L’Italia e l’investimento europeo

Quando un libro nasce da una riflessione appassionata coniugando documentazione rigorosa e vigilanza critica, allora si deve dire che l’Autore ha reso un servizio ai lettori. Se poi l’argomento riguarda il bene comune del nostro Paese e le vie da battere in politica economica per entrare in Europa, allora si deve dire che un libro del genere dovrebbe essere letto e discusso dai cittadini che vogliono capire e orientarsi. È il caso di Noi, l’economia e l’Europa di Alberto Quadrio Curzio, studioso acuto e osservatore indipendente come pochi altri. La prima impressione che riceve il lettore, scorrendo una dopo l’altra le nitide pagine del volume (Il Mulino, Bologna. pp. 178), è che molti dati fondamentali su cui verte gran parte del dibattito in corso sono assai poco noti. Il nostro Paese, uscito distrutto dal fascismo e dalla guerra, ha senza dubbio gravi problemi strutturali da avviare finalmente a soluzione, ma non è affatto in Europa l’ultima ruota del carro: siamo pur sempre la quinta potenza economica del mondo e le economie delle nazioni europee sono assai più legate tra loro di quanto non si immagini. Così, ad esempio, si falsa ogni discorso se si dimentica che la Germania è il primo partner commerciale dell’Italia, la quale, a sua volta, è il secondo della Germania, dopo la Francia. L’Italia non è una potenza politico-militare, ma è una potenza economica da cui nessuno dei grandi Paesi europei può prescindere.
La domanda che sorge spontanea è duplice: la prima è come si è potuto raggiungere un traguardo di cosi grande rilevanza: la seconda, attraverso quali meccanismi perversi la finanza pubblica ha rischiato di inabissare il Paese. Schematicamente mi pare di poter sintetizzare l’analisi di Quadrio Curzio distinguendo nettamente tre periodi: 1946-73; 1974-91; 1992-96. Nel periodo 1946-73 l’economia viene costruita (più che ricostruita) con alti investimenti, grandi opere infrastrutturali boom dell’edilizia, dei beni di consumo di massa, esportazioni, stabilità dei prezzi. In tutto ciò hanno meriti anche i governi. Domina la grande impresa pubblica e privata, che cresce ma si ammoderna poco. Nel periodo dal 1973 al 1991, la grande impresa pubblica subisce una crescente involuzione, mentre quella privata si ammoderna e aumenta i mezzi propri verso la metà degli anni Ottanta, anche se nessuna riesce a posizionarsi in modo significativo su scala internazionale. Nel 1994 la Fiat era al quarantesimo posto tra i cinquecento maggiori gruppi industriali al mondo nei quali erano inclusi solo undici gruppi italiani. La vera novità del periodo successivo al 1978 è lo sviluppo straordinario delle piccole-medie imprese, del Made in Italy, dei distretti industriali, modello italiano ormai ammirato in tutto il mondo. Nei settori «tradizionali-innovativi» del tessile-abbigliamento, pelli-calzature, legno-mobilio, macchinari per l’industria agroalimentare e altri, queste imprese sono ora le vere depositarie della forza economica del Paese.
Purtroppo, dall’inizio degli anni Settanta, la regola implicita di finanza pubblica è diventata «consumare a debito». Così il rapporto del debito pubblico sul Pil dal 40% agli inizi degli anni Settanta, ha superato adesso il 120%. Solo tre altre volte nella nostra storia unitaria siamo arrivati a questi livelli: nel 1897 in seguito allo sforzo infrastrutturale per l’unificazione; nel 1920 e nel 1943 in relazione alle due guerre mondiali. Ma quelle circostanze erano ben diverse dalle attuali, che si caratterizzano per una spesa orientata prevalentemente ai consumi. La stessa spesa avrebbe dovuto essere pagata da entrate e, se rivolta agli investimenti, avrebbe potuto essere anche un parte finanziata con debito pubblico, in quanto gli investimenti sono generatori di reddito. La conseguenza è stata la crescita delle spese per interessi sul debito pubblico, che sono passate dall’ 1,5% del Pil negli anni Sessanta al 10,8% attuale. Ma perché è successo? La ragione vera è che all’impulso di spesa, dato dalla classe partitico-politica, impegnata a dare tutto a tutti, ha risposto con entusiasmo quasi tutto il «popolo» italiano, sì che i privilegiati erano di ogni tipo e colore: di destra, di centro e di sinistra e c’è da sorridere quando qualcuno vuole indicare solo un colore, precisa icasticamente Quadrio Curzio. Lo Stato, interpretato dai partiti, si è espanso dovunque e la burocrazia l’ha accompagnato con aumentate inefficienze. In tal modo la spesa pubblica cresceva, le entrate pure, ma più lentamente, e così cresceva il debito pubblico e i suoi interessi venivano pagati a tassi fuori mercato, ma tuttavia necessari per compensare l’inflazione e il rischio. Così da un disavanzo annuo del 3,6% del periodo 1960-69 s è passati a uno dell’11% nel periodo 1990-94, anche se le entrate totali sono passate dal 30,5% del Pil al 44,4% posizionandoci ai vertici europei per la pressione tributaria.
L’inversione di rotta, la transizione a un periodo in cui il Governo e il Parlamento dicono la verità sui conti pubblici e si incomincia finalmente il doloroso, inevitabile cammino verso il risanamento – non essendoci altra strada per entrare in Europa – ha un preciso punto di partenza: il 28 aprile 1992 Giuliano Amato diventa presidente del Consiglio e il Governo vara una Finanziaria di ben novantamila miliardi. È la grande svolta. Ed è su quella strada in cui, sia pure con andature e accentuazioni diverse, che hanno camminato i governi successivi, da Ciampi a Prodi. «Il principio – scrive Quadrio Curzio – della crescita non inflazionistica che si riassume negli altri parametri monetari e finanziari del Trattato di Maastricht e cioè livello del debito sul Pil (60%), del deficit sul Pil (3%), del contenimento del tassi di interesse a lungo termine, della stabilità dei cambi. Questi parametri che daranno luogo, per i Paesi che li rispettano, alla moneta unica del 1999, l’Euro, sono le vere e uniche condizioni per una crescita economica reale sana. Il loro rispetto è un investimento, non un sacrificio».
Noi, l’economia e l’Europa svolge considerazioni e apre prospettive insieme più ampie e dettagliate di quelle a cui ho accennato. Ma il libro reca anche una proposta molto importante, di cui occorre assolutamente tener conto. Il ragionamento di Quadrio Curzio è il seguente: «Una democrazia avanzata non si basa solo sui tre grandi tradizionali poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) espressi dal Parlamento, dal Governo e dalla Magistratura, ma anche su autorità indipendenti che svolgono funzioni pubbliche riferite a obiettivi specifici». Ebbene «le autorità indipendenti», o «le autonomie funzionali», dovrebbero esplicitamente comprendere quattro Poteri: la Banca centrale (Bankit), l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust), la Commissione nazionale per le società e la Borsa (Consob), il Garante per la radiodiffusione e la telefonia (Par condicio). Questi poteri, per vari aspetti diversi tra loro sotto il profilo istituzionale, esistono oggi in Italia, ma la loro forza e autonomia sono ancora molto limitate. La necessità di dare un rilievo costituzionale a questi quattro poteri ha anche un carattere simbolico, e non solo tecnicogiuridico, e deriva dalla «Costituzione» dell’Unione europea, in particolare per ciò che riguarda l’ Antitrust e la Banca centrale che sono essenziali per la tutela della concorrenza e del mercato e per la stabilità dei prezzi. «Siamo consapevoli – annota Quadrio Curzio – che proposte del genere oggi in Italia appaiono inconcepibili. Ciò non toglie che esse siano, a nostro avviso, valide».

Giornale di Brescia, 7.10.1996. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Alberto Quadrio Curzio su “Noi, l’economia e l’Europa”.