Ludwig Feuerbach

«Il mistero della teologia è l’antropologia» (L. Feuerbach)

Dall’idealismo al naturalismo

Ludwig Feuerbach (1804 – 1872) dice di se stesso in Frammenti per caratterizzare il mio curriculum vitae filosofico: «Dio fu il mio primo pensiero, la ragione il secondo, l’uomo il terzo e l’ultimo».

Dal 1823 studia teologia a Heidelberg, ma non rimane soddisfatto dall’ortodossia protestante. Tutto lo attira a Berlino, dove nel 1824 approda alle lezioni di Hegel, di cui diventa un fervente seguace. «Sapevo quello che dovevo e volevo fare: non teologia, ma filosofia! Non fantasticare e spasimare, ma imparare! Non credere, ma pensare!». Nel 1828 viene promosso dottore in filosofia e comincia lentamente a distaccarsi da Hegel. L’ostilità suscitata dalle idee sulla religione espresse nel libro Pensieri sulla morte e l’immortalità (1830) gli troncò la carriera universitaria alla quale si sentiva avviato. Dopo il matrimonio con la figlia di un fabbricante di porcellane, condusse una vita ritirata, semplice e disciplinata, dedita allo studio della filosofia. Gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dalle difficoltà susseguenti al fallimento della ditta di porcellane nella quale aveva investito tutti i suoi averi. Venne sepolto a Norimberga – lui che era vissuto così solitario – accompagnato da un corteo di ventimila persone. L’opera più importante, che gli diede una vasta fama, è L’essenza del cristianesimo (1841), che – insieme ai Principi della filosofia dell’avvenire (1843) – speculativamente conclude il suo cammino, non essendo nelle opere posteriori andato oltre le posizioni lì sviluppate.

Con la Critica della filosofia hegeliana del 1839 Feurbach sottopone a un radicale rovesciamento la filosofia hegeliana.

Queste sono le obiezioni più importanti mosse a Hegel:

  1. Se la filosofia hegeliana fosse «la filosofia» definitiva, come pretendeva il suo autore, non solo la ragione dovrebbe arrestarsi, ma dovrebbe arrestarsi il tempo. Sebbene essa si distingua da tutte le precedenti per l’innegabile ricchezza di pensiero, in futuro anch’essa sarà sentita come un limite. Non è possibile che un individuo esaurisca la specie.
  2. Le recenti filosofie sono partite dalle filosofie precedenti, non dalle cose: Fichte da Kant, Schelling da Fichte, Hegel da Schelling. Hegel ha pertanto interesse per la costruzione scientifica, per il sistema (l’espressione di questa «superflua necessità» è il metodo di Hegel), non per la verità. Egli non pose in dubbio il presupposto immanentistico e l’Assoluto schellinghiano, volle solo dialettizzarlo: niente altro.
  3. Hegel lavora sui segni del pensiero e sulle loro combinazioni come se essi fossero la realtà pensata e presenta come deduzione da quei segni fatti che, invece, la sola esperienza può suggerire. L’hegelismo si configura pertanto come un miscuglio di determinazioni necessarie e – a priori – dell’Idea e di empirismo vero e proprio.
  4. Come Fichte nella Scienza nuova vuole costruire la filosofia partendo da un primo principio, così Hegel dà un incominciamento assoluto partendo, nella Logica, dall’essere assolutamente indeterminato, che identifica con il nulla solo perché non è nulla di reale, ossia non è essere. Solo l’essere determinato è essere; nel concetto di essere è implicito quello dell’assoluta determinatezza. Se tu tralasci fuori dal concetto di uomo ciò gli è essenziale, potresti dire che l’uomo si identifica con il non uomo: così fa Hegel con l’essere. L’errore di Hegel ha la sua radice teoretica nell’aver relegato nel non-vero l’intuizione sensibile, sacrificando la coscienza sensibile alla dialettica del concetto puro: di qui la svalutazione hegeliana del finito ridotto a non essere, ovvero a momento ideale dell’Infinito, perché l’essere vero è l’Idea assoluta.
  5. La filosofia hegeliana è, infine, pseudo-teologia, teologia mascherata, teologia ridotta a logica. L’essere terminale hegeliano, il concetto speculativo o universale concreto per eccellenza è l’Idea, ossia Dio stesso. Così solo alla fine si ha il vero inizio rispetto all’inizio apparente dell’essere vuoto e indeterminato. L’essere della teologia razionalizzata, qual è appunto la Logica di Hegel, nella sua essenza null’altro è che l’essere dell’uomo posto fuori dagli uomini. Lo Spirito assoluto della teologia non è altro che l’essere finito infinitizzato dalla fantasia del cosiddetto pensiero puro. La teologia è il segreto della filosofia speculativa e l’antropologia è il segreto della teologia.

L’hegelismo, dunque, si configura come una filosofia dell’astratto, anche se il suo autore lavora sulle idee e sui loro rapporti come se fossero la realtà stessa dell’esperienza.

Ma, allora, da che cosa deve iniziare la filosofia? Feuerbach risponde esattamente: dall’esperienza della realtà. Ma aggiunge: la sola realtà è la natura. «Hegel pone l’uomo sulla testa, io lo pongo sui propri piedi». Per Hegel la natura è l’alienazione dell’idea, per Feuerbach la natura è la realtà vera.

Per attingere la verità dell’essere tocca fare a ritroso il cammino di Hegel, senza lasciarsi suggestionare dall’abilità dialettica e dal rigore del sistema, «questa superflua necessità che non giova a stringere effettivamente il vero». Occorre passare dal pensiero astratto (l’idealismo si pone dal punto di vista della produzione del mondo) alla realtà sensibile, alla natura, all’intuizione immediata (il naturalismo si pone dal punto di vista che presuppone il mondo come esistente). Per natura si intende ciò da cui l’uomo dipende; la necessità e la causalità della natura non dipendono da una legislazione a priori dell’intelletto. L’uomo non è puro pensiero: è un essere che vive e si sente vivere, prova bisogni e agisce per soddisfarli, è cuore, cioè sentimento, aspirazione.

Feuerbach persegue l’intento di ritrovare la schietta immediatezza dell’essere umano nel suo originario rapporto alla natura, che è sentire immediato nella sfera gnoseologica e amore dell’uomo per l’uomo nella sfera pratica. Soltanto l’essere sensibilmente dato è un essere reale. L’oggetto dei sensi, dell’intuizione, della passione è realmente esistente: soltanto mediante i sensi ci è dato un oggetto nel vero senso. Solo la sensibilità risolve il mistero dell’azione reciproca fra l’uomo e la natura, l’io e il non-io, in quanto solo le nature sensibili agiscono le une sulle altre. La verità della sensazione ha un significato metafisico (è rivelatrice del reale).

In questo richiamo alla concretezza dell’esperienza umana Feuerbach trapassa dall’energica rivendicazione dell’esigenza realistica all’affermazione di un naturalismo materialistico, giungendo ad affermazioni estreme come quelle contenute nello scritto del 1862 Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia: «I cibi si trasformano in sangue; il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimenti e di pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliore il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia». L’affermazione paradossale è corretta in Spiritualismo e materialismo del 1866: l’uomo non è mai puro spirito, come non è mai pura materia; l’aspetto fisiologico del pensiero viene alla coscienza soltanto nei momenti patologici, quando il pensiero è ostacolato e turbato dal bisogno inappagato o dalla malattia; ma «l’anima è là dove ama, più che là dove vive».

Osservazioni critiche

a) Feurbach prima promette di spiegare l’intelligibile col sensibile e poi finisce per spiegare anch’egli il sensibile coll’intelligibile. Un esempio: il problema dell’apprensione del reale. Cos’è il reale per Feuerbach? Ciò che è vero e che sussiste per se stesso è il sensibile, soltanto la realtà sensibile. Ma Feuerbach stesso aggiunge: il sensibile non dei sensi, bensì quello dell’intuizione mediata dalle idee a cui siamo pervenuti mediante la conversazione, il dialogo io-tu: la «coscienza sensibile nelle sue determinazioni di spazio e tempo». Ebbene, che significato può avere la realtà in questo sensismo nel quale ad un certo punto si parla di idee e concetti e persino di spirito? Così nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia si legge: «nel senso io sono determinato dall’oggetto, mentre nel pensiero sono io che determino l’oggetto».

b) Scrive Feuerbach: «Per me la sensibilità altro non è che l’unità vera esistente, non pensata o prodotta, del materiale e dello spirituale» (L’essenza della religione, lez. 2). Solo che «lo spirito segue al senso, non il senso allo spirito; lo spirito è la fine, non l’inizio delle cose». Ma come può sorgere dai sensi lo spirito, se non come procedimento di formazione graduale della stessa unica realtà di coscienza? Senza dubbio i sensi possono elevarsi a funzioni e atti penetrati di spiritualità, ma questo è possibile solo in quanto lo spirito è presente fin dall’inizio coi sensi ed emerge nei sensi e può contenere, guidare, informare dall’alto le funzioni inferiori che appartengono all’uomo integrale. Ma Feuerbach non vedeva che l’alternativa fra l’empirismo sensista e l’idealismo.

L’umanesimo sociale e la teologia come antropologia

L’uomo è originario rispetto alla natura, e lo sperimenta nel bisogno, ma è altresì originario rispetto agli altri uomini. Nel «tu dato sensibilmente a me», nel rapporto sociale l’uomo acquista veramente coscienza della propria umanità. Non l’individuo isolato, non l’uomo separato dagli altri uomini può comprendere il vincolo che necessariamente lega gli uomini tra loro in una comune essenza, ma l’uomo che è in comunione solidale con gli altri uomini, l’io che si sente in rapporto essenziale con un tu. Già la generazione fisica esige la vita in due, un reciproco rapporto di un io con un tu. Ma anche per l’attività di pensiero e l’azione pratica è necessario il colloquio e la solidarietà. «La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu. È l’amore dell’altro che ti dice chi sei tu». La filosofia ha, dunque, il compito di dare all’uomo la coscienza di sé nei suoi rapporti con la natura e con gli altri uomini. Anche la religione tende allo stesso scopo, ma è autocoscienza infantile. Ha un valore positivo perché è il primo grado di consapevolezza che l’uomo ha di se stesso; ma ha anche un valore negativo perché essa è la forma più immatura di autocoscienza ed è pertanto destinata ad essere superata e soppiantata dalla filosofia. «Il mistero della teologia – afferma Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo – è l’antropologia». Non più Dio è il punto di partenza della speculazione filosofica, ma l’uomo: «il primo oggetto dell’uomo è l’uomo». La coscienza di Dio e dell’Infinito non è altro che «la coscienza dell’infinità della coscienza stessa». Come il bambino coglie l’umanità prima nell’altro uomo e poi in se stesso, così l’uomo religioso compie un’estrapolazione fantastica del suo essere e delle sue aspirazioni. Il concetto di Dio sorge in questo modo: «l’uomo sposta il proprio essere umano fuori di sé, lo considera come qualcosa di esistente fuori di sé e di separato da sé; lo proietta, per così dire, in cielo come una specie di figura autonoma, lo chiama Dio e lo adora. Insomma il concetto di Dio non è nient’altro che una proiezione dell’uomo» (Hans Küng, Dio esiste?, ed. cit., p. 228). Le proprietà di Dio sono le proprietà dell’uomo, del genere umano. Dio è ciò che l’uomo vuol essere: la qual cosa vuol dire che Dio ha il suo luogo nella miseria dell’uomo. L’uomo crea Dio a sua immagine; la verità della religione sta, dunque, nell’identificazione dei predicati divini con quelli umani; la sua falsità sta invece nel tentativo di distinguerli. In questo modo, a misura che diventa religioso, l’uomo si spoglia della sua umanità e si impoverisce. La religione appare nel pensiero di Feuerbach come alienazione, cioè quel processo per cui l’uomo scarica in Dio l’attuazione dei suoi doveri. È malefica, perché distrae l’uomo dal suo compito nel mondo per fargli sognare il cielo. Per superare questa scissione e lacerazione occorre una correzione semplice e radicale della teologia speculativa: scrivere «uomo» al posto di «Dio» e «umano» al posto di «divino». L’umanesimo ateo sarà «l’erede del cielo». «Io nego Dio – scrive Feuerbach – e questo significa per me che nego la negazione dell’uomo». La ragione deve sostituire la Bibbia, la politica la chiesa, la terra il cielo, il lavoro la preghiera. Come ha espresso Hans Küng (op.cit., p. 231) «non si può ignorare che qui si nega soltanto per affermare. Questo ateismo è tutt’altro che una mera negazione, esso è piuttosto una massima posizione. Non si tratta unicamente di negare Dio (= l’essere apparente della religione), ma piuttosto di affermare, celebrare, amare l’essere reale dell’uomo (= il vero essere della religione). Si tratta di restituire all’uomo, attraverso l’ateismo, la sua vera dignità, che gli è stata tolta dal teismo». Nelle Lezioni sull’essenza della religione Feuerbach formulerà in maniera molto chiara il proprio compito: «Lo scopo dei miei scritti, come pure delle mie lezioni, è questo: trasformare gli uomini da teologi in antropologi, da teofili in filantropi, da candidati dell’aldilà in studenti dell’aldiqua, da camerieri religiosi e politici della monarchia e dell’aristocrazia celeste e terrestre in autocoscienti cittadini della terra».

La critica di Küng all’ateismo di Feuerbach

Feurbach basa la sua critica della religione da un triplice punto di vista: fenomenologico, storico e psicologico.

– Fenomenologicamente il suo ateismo si fonda sull’infinità potenziale della coscienza: «La religione è la coscienza dell’infinito; essa dunque è, e non può essere altro, che la coscienza che l’uomo ha della propria essenza, non finita e limitata, ma illimitata» (L’essenza del cristianesimo). In realtà l’infinità intenzionale della coscienza umana non è una prova né a favore dell’esistenza di un infinito divino (come vorrebbero alcuni teologi), né contro l’esistenza di tale realtà. L’orientamento della coscienza umana verso un infinito non dice dunque nulla circa l’esistenza o meno di una realtà infinita indipendente dalla coscienza. Ma la stessa infinità reale dell’essere o del genere umano non è cosa che si possa ammettere tranquillamente, tanto più partendo dalla radicale accentuazione feuerbachiana della sensibilità e, quindi, della finitudine della realtà. Pertanto si presenta come un puro postulato da dimostrare.

– Feurbach ha giustificato il proprio ateismo dal punto di vista della filosofia della storia, annunciando il «tramonto del cristianesimo». «Al posto della fede è subentrata l’incredulità, al posto della Bibbia la ragione, al posto della religione e della chiesa la politica, al posto del cielo la terra, al posto della preghiera il lavoro, al posto dell’inferno la miseria materiale, al posto del cristiano l’uomo». Vi è molto di vero in queste affermazioni, ma non ci si può esimere da alcune contro-osservazioni. Innanzitutto occorre distinguere tra secolarizzazione e secolarismo (ideologia che congiunge la mondanità del mondo con un radicale ateismo). In secondo luogo la profezia di Feuerbach (scomparsa del cristianesimo) non solo non si è realizzata, ma non si può escludere a priori che dalla crisi del cristianesimo tradizionale possa risorgere – come già in passato – una fede purificata e rigenerata. In conclusione, la tesi feuerbachiana di filosofia della storia si rivela un’affermazione infondata: un’estrapolazione sul futuro che neppure oggi può, retrospettivamente, essere verificata.

– Feuerbach ha fondato la sua negazione di Dio soprattutto in maniera psicologica: il concetto di Dio è un prodotto psicologico dell’uomo, basato sul concetto di dipendenza: «Ciò di cui l’uomo sente la mancanza – sia che questa mancanza sia determinata, e quindi cosciente, o inconscia – è Dio». Si impone anche qui una contro-domanda: riconoscendo il fatto che determinati fattori psicologici, quali l’impulso alla felicità e all’autoconservazione, svolgano un ruolo non trascurabile nella fede in Dio, si è già escluso che questi fattori si indirizzino ad un oggetto reale? «Nulla si può concludere circa la loro esistenza o meno dal fatto che gli dei siano esseri frutto di desiderio» argomenta E. von Hartmann: «È assolutamente vero che qualcosa non esiste solo perché la si desidera; ma non è vero che qualcosa non possa esistere solo perché la si desidera. Tutta la critica della religione, svolta da Feuerbach, e l’intera dimostrazione del suo ateismo si fondano su quest’unica conclusione, e cioè su un’errata conclusione logica». Pertanto anche sotto il profilo psicologico l’ateismo di Feuerbach rimane un puro postulato.

Il significato storico di Feuerbach

– Feuerbach compie così fino in fondo la catarsi negativa dell’idealismo. Il suo naturalismo umanistico costituisce la risoluzione più coerente e vigorosa, come sviluppo interno, del panteismo hegeliano intrapresa dalla sinistra hegeliana: l’essere umano è interamente nell’orizzonte della natura e della storia, in un’immanenza pragmatica che nega la trascendenza e l’immortalità.

– L’importanza storica di Feuerbach è legata all’influsso decisivo e ampiamente riconosciuto che la sua opera ha avuto nella formazione del materialismo dialettico di Marx. Ma l’opera di Feuerbach può rivendicare una nuova attualità nel pensiero recente legato all’esistenzialismo di Sartre e Camus, in quanto egli un secolo prima aveva chiaramente delineati i principi fondamentali dell’ateismo antropologico.

– Dal punto di vista cristiano si può apprezzare in Feuerbach la vigorosa e radicale reductio ad absurdum delle religioni mitologiche e politeistiche e la denuncia della mistificazione (= interpretazione fallace e tendenziosa) teologica propria della metafisica idealistica. Si deve tuttavia denunciare l’errore metodologico fondamentale che è nella generalizzazione della sua critica quando passa dall’insostenibilità dell’antropoformismo alla critica della religione come tale e dall’insostenibilità della metafisica hegeliana all’inconsistenza di qualsiasi metafisica. Feuerbach passa da uno degli estremi (il pensiero astratto idealistico) all’altro che gli è contrapposto (l’immediatezza sensistica e il naturalismo materialistico), senza afferrare e discutere criticamente la posizione intermedia del realismo greco-cristiano della sintesi di anima e corpo, di spirito e materia, di pensiero ed esperienza. Feuerbach comincia col dire: «io non sono soltanto pensiero ma anche senso» e finisce coll’affermare: «io sono soltanto senso», «l’uomo non è che corpo cosciente».

– Al posto della dialettica astratta fra soggetto e oggetto, particolare e universale o della triade hegeliana, Feuerbach pone il rapporto diretto e personale io-tu vigorosamente ripreso dall’esistenzialismo teologico del Novecento (Marcel, Guardini). Feuerbach insiste nell’affermazione che l’essenza umana non si attua se non nella comunità degli uomini, comunità intesa a volte come «spirito oggettivo», altre volte come rapporto tra un io e un tu. Per quest’ultima posizione Feuerbach fu giudicato ancora «vecchio» (= non ancora radicale) da Max Stirner e inficiato di soggettivismo da Karl Marx.

– Il concetto di alienazione, se denuncia incrostazioni parassitarie e deformazioni della coscienza religiosa, dal punto di vista speculativo si regge su una concezione diametralmente opposta a quella del pensiero cristiano da Agostino a Tommaso e fino a Kierkegaard. Per il cristianesimo Dio non limita e non nega la creatura, ma è Colui che la fa essere: «Deus qui est institutor naturae non subtrahit rebus id quod est proprium naturis earum» precisa Tommaso.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.