciante, sia per coloro che hanno l’ufficio di servire lo sviluppo delle nuove generazioni, che per i nostri figli-scolari che debbono conquistarsi le ragioni del vivere stesso-

Gli educatori, che non superano i contraccolpi di una situazione del genere, finiscono col perdere la coscienza del loro ruolo. Dovrebbe invece essere evidente che quanto più progrediscono il perfezionamento scientifico e la diffusione dei mezzi didattici e dell’informazione psicologica, tanto più è necessario un rinforzo parallelo della meta a cui tendere, della tensione dinamica ai soli valori che meritano di contare, della saggezza morale senza di cui nulla di buono si fa in campo educativo.

Le società democratiche in particolare sono tentate di incertezza o addirittura di oblio dei fini essenziali dell’educazione, per cui i mezzi cessano assai spesso di essere mezzi e si sostituiscono ai fini; l’arte educativa perde allora la sua forza di sollecitazione, il dubbio diventa sistema e in campo morale si verifica il collasso di ogni sicuro proposito, la caduta del senso di responsabilità.

Se il primo errore da evitare in educazione è il misconoscimento dei fini primari, il secondo errore consiste evidentemente in idee false o incomplete riguardo alla natura stessa del fine. Chi educa, qualsiasi cosa insegni e quale che sia il suo ruolo nel rapporto educativo, se deve servire il cammino di colui che cresce verso il proprio compimento umano, non può fare a meno di porsi (sia pure implicitamente) la domanda: «che cosa è l’uomo?» e dunque «qual è il suo dover essere, in che cosa consiste il suo sviluppo perfettivo?». È quanto epigraficamente afferma Laberthonnière all’inizio della sua Teoria dell’educazione, lo scritto più bello dell’illustre oratoriano francese. «L’idea che ci si fa dell’educazione e del compito dell’educatore dipende evidentemente dall’dea che ci si fa dell’uomo e del suo destino. Secondo infatti che si ammette che l’uomo è questo o quello, che dev’essere questo o quest’altro, non si può agire indifferentemente in uno od altro modo, se si vuol essere coerenti con se stessi, quando si tratta di lavorare per formare degli uomini. D’altra parte gli stessi metodi che si applicano per educare i fanciulli, l’orientamento che si dà loro, i motivi ai quali ci si ispira, contengono sempre, almeno implicitamente – anche quando non se ne abbia coscienza – una concezione dell’uomo e del suo destino». La risposta che nel corso dei secoli l’umana ricerca dà a quegli interrogativi («che cos’è l’uomo? Qual è il suo dover essere?»), evidenziando ora l’uno ora l’altro aspetto dell’uomo, è continuamente, oggi come ieri, accertata e completata, assunta e trasfigurata dall’annuncio evangelico, la cui irruzione nel mondo non ha mai cessato di immettere nel cuore degli uomini una spinta innovatrice, un’esigenza dinamica, un’aspirazione incoercibile, una nuova misura.

 

L’apertura dell’uomo al mondo

La visione cristiana della vita ha sempre affermato la solidarietà tra l’uomo e il resto della creazione, ma anche la specificità dell’essere umano rispetto a tutto ciò che ne prepara la venuta ed è al suo servizio. L’antropologia contemporanea ripropone sul proprio terreno la stessa intuizione e condensa in un termine, weltoffennheit («apertura al mondo»), le caratteristiche fondamentali che fanno dell’uomo un animale sui generis.

Gli animali notano fra tutte le cose che li circondano solo quelle che assumono una rilevanza per l’istinto nell’ambito della loro specie. Essi raccolgono dall’ambiente solo ciò che in effetti conoscono in precedenza, nelle forme ereditarie della loro percezione e del loro comportamento. «È invece specificamente umano l’atteggiamento di curiosità e di meraviglia di fronte alle cose. Le cose non si trovano affatto a portata di mano dell’uomo sin dall’inizio, come ha affermato Heidegger» (W. Pannenberg, Che cosa è l’uomo, trad. ed. Morcelliana, Brescia 1974, pag. 14).

Nell’animale la direzione degli istinti è fissata a priori; l’animale presta attenzione solo ai segni che lo indirizzano verso ciò che tende a raggiungere. Nell’uomo la direzione degli impulsi non è fissata a priori e dunque il suo sguardo sulla realtà ha la peculiarità di essere aperto a tutto ciò che entra nell’ambito della sua esperienza e del suo interrogarsi, su di essa e su se stesso. L’esistenza animale è sempre nella dipendenza dal mondo delle cose; la volontà umana tende senza posa a subordinare il mondo delle cose ai suoi fini. «Nell’animale – notava acutamente Bergson, con la solita finezza – l’invenzione non è che la variazione sul tema della consuetudine. Chiuso nelle abitudini della specie, giunge senza dubbio ad allargarle per sua iniziativa individuale, ma non sfugge all’automatismo che per un istante, giusto il tempo di creare un automatismo nuovo. Le porte della sua prigione si rinchiudono appena aperte. Tirando la sua catena, non fa altro che allungarla. Con l’uomo, la coscienza spezza la catena. Nell’uomo, e nell’uomo soltanto, la coscienza si libera» (Oeuvres, Edition du centenaire, P.U.F., Parigi, pagg. 718-719).

Ed è per questo che nella storia della vita con l’uomo inizia un’era nuova. «Se, alla fine di un grande trampolino sul quale la vita avesse preso il suo slancio, tutti gli altri sono discesi, trovando la corda tesa troppo alta, l’uomo solo ha saltato l’ostacolo» (Bergson, op. cit., pag. 720). La creazione di una specie vegetale o animale è storica. Ma il susseguirsi degli individui in essa lungo i secoli non costituisce una storia. La specie umana, al contrario, ha una storia, muta con le sue opere il volto del mondo, le strutture sociali, la cultura, le forme d’arte, i modi e i tempi di produzione, perché le persone sono capaci di meraviglie e di novità, di atti di creazione, di bene e di male, scelgono attraverso il dubbio e la ricerca e non nella sicurezza cieca dell’istinto. Insomma, tra l’animalità e l’umanità non v’è solo differenza di grado, ma di natura: v’è tutta la differenza che passa «dal limitato all’illimitato, la distanza tra il chiuso e l’aperto». Perché ragionevole, l’uomo non è un animale come gli altri. L’uomo è l’unico essere che conosce e che trasforma il mondo in cui vive, è il solo essere che si conosce, ma è anche capace di amare, e ciò è ancora infinitamente di più. Il cristiano aggiunge che è reso capace di cooperare con Dio. «Tutto avviene come se l’uomo fosse la ragione di essere dell’organizzazione intera della vita sul nostro pianeta» (Bergson, op. cit., pag. 720).

«Tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e a suo vertice» (Gaudium et spes, 12 a). La creazione della specie finisce con la nostra. Ma finisce qualche cosa perché un’altra cominci. Non v’è più da inventare altra specie perché lo slancio creatore può continuare indefinitamente a manifestarsi attraverso le persone, all’interno dell’umanità.

 

Ogni uomo ha un valore inestimabile

L’altra grande connotazione della visione cristiana dell’uomo è: l’uomo, ogni singolo uomo, ha dignità di fine. Non è l’uomo fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo (Mc. 2, 27). Una persona può sacrificarsi a un ideale comune che la sua coscienza morale deve condividere con altri simili, ma non può essere in nessun caso subordinato all’egoismo altrui. L’uomo non può essere strumentalizzato. Era erede diretto e legittimo del senso cristiano della vita colui che ha formulato l’imperativo della coscienza morale con le grandi parole: «Agisci in modo da trattare l’umanità ch’è in te e negli altri sempre come fine e mai semplicemente come mezzo». È questa la premessa, il postulato d’ogni autentico umanesimo, e dunque di ogni genuina azione educativa, la quale non mira affatto a sottomettere le anime, ma a promuoverne il risveglio e la liberazione.

In questa prospettiva non c’è spazio per i superuomini e per gli individualisti perché, come bene diceva Kierkegaard, «ogni uomo ha un valore inestimabile e si deve volere che neppure uno vada sprecato» (Diario, 1848-49).

Il cristianesimo inculca all’uomo la stima della sua dignità, ma non certo per un ottimismo superficiale e ingenuo. Il dono stesso della libertà, costitutivo della sua esistenza, implica che l’uomo abbia il diritto di peccare: l’assenza di questa possibilità infatti distruggerebbe la sua natura. In realtà la miseria dell’uomo è innegabile come la sua grandezza ed è anzi correlata ad essa. È illusorio fantasticare un progresso inarrestabile, fatale, in linea retta. L’esperienza storica e psicologica stanno invece ad attestarci la duplicità della condizione umana. L’uomo come singolo e come genere umano è contemporaneamente «gloria e rifiuto del mondo», degno di amore e di disprezzo, aspira alla verità e la fugge, ascende tutte le vette e precipita per tutte le chine. «Quanto è grande per sua natura, quanto è basso per i suoi difetti» (Pascal, Pensieri, 365 Br.). È impossibile non porsi l’interrogativo di Pascal: «Che diverrà dunque l’uomo? Sarà uguale a Dio o alle bestie? Quale spaventosa distanza nell’arco delle sue possibilità!» (Pascal, op- cit., 431 Br.). E come l’uomo supererà la disperazione a cui mette capo il senso della propria miseria e l’orgoglio a cui lo sospinge la coscienza della propria grandezza?

La Weltoffenheit, l’apertura al mondo che caratterizza l’uomo; il carattere di fine che va riconosciuto ad ogni uomo perché l’educazione sia possibile e la vita diventi degna di essere vissuta; la soluzione dei problemi posti dalla duplicità costitutiva della reale condizione umana si spiegano solo con il radicarsi dell’uomo nell’Assoluto, con il suo aprirsi a Dio, con il suo porsi dinanzi a un “Tu” che è in modo eminente trascendenza creatrice e personale, presente tra noi ed in ognuno di noi. Il movimento che costituisce la persona non si conclude in essa e anzi nega l’io come mondo chiuso e autosufficiente, così come non si esaurisce nel flusso impersonale della natura e della vita sociale. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo» (Populorum progressio, pag. 42).

Risalendo alla sua Sorgente creatrice, l’uomo si apre all’Infinito e si fa suo libero coadiutore. Poiché in Cristo Dio è divenuto la misura e la meta dell’uomo, il valore dell’uomo si eleva a potenza, e ad una potenza infinita. Gesù apre così all’umanità un orizzonte che nessuno potrebbe più chiudere. Da qui quel sentimento di gioia intensa e di raggiante novità che si respira in tutti i primi scritti cristiani, in cui l’evento del messaggio evangelico apre il cuore dei credenti a una speranza inaudita.

 

Il Vangelo, la più grande rivoluzione a cui l’umanità è chiamata

Per la prima volta, con l’irruzione del Vangelo nel mondo, l’umanità è chiamata a pensare se stessa e il suo destino in un rapporto nuovo e radicale con l’Assoluto. La comprensione del modo d’essere dell’uomo nel mondo è nuova: la conoscenza che Cristo ci ha dato ha rivelato l’uomo a se stesso, in una dimensione prima insospettata. «Solo per opera di Gesù – ha scritto Harnak – è stato messo in luce il pregio di ogni singola persona e nei stessi siamo divenuti l’uno all’altro preziosi» (L’essenza del cristianesimo, trad. it., Torino, 1923, pagg. 72-73). La rivoluzione cristiana – lo ha riconosciuto esplicitamente Benedetto Croce, una delle menti più geniali della cultura contemporanea, sebbene dolorosamente chiusa alla realtà specifica della vita religiosa – «operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità. Gli uomini, i geni, gli eroi, che furono dinanzi al cristianesimo, compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze, ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accumuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato alla vita umana». Secondo Croce, il cristianesimo rappresenta «la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto» e nessun moto di civiltà potrà dispiegarsi nei secoli senza l’influenza, diretta o indiretta, del cristianesimo per sua natura mirante a rendere sempre più fattivo il riconoscimento della dignità della persona umana. «In rapporto alla rivoluzione cristiana tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, o Roma del diritto… Le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al mondo delle precedenti loro antiche, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo» (Perché non possiamo non dirci cristiani, in “La Critica”, 20 novembre 1942)Il messaggio cristiano segnò il più radicale capovolgimento di mentalità: era ed è troppo forte, troppo alto per produrre d’un tratto tutte le sue conseguenze nel campo educativo morale e sociale. Esso è il sale e il lievito del cammino umano: il sale che preserva dalla decomposizione (occorre impedire ogni processo degenerativo), il lievito che fermenta la massa (occorre garantire ogni sviluppo futuro). Della sua straordinaria freschezza e fecondità anche in campo educativo l’umanità va prendendo coscienza progressivamente, non senza resistenze, ritardi e omissioni, in rapporto ai bisogni dei tempi e nel confronto con altre concezioni dell’uomo e dell’educazione.

 Non è stato possibile rintracciare la pubblicazione e la relativa data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.