Lo spirito del Settecento: ossessione e scacco della felicità

Se ci fu un’epoca che ebbe ‘l’ossessione della felicità’ (Crocker) fu il XVIII secolo, ‘il secolo dei lumi’. L’illuminismo nel suo atteggiamento di fondo tende a sostituire il tema della felicità puramente terrena a quello della salvezza. Bayle esprime questo punto di vista destinato a divenire prevalente nella mentalità illuministica; ma pensatori di ben altra levatura – Leibniz, Rousseau, Kant – non ne saranno mai paghi e porranno l’immortalità personale come soluzione obbligata per realizzare l’equazione di virtù e felicità, che la ragione comanda e l’esperienza smentisce.
Nel sentire del tempo l’idea che l’uomo sia il punto più alto della creazione viene per lo più messa in dubbio o rifiutata; ci si chiede come possa essere felice l’uomo in un mondo non fatto per lui in cui si trova gettato per caso. Pascal nel secolo precedente aveva posto il problema in termini di alta drammaticità, puntando sulla ‘coscienza della miseria’ come dato rivelativo dell’originale posizione dell’uomo nel cosmo, prova della sua ‘grandezza’. La potente sintesi pascaliana, rigorosa e disincantata, frutto di un genio che è contemporaneamente scienziato e filosofo e mistico, malgrado certi suoi risvolti pessimistici, è ben presente nel Settecento, vera ‘spina nel fianco’ di Voltaire e degli altri illuministi, ispiratrice diretta o indiretta di ogni seria contestazione nei loro confronti.
Come per i pensatori di altre epoche, anche per gli illuministi occorre in primo luogo cercare le cause dell’infelicità nei modi sbagliati con i quali gli uomini giudicano e agiscono; ma questi modi sbagliati – ed è qui la novità – sono indicati veramente solo da una critica sociale che metta a nudo i ‘pregiudizi’: i ‘pregiudizi’ appunto delle convenzioni, dei privilegi, della religione. Il nuovo credo, anche quando rifiuti l’ateismo e faccia proprie le tesi del deismo (un Dio assioma eterno, gran geometra dell’universo, assente però dal mondo a cui pure ha dato la ‘spintarella’ e dalla storia degli uomini), pone tra le bonheur e la dimensione religiosa un rapporto inversamente proporzionale. Montesquieu de L’esprit des lois e, a suo modo l’anticonformista Rousseau avranno un ben diverso atteggiamento, ma il grosso dell’illuminismo combatte la religione in quanto tale e non vuol distinguere la patologia della coscienza religiosa dalla sua fisiologia, la superstizione dalla mistica e dalla santità, in ciò preludendo chiaramente alla tesi feuerbachiana e marxista della religione come alienazione e coscienza ingannevole tout court.

***

L’illuminismo è proprio così sicuro di sé come vorrebbe far credere o cerca di esorcizzare l’angoscia esistenziale? Le fratture interne ci mostrano piuttosto un’epoca assillata dal problema della felicità e prodiga nel prescriverne le ricette, ma intimamente infelice. Rousseau e Kant vollero onorare gli uomini in quanto soggetti di vita morale e disprezzarono quella specie di ‘pathos della distanza’ che caratterizzava l’atteggiamento degli intellettuali illuministi verso il popolo. Per l’uno e per l’altro la legge morale, adulterata dai sofismi dei ‘philosophes’, trova invece un’eco immediata e potente nella coscienza della povera gente.
Certamente, non si deve più prescindere quando si parla di illuminismo dalle forti pagine della Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer. A causa del suo intellettualismo astratto, l’illuminismo ha la tendenza a rovesciarsi, a produrre proprio il contrario di ciò che proclama, l’illibertà e l’infelicità. Per quanto possa risultare irritante, l’opera del marchese di Sade si colloca cronologicamente e idealmente nell’illuminismo e ne è insieme la demistificazione e la conclusione. Sade come Voltaire odia il cristianesimo, demonizza il cattolicesimo come ultima mitologia, esalta il piacere aristocratico della critica dissolutrice. Ma Sade va ben oltre Voltaire, pur camminando nella stessa direzione, e coltiva la prassi del sacrilegio, il culto di ciò che è vietato, la libertà della coscienza, la felicità nel vizio. Nelle pagine di Sade rivive un’altra contraddizione dell’illuminismo: l’individualismo più esasperato, che è già nicciano sotto tanti aspetti, si unisce al giacobino dominio dell’universale, del collettivo,della repubblica, dello stato unico padre e padrone dei nati da donna. La felicità degli uomini è stata posta proprio in buone mani!
A nostro avviso anche nell’illuminismo sono intrecciati verità ed errori, e nella sua protesta non mancavano slanci generosi e germi fecondi che un Manzoni o un Capponi seppero individuare e ricollegare alla loro fonte innegabile anche se taciuta, il Vangelo. Solo chi abbia riscoperto e valorizzato il positivo dell’apporto illuministico, può meglio cogliere di quel movimento le promesse non mantenute, gli sviluppi ripugnanti (Sade ha ‘il compito di far inorridire l’illuminismo su se stesso’) e insieme quegli svolgimenti che onorano il cammino umano. Non tutto l’illuminismo può essere però assunto a premessa di un esito unilineare e inevitabile. C’è tuttavia un punto su cui occorre insistere. La raison illuministica tende a porsi come ‘ragione strumentale’, che per meglio estendere il suo dominio su tutti i campi ed accertare il ‘come’ dei fenomeni, espunge dalle modalità della mente umana e dalla cultura la vita interiore, il pascaliano ‘esprit de finesse’, l’interrogazione sul ‘perché’, la domanda metafisica e religiosa. Una tale mentalità, rigorosamente prammatica e funzionalistica, non vede nulla oltre i compiti e i problemi della scienza e della ‘ingegneria sociale’: le sue chiusure teoretiche e pratiche sono troppo soffocanti e intolleranti. L’illuminismo nel suo insieme si configura pertanto come un’ideologia il cui prezzo è troppo alto: la caduta di senso, la perdita di significato della vita per l’uomo. In una prospettiva del genere quale reale differenza di senso e di destino si potrebbe mai stabilire tra l’uomo – un essere senza scopo a cui è nondimeno demandato il compito di elaborare una civiltà dopo l’altra – e le formiche o le termiti, incessantemente anch’esse impegnate a fare e rifare le loro magnifiche e fragili dimore? «Io non posso vivere senza sapere ciò che sono e per quale fine esista, e poiché non posso persuadermi di ciò, la vita mi è impossibile». Queste parole dette da Levine, verso la fine di Anna Karenina, hanno più verità delle orgogliose sicurezze illuministiche.

Dattiloscritto, non si conosce la data di scrittura e si ignora se edito o inedito.  Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.