L’utilitarismo come visione della vita e i suoi maestri

I
Se qualcuno mi chiedesse qual è la concezione della vita oggi dominante, non esiterei a rispondere: l’utilitarismo. Di esso si danno due versioni: una volgare, di basso profilo, su cui non spenderò neppure una parola; l’altra, invece, è una vera e propria morale, un sistema che si è andato formando nel corso di quasi un secolo di riflessioni e dibattiti. È di quest’ultima accezione del termine «utilitarismo» che bisogna occuparsi perché la sua capacità di presa nel nostro tempo, ed in particolare nella presente congiuntura storica, è divenuta addirittura pervasiva, tale cioè da costituire una sorta di credo laico, idoneo a riempire il vuoto lasciato dalle ideologie. Che cosa è, dunque, l’utilitarismo, e quali sono i suoi maestri?
L’utilitarismo è il nome che si dette quella corrente filosofica che pone il «principio di utilità» a fondamento della vita morale e sociale. I suoi massimi rappresentanti sono: il penalista Jeremiah Bentham (1748 1832), James Mill (1773 1836) e il figlio di questi, John Stuart Mill (1806 1873). Il clima in cui nasce e si sviluppa l’utilitarismo vede la confluenza del tradizionale empirismo inglese, dell’illuminismo e poi del positivismo che in Francia si affermò con Claude Henri Saint Simon (1760 1825) e Auguste Comte (1798 1857). Bentham codificò il «principio di utilità» nella “Introduzione ai principi della morale e della legislazione” e l’opera, apparsa nel 1789, ebbe immediatamente un’eco straordinaria.
Nel primo capitolo dell’Introduzione Bentham scriveva: «Per utilità si intende quella proprietà, in qualunque oggetto, che lo rende atto a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene, ovvero a prevenire che avvenga danno, pena, male o infelicità alla persona o all’ente di cui si considera l’interesse: se questo ente è la comunità in generale, si tratta della felicità della comunità; se è un particolare individuo, della felicità di questo individuo». Ottant’anni dopo Stuart Mill ribadiva lo stesso concetto: «Coloro che sanno qualcosa della questione, sanno benissimo che ogni scrittore, da Epicuro a Bentham, che abbia sostenuto la teoria dell’utilità, non intende per utilità qualche cosa che vada distinto dal piacere, ma il piacere stesso insieme alla mancanza di dolore» (“Utilitarismo”, cap. 2, 1863). È chiaro che bisogna distinguere l’utile degli economisti dalla nozione filosofica di utilità. Vilfredo Pareto coniò il termine greco «ofelimità» (“Cours d’économie politique”, Losanna 1896) per designare la qualità fondamentale degli oggetti economici, cioè il loro valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità. Ad esempio, uno stupefacente ha un valore d’uso, ma non ha utilità. Per Bentham utile è invece solo ciò che contribuisce al nostro benessere considerato oggettivamente e non ciò che produce un piacere soggettivo transitorio, anche se fornito di un forte potere di attrazione. Come si vede, la difficoltà strutturale dell’utilitarismo balza subito agli occhi nel momento in cui i suoi teorici ne formulano i principi, non essendo affatto scontato il passaggio dalla valutazione individuale di ciò che si direbbe piacevole a ciò che è utile per la comunità.
Gli antecedenti storici dell’utilitarismo sono da cercare nel mondo greco ed ellenistico: l’edonismo cirenaico, prima, e quello epicureo, poi, quali che siano le loro differenze, sono infatti veri e propri sistemi di morale utilitaria per i quali l’uomo ha interesse a scegliere il solo bene richiesto dalla sua natura, il piacere, e la virtù morale consiste nel saper calcolare le conseguenze gradevoli o dolorose delle nostre azioni. La novità di Bentham sta nell’aver posto a fondamento del suo edonismo utilitario non, come si dice a torto, l’etica di Adam Smith, ma una delle sue tesi di economia politica, un assunto a cui l’Autore della Ricchezza delle nazioni non conferiva alcun significato «morale» o «immorale»: la corrispondenza tra l’interesse degli individui e l’interesse generale, la cosiddetta «identità naturale degli interessi». Sicché, alla domanda: «Supponendo che ogni uomo sappia calcolare il suo interesse bene inteso, ne conseguirà che ognuno, cercandolo, cercherà anche l’interesse degli altri?», la prima risposta di Bentham è un sì puro e semplice. Tuttavia egli era uno studioso di diritto penale e sapeva fin troppo bene che il diritto penale non sarebbe stato né inventato né applicato se l’identità naturale degli interessi fosse universale. Di qui la necessità di adoperarsi in qualche modo a correggere il postulato di base con la costruzione, mediante le sanzioni adeguate ai diversi crimini e l’educazione, di una sorta di «identità artificiale degli interessi».
L’utilitarismo inglese, insomma, si ingegna a ridurre il più possibile e addirittura a cancellare il soggettivismo che si insinua nella valutazione dei piaceri e lo fa in due modi. In primo luogo comanda di applicare ai piaceri, che pure dovrebbero essere fatti di esperienza vissuta, sette categorie ideali o «dimensioni» necessarie a rendere i piaceri omogenei tra loro, quantificabili e, dunque, misurabili. Le «dimensioni» sono: l’intensità, la durata, la certezza, la prossimità o lontananza, il numero dei soggetti a cui può estendersi, la capacità di produrre altri piaceri, il grado di purezza o di mescolanza al dolore. Di qui l’aspetto più noto, ed anche più discusso, del programma benthamiano e le formule che lo hanno tradotto in facili slogan: trasformare la morale in una vera e propria «aritmetica morale». Solo un’aritmetica morale, infatti, consente di applicare regole scientifiche nella ricerca del piacere, mettendo in grado gli uomini di perseguire l’intenzione universale della natura: «massimizzare il piacere e minimizzare le pene». In secondo luogo, l’utilitarismo si spinge tanto innanzi nel suo oggettivismo, da esteriorizzare la stessa vita morale. Esso, infatti, considera la misura degli effetti piacevoli spiacevoli del nostro agire veramente morale solo quando questi effetti siano resi tangibili da un sistema di sanzioni, cioè di ricompense e punizioni, sancito dal codice e dal costume. La qual cosa tende inevitabilmente a confondere il punto di vista del filosofo con quello del magistrato o del poliziotto, e la morale con le disposizioni legislative, o con la mentalità prevalente in un dato momento nella società.

La differenza, a cui prima si accennava, fra la morale benthamiana dell’interesse e la morale della simpatia di Adam Smith è stata posta in forte evidenza nel volume, più volte ristampato, “La simpatia nella morale e nel diritto”, di Luigi Bagolini, autore, fra l’altro, di un articolo molto apprezzato incluso negli “Essays on Adam Smith”, pubblicato a cura dell’Università di Glasgow nel ’76.
Smith si impegnò a fondo nello studio della natura umana sia per determinarne le tendenze, sia per evidenziare tra esse quelle che contengono il germe della moralità o che le sono favorevoli, prima fra tutte la simpatia. Egli mira a fondare la morale sull’esercizio e sullo sviluppo di una simpatia disinteressata, altruistica, che diventa sentimento di umanità e di benevolenza solo se razionalizzata. Insomma, perché sia idonea a procurare la felicità degli altri e a farci gioire di essa, la simpatia non deve rimanere un impulso irriflesso e parziale, ancora troppo vicino al contagio emozionale degli animali; occorre, invece, che proceda dalla ragione, la quale eleva una tendenza favorevole alla moralità a legge di giustizia e di reciprocità, a dovere. Nella “Teoria dei sentimenti morali”, apparsa nel 1759, Smith si serve di un paragone che ci aiuta a capire il fondo del suo pensiero: «Pensiamo a noi stessi come se dovessimo agire in presenza di una persona piena di candore e di equità, che non ha alcuna relazione particolare con noi o con quelli i cui interessi dipendono dalla nostra condotta: una persona che non è né nostro padre, né nostro fratello e neppure nostro e loro amico, ma è semplicemente un uomo, uno spettatore imparziale che guarda alle nostre azioni con lo stesso distacco con cui noi guardiamo alle azioni di un’altra persona» (III, 1). Smith giunge, quindi, a formulare in questi termini la legge morale: «Agisci in modo che l’osservatore imparziale possa simpatizzare con te».
La morale della simpatia differisce profondamente dalle teorie utilitaristiche di J. Bentham. e John Stuart Mill, perché in essa non si tratta di procedere a un qualsiasi calcolo dell’interesse o del piacere, ma solamente di obbedire ai sentimenti disinteressati che portano l’uomo a sacrificarsi per un altro e a lavorare al bene comune della società e dell’umanità. Ci si deve, però, chiedere: fino a che punto la morale della simpatia può essere classificata, come pure voleva il suo teorizzatore, una morale del sentimento? E se la simpatia per costituirsi a principio morale deve far ricorso alla ragione, questo ricorso come si giustifica in un contesto in cui il sentimento conservi il primato? Né è sufficiente dire che occorre armonizzare ragione e sentimento; rimane, infatti, il problema di sapere qual è nel loro rapporto l’elemento formale, strutturante. In ciò la concezione di Smith, peraltro così fine e nobile, mostra un’ambiguità irrisolta.

II
John Mill (1806 1873), figlio del filosofo James (1773 1836), aggiunse il cognome Stuart per riconoscenza verso un omonimo benefattore. Educato rigidamente dal padre alle idee di Jeremiah Bentham (1748 1832), di cui lesse le opere quand’era quindicenne, a vent’anni ebbe una crisi spirituale che lo fece dubitare della concezione della vita in cui si era formato. Entrò giovanissimo nella Compagnia delle Indie, a Londra, e da essa si ritirò nel 1858 quando il governo assunse direttamente l’amministrazione di quel subcontinente. Nel frattempo Stuart Mill aveva svolto un’intensa attività pubblicistica e aveva scritto alcune delle sue opere più importanti. I suoi scritti che si occupano di logica induttiva, di politica e di morale sono ricchi di osservazioni di notevole finezza. I più importanti sono: “Il sistema di logica” (1843), in cui il libro VI è dedicato alle scienze morali; “Principi di economia politica” (1848); il celebre saggio Sulla libertà (1859); “Considerazioni sul governo rappresentativo” (1861); la raccolta in più volumi di “Dissertazioni e discorsi” (1859 1875). Alla questione femminile Stuart Mill dedicò un’opera anticipatrice e coraggiosa, “La soggezione della donna” (1869). Nel 1867 pubblicò l’opera sua più organica sul problema morale, “Utilitarismo”.
Aperto all’influenza di Claude Henri Saint Simon, iniziatore del positivismo in Francia, e per qualche tempo in relazione diretta con Auguste Comte, il filosofo inglese non aderì mai al socialismo dell’uno e alle teorie politiche, di ben diverso orientamento, dell’altro; cercò, invece, a più riprese, un punto d’incontro tra il liberalismo e il socialismo, affinché la soluzione del problema sociale conseguisse lo scopo di limitare il più possibile le ingiustizie, senza per questo far naufragare la libertà in un sistema politicamente oppressivo, che a sua volta genera un’economia improduttiva. Occorre tener distinti, per Stuart Mill, il processo che produce la ricchezza e quello che la ridistribuisce nel corpo sociale. Il primo non può non tener conto delle leggi economiche, che sono pressoché immodificabili; il secondo può essere modificato dalla volontà politica e morale. Stuart Mill si ripromette la soluzione della questione sociale anche da una serie di rimedi, quali l’elevazione delle classi lavoratrici mediante l’istruzione, il frazionamento della proprietà terriera, l’emigrazione e la limitazione delle nascite. Egli ha avuto il merito di aver capito che il problema di fondo della democrazia è la difficile conciliazione tra i valori di giustizia e di libertà. Rimane comunque fermo il principio che l’azione dello Stato è sempre finalizzata alla libertà dell’individuo ed è soltanto a difesa dei diritti dell’individuo che si giustifica l’intervento statale, assegnando ad esso nello stesso momento precisi limiti. Con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue, Stuart Míll non può accettare che la rivoluzione liberale sia limitata ed inficiata dal privilegio di classe.
«Si deve riconoscere scrive nel capitolo terzo delle “Considerazioni sul governo rappresentativo” che i benefici della libertà, quali li abbiamo goduti finora, vennero ottenuti estendendo i privilegi di essa a una parte soltanto della comunità; e che un governo in cui tali privilegi siano estesi imparzialmente a tutti non è stato ancora realizzato. Sebbene ogni forma di avvicinamento a tali condizioni abbia un certo valore, la partecipazione di tutti a questi benefici costituisce la concezione ideale del governo libero. Gli interessi degli esclusi sono lasciati privi della garanzia accordata agli altri ed essi hanno minor motivo e stimolo di quanto potrebbero avere ad esercitare le proprie energie per il bene proprio e della comunità. Tale è la situazione per quanto riguarda il benessere e la condotta degli affari pubblici nella presente generazione».
In realtà, la riflessione politica di Stuart Mill segna l’avviamento del liberalismo verso la democrazia; ma egli, avendo assimilato la lezione di Alexis de Tocqueville, vide con chiarezza i due pericoli a cui la democrazia è esposta. Il primo è di carattere politico e consiste nell’oppressione esercitata sul corpo sociale da una maggioranza dove predominano gli interessi esclusivi di una classe o di pochi demagoghi. La «tirannia della maggioranza» agisce oggi anche negli Stati che hanno ordinamenti liberali e lo fa attraverso quelle deliberazioni che, sebbene votate dal Parlamento, sono lesive della libertà degli individui e dei gruppi sociali; ma il suo veicolo ordinario è costituito soprattutto dall’imposizione sistematica di atti che il potere fa eseguire per mano dei funzionari pubblici. Più insidiosa è la tirannia che la società stessa esercita non tanto con le leggi quanto con la routine, le abitudini passive, il disorientamento di un’opinione pubblica plagiata da miti e pregiudizi.
Da un certo punto di vista, la «tirannia sociale» è assai più grave di altri generi di oppressione politica. «Vi deve pur essere un limite scriveva Stuart Mill nelle pagine introduttive al saggio “Sulla libertà” alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovare tale limite, mantenendolo contro ogni usurpazione, è indispensabile al buon andamento delle cose umane quanto la protezione contro il dispotismo politico. La questione pratica di come stabilire un organico accomodamento tra l’indipendenza individuale e il controllo sociale è un argomento su cui quasi tutto rimane da fare. Occorrono regole di condotta, sia attraverso leggi appropriate, sia attraverso movimenti di opinione pubblica nei molti campi che non si prestano all’azione delle leggi». Contro l’uno e l’altro pericolo occorre svolgere efficace azione di contrasto, se si vuole evitare quel livellamento verso il basso, che rende tutti gli uomini ugualmente mediocri. Alla schiavitù sociale si deve opporre la libertà morale, la riscoperta da parte del maggior numero di cittadini della sfera intangibile dell’«io».
Sul piano teoretico Stuart Mill vuol essere fedele al metodo dell’empirismo e, nello stesso tempo, lotta per sfuggire alle conclusioni scettiche che Hume ne aveva tratto. Allo stesso modo, in campo morale, egli ribadisce la sua adesione all’utilitarismo professato da Bentham e da suo padre, James Míll, e tuttavia lo rettifica di continuo e ne slarga gli orizzonti fino a includervi esigenze e valori che non sono riconducibili al «principio di utilità». René Le Senne ha detto molto bene che «con Stuart Mill l’utilitarismo assume un andamento e un tono simili al fervore religioso» (“Trattato di Morale generale”, ed. francese PUF, Parigi 1942; trad. it. di G. Morra, Fratelli Fabbri, Milano 1962, vol. II, p. 410).
Al rapporto tra Stuart Mill e Bentham sembra proprio debba applicarsi l’adagio «nec tecum, nec sine te». Lo si vede chiaramente sin dalla prima opera filosofica, “Il sistema di logica”, del 1843. Nel secondo volume Stuart Mill, delineando il carattere tendenziale delle cosiddette «leggi della società», oppone ai processi di una metodologia corretta quelli del metodo geometrico o astratto. Nella concezione geometrica della realtà sociale sembra che i fenomeni sociali derivino sempre da una forza unica, da una sola proprietà della natura umana. Ebbene, esempi tipici di questa tendenza astratta o geometrica sono per Stuart Mill la concezione hobbesiana del timore reciproco degli uomini, premessa di tutta la costruzione, e la teoria benthamiana dell’interesse individuale. Che gli uomini si lascino governare sempre e dovunque dagli interessi è una tesi così assoluta che è ben lungi dall’essere universalmente vera. Le azioni degli uomini non sono sempre governate dai loro interessi temporali. Né si può affermare che questi interessi prevalgano sicuramente nella media degli uomini e neppure tra gli uomini che esercitano il potere. Anche senza parlare del senso del dovere o dei sentimenti di umanità, che pure hanno il loro peso, si deve prendere atto che il carattere e l’azione dei governanti subiscono largamente l’influenza dei sentimenti e degli stati d’animo dei modi di pensare e di agire correnti nella società, nonché delle opinioni della classe sociale a cui appartengono, al di là di ogni calcolo di interesse privato. L’identità perfetta d’interessi è «una chimera inattuabile» (an impraticable chimera), ma si può ben realizzare in politica una linea che renda convergenti l’interesse generale e le esigenze della conservazione del potere.

III
Stuart Mill prende le distanze da Bentham, ma in realtà, sia pure praeter intentionem, egli corregge, criticandolo, l’utilitarismo in quanto tale. Vediamo in breve come procedono le sue argomentazioni.
Egli in primo luogo osserva: «Bentham non ha considerato tutti i possibili aspetti del problema morale. Esistono, infatti, anche altri moventi dell’agire umano oltre l’interesse: la bellezza, il bisogno di ordine, la pietà ecc.». Orbene, è vero che per Bentham la morale considera l’effetto, la conseguenza dell’agire, non il movente, e già questa è una limitazione inaccettabile perché l’intenzione è ciò che qualifica quello che andiamo facendo, è la forma interiore che conferisce all’agire un carattere morale. Tuttavia, anche ponendo tra parentesi un problema di così decisiva rilevanza filosofica, rimane il fatto che dall’acuto, fondatissimo rilievo di Stuart Mill l’utilitarismo tout court ne esce drasticamente ridimensionato. Da quell’obiezione quanto mai realistica noi, infatti, non possiamo non trarre una prima conclusione: se le cose stanno così, il «principio di utilità» serve tutt’al più a mettere a fuoco un aspetto, una sezione dell’agire umano, e non è affatto l’unico, il supremo criterio di giudizio, il fondamento della vita morale. Insomma, la realtà della vita morale è superiore e più ampia rispetto alla teorizzazione che di essa ha elaborato l’utilitarismo.
Bentham si era ingegnato a costruire una sorta di «aritmetica morale» che elevasse l’etica a dignità di «scienza newtoniana» e credeva di essere egli il Newton della vita morale. Di qui il suo complicato tentativo di rendere tra loro omogenei i piaceri, per misurarli secondo le «sette dimensioni», che a lui apparivano esclusivamente materiali: intensità e durata, certezza e prossimità o lontananza, capacità di estensione di uno stesso piacere ad altri soggetti purché non richieda alcun sacrificio, fecondità nel produrre altri piaceri e purezza, o mancanza di ogni dispiacere. La misura dei piaceri ha un’evidenza aritmetica, che consente di riconoscere che un certo numero è maggiore di un altro. In tal modo l’utilitarismo risolve ogni situazione in una equazione. Per Stuart Mill, invece, vi è una differenza non solo quantitativa, ma qualitativa tra i singoli piaceri e vi sono molteplici forme di piacere, sì che per agire bene è necessario stabilire una loro gerarchia, cioè una scala di valori riferibili a «una facoltà più elevata» dello spirito umano. In ultima analisi, il problema morale si identifica con quello del «come tendere ai piaceri di qualità più elevata» e la vagheggiata aritmetica morale diventa non solo ineseguibile, ma inutile. Nel saggio “Sulla libertà” Stuart Mill considera l’utilità come la «parola ultima in tutte le questioni morali», ma afferma che egli si riferisce a «un’utilità intesa nel senso più ampio, fondata su interessi permanenti dell’uomo in quanto essere progressivo». Formula questa talmente ampia da abbracciare nel cosiddetto principio di utilità l’aborrito dovere kantiano, o l’amore cristiano. Nell’”Utilitarismo” Stuart Mill ribadisce questa linea nel famoso passo: «È meglio essere un uomo insoddisfatto piuttosto che un porco soddisfatto, essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che uno scemo soddisfatto. E se lo scemo o il porco sono di diversa opinione, è perché conoscono solo un lato della questione». Ma è lecito chiedersi: si può ancora parlare di utilitarismo quando si contesta l’equivalenza tra utile e piacere, piacere e bene, gradevolezza e virtù morale?
Un punto importante dell’utilitarismo è il presupposto hobbesiano, secondo il quale la molla dell’agire umano è l’egoismo; ma alla «paura», che schiacciava l’uomo abbandonato a se stesso nello stato di natura, nella crudele situazione di una guerra di tutti contro tutti, Bentham sostituisce la tesi di Adam Smith della identità naturale degli interessi, della corrispondenza e della reciprocità tra l’interesse egoistico dell’individuo e l’interesse egoistico degli altri. In una parola, l’utilitarismo non chiede ad alcuno di rinunciare al proprio egoismo, ma solo di regolarizzarlo perché, così facendo, dall’egoismo inevitabilmente verrà fuori l’altruismo. Qualche dubbio sulla identità naturale degli interessi tra gli individui e la società deve averlo coltivato, però, anche Stuart Mill, dal momento che tiene a precisare che «l’interesse generale deve essere cercato da ciascuno prima del proprio interesse individuale», perché il primato va a quanto è comandato dal bene comune. Nella sua opera maggiore, l’“Utilitarismo”, Stuart Mill ribadisce chiaramente che quando siano in gioco il bene degli altri e il proprio, «ognuno dev’essere così rigorosamente imparziale da trasformarsi in spettatore disinteressato e benefico». Di questo passo, però, egli giunge, quasi senza accorgersene, al rovesciamento di tutte le premesse egoistico edonistiche da cui parte l’utilitarismo, da Aristippo di Cirene a Bentham, per approdare addirittura alla «regola d’oro di Gesù di Nazareth»: fare agli altri ciò che si vorrebbe che gli altri ci facessero, amare il prossimo come se stessi.
È inoltre opportuno tornare in modo più diretto su uno dei presupposti basilari della dottrina utilitaristica: quello per cui si definisce l’interesse «ogni piacere e ogni causa di piacere», il piacere ben calcolato il solo bene e ogni azione buona è detta di per sé piacevole. Stuart Mill ha messo in luce l’incomparabilità assoluta fra il Socrate insoddisfatto e lo scemo felicemente appagato; tuttavia la logica impone di approfondire la revisione critica dell’utilitarismo, da lui avviata, e di non fermarsi a metà strada, quasi che quella dottrina diventi meglio difendibile nell’atto di limitare la portata dei suoi principi. Ebbene, è proprio il «caso Socrate» che induce a rendere includibili altri interrogativi. Chi potrà mai scambiare, ad esempio, la serenità di Socrate, di fronte alle accuse infamanti che lo portano in tribunale e alla tragica fine che incombe su di lui, con la felicità? Può trarre godimento un uomo giusto dall’ingiusta sofferenza che è costretto a subire, per non aver tradito i valori che hanno reso retta e buona la sua vita? L’utilitarismo, in nome delle sue presupposte identità bene=piacere e buono=piacevole, alla luce dei suoi principi, è costretto a dichiarare, come fa Bentham, che «nessuno perde e tutti hanno sempre da guadagnare», e che «non si richiede all’uomo alcun sacrificio definitivo». Ma chi oserà veramente pensare, sol che si guardi attorno, che in questa vita vi sia perfetta adeguazione tra virtù e felicità e che la vita morale escluda sacrifici definitivi? Come al solito, Stuart Mill si dichiara d’accordo con Bentham, in linea di principio, nel rifiutare un valore intrinseco al sacrificio; tuttavia anche in questo caso fa una di quelle ammissioni che attestano la nobiltà del suo animo, assai più che la coerenza del pensatore. «La sola rinuncia ammessa scrive non senza un qualche imbarazzo è la devozione alla felicità degli altri, all’umanità o agli individui, secondo quanto è richiesto dagli interessi collettivi dell’umanità». Rimane, però, il fatto che la morale utilitaristica è particolarmente incapace di dare una ragione di quegli aspetti della vita che comportano un sacrificio e, anzi, si potrebbe dire che la sua principale intenzione sia di rendere superfluo il sacrificio.
È fin troppo facile per gli utilitaristi esorcizzare il sacrificio come un residuo della «morale ascetica», dando all’espressione un significato fortemente dispregiativo. Ma possono essi riuscire in questo loro intento? Anche l’utilitarista che voglia fare bene i suoi calcoli, ogni volta che agisce sceglie, e per ogni «sì» che pronuncia dice molti «no», sacrifica cioè altre possibilità, alcune delle quali sono talora, per il soggetto che vi rinuncia, le più agognate. In realtà la vita umana, e in particolare quell’aspetto decisivo di essa che è la vita morale, è semplicemente inconcepibile senza la lotta per il valore, e dunque senza il sacrificio che quella lotta esige. L’uomo è chiamato ad attuare il bene non in un universo di armonia prestabilita, o che comunque consegua infallibilmente il risultato dell’armonizzazione degli interessi individuali e collettivi, ma tra ostacoli e contraddizioni di ogni sorta, che sono dentro e fuori di lui, nel suo cuore come nell’ambiente in cui egli si muove. Il fine della morale non è di condurre al sacrificio, né il sacrificio può essere cercato per sé. Ma bisogna pure allenarsi al dominio di sé, al rischio e dunque al sacrificio, se si vuol diventare liberi ed essere pronti a testimoniare concretamente nella vita il valore che vivifica la coscienza. Si vorrebbe poter agire in un’atmosfera di diritto e di amore, tale che il sacrificio sia il più possibile economizzato; ma la situazione in cui siamo chiamati ad agire è data a noi e non siamo noi a sceglierla, e da noi dipende solo il tipo di risposta che ad essa siamo capaci di dare. Anche nella situazione la più lontana dal diritto, e ancor più dall’amore, noi dobbiamo volere e fare ciò che è giusto e degno, costi quello che costi; è pertanto escluso che il sacrificio possa sparire dalla nostra vita e, comunque, non sarebbe neppure auspicabile, pena la scomparsa dell’uomo come essere intelligente e libero. L’eroismo morale di cui Bergson ha esplorato genialmente le sorgenti è la testimonianza più alta che un uomo possa dare del suo disinteresse attivo e della sua dedizione agli altri fino al più completo sacrificio di sé.
In conclusione: l’utilitarismo ha un suo punto di forza, ma va incontro a insanabili difficoltà. L’anima di verità e la forza d’attrazione dell’utilitarismo stanno nell’energico richiamo a considerare le conseguenze per sé e per gli altri immanenti a un certo tipo di condotta e a giudicare un uomo dai suoi atti. Un aspetto importante della vita morale su cui richiama l’attenzione anche il Vangelo quando ci ricorda che è dai frutti che si conosce l’albero. Ma le conseguenze delle azioni di cui parla il Vangelo non sono certo riconducibili al denominatore comune della morale utilitaristica piacere dolore, gradevolezza ripugnanza. Certamente anche il «calcolo» può avere una sua funzione, ma dove si può calcolare, cioè nel limite in cui un confronto è possibile: quale preferire tra due o più lotterie, sistemi assicurativi, opportunità di lavoro? Nelle scelte di fondo della vita morale, però, non si tratta di misurare il vantaggio o la gradevolezza del vivere che derivano da una certa azione; la questione, in primo luogo, è di valutare la «dignità» e il «valore» di una forma di esistenza nel suo complesso e delle singole scelte che ne costituiscono la trama. Socrate ancora una volta attesta, con la sua vicenda, che la posta in gioco è, in ultima istanza, ciò che rende o non rende la vita degna di essere vissuta; il resto è secondario, spesso opinabile.

Studium n. 3/1995.