“Materia e memoria” di Bergson

Nel 1896 Bergson pubblica “Materia e memoria”, che reca il sottotitolo “Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito”. È un’opera ricca di contenuto e rivoluzionaria nel metodo, anche se non è divenuta mai popolare. “Questo libro – scrive Bergson nella prefazione alla settima ristampa – afferma la realtà dello spirito, la realtà della materia, e cerca di determinare il rapporto tra l’uno e l’altra su un esempio preciso, quello della memoria”. In “Materia e memoria” si parte dall’osservazione secondo cui la vita interiore non sarebbe pensabile se l’esperienza cosciente non abbracciasse nel mio presente il mio passato come ricordo e il futuro come aspettazione. Insomma, come aveva ben visto Agostino nel libro XI delle “Confessioni”, senza la simultanea compresenza di più momenti alla coscienza, il tempo non sarebbe e non vi sarebbe neppure un io: un presente come polvere di istanti si dissolverebbe nel nulla, il passato sarebbe inconcepibile e così pure il futuro. Il tempo vissuto della coscienza è, invece, ben reale, proprio perché la coscienza è memoria e la memoria, coestensiva alla coscienza, è capace di riportare il passato nel presente, pur lasciandogli la sua qualità di passato.
L’uomo, però, non è soltanto coscienza e libertà, memoria pura, spirito. Ha un corpo e la sua vita interiore si esprime necessariamente con parole, gesti e movimenti che si dispiegano nello spazio. La coscienza dell’uomo dev’essere compresa, pertanto, nella sua relazione effettiva con tutto l’uomo e dunque con il suo corpo. Per Bergson la memoria è un fenomeno in cui il fatto psicologico e quello fisiologico si incontrano e si mescolano tra loro. L’approfondimento del rapporto tra l’io e la sua base organica è, dunque, il problema chiave a cui non può sottrarsi un’indagine autenticamente metafisica.

Da almeno tre secoli, a partitre da Cartesio, scienza e filosofia sostengono che “essendo posto uno stato cerebrale, ad esso segue uno stato psicologico corrispondente”. È questa la tesi del parallelismo psicofisico, che nella seconda metà dell’Ottocento sembrò trovare un inizio di prova sperimentale nel fatto che a certe lesioni degli emisferi del cervello si accompagnano determinate turbe nelle facoltà intellettuali. Nel 1861 destò enorme impressione l’osservazione del medico francese Paul Broca che le malattie della memoria delle parole, o afasie, sono causate da una lesione della terza circonvoluzione frontale sinistra. Divenne opinione comune che la memoria fosse una semplice funzione del cervello e che i ricordi visivi, auditivi, motori delle parole fossero depositati all’interno della corteccia cerebrale come lastre fotografiche che conservano impressioni luminose, o dei dischi che registrano vibrazioni sonore. La serrata, puntuale verifica dell’attendibilità o me¬no di una tale ipotesi arbitrariamente trasformata in dogma scientifico, fu il punto di partenza della lunga, complessa ricerca esposta in “Materia e memoria”.
Su questa prima, decisiva questione quali furono i risultati a cui Bergson pervenne? Essenzialmente due: 1. una lesione cerebrale puó causare disturbi del riconoscimento uditivo o vi-sivo, ma non per questo siamo autorizzati a pensare che ci sia una scorta di ricordi accumulata nel cervello; 2. la pretesa di localizzare i ricordi nel cervello è insostenibile da ogni punto di vista, mentre tutto sta ad attestare che il cervello serve a richiamare il ricordo e non a conservarlo. I fatti, considerati senza pregiudizi, non solo non confermano, ma non suggeriscono neppure la tesi del parallelismo; in particolare, le ricerche sulle afasìe, supportate da un’incredibile quantità di osservazioni – tratte dall’anatomia, dalla fisiologia e dalla psicologia – fanno emergere sul funzio-namento del cervello ipotesi di tutt’altro tipo.

Il non senso della domanda “dove sono di casa i ricordi?” emerge nella maniera più chiara soprattutto dall’esame delle afasìe, cioè di quei fenomeni patologici che i sostenitori della localizzazione dei ricordi nel cervello adducono a prova in favore della loro tesi. In tal modo la scelta metodologica operata dall’Autore di “Materia e memoria” assume il carattere di una sfida a ciò che si dà per scontato e che, essendo stato acquisito come avente valore scientifico, è divenuto luogo comune.
In effetti tutti gli argomenti che possono essere invocati a favore dell’accumulazione di ricordi nella sostanza cerebrale fanno leva sulle malattie localizzate della memoria. “Ma se i ricordi – incalza Bergson – fossero realmente depositati nel cervello, a una dimenticanza netta corrisponderebbe sempre una ben netta lesione del cervello. Ora, nelle amnesie in cui dalla memoria viene strappato bruscamente un intero periodo della nostra vita passata, non si osservano lesioni cerebrali precise; al contrario, nei disturbi della memoria in cui la localizzazione cerebrale è netta e certa, cioè nelle afasìe e nelle malattie del riconoscimento visivo e uditivo, non sono questi o quei ricordi determinati ad essere strappati dal luogo in cui si troverebbero, ma è la facoltà del ricordo che è più o meno diminuita nella sua vitalità, come se il soggetto trovasse una maggiore o minore difficoltà nel mettere a contatto i suoi ricordi con la situazione presente. Per questo, in tutti i casi in cui una lesione colpisce una certa categoria di ricordi, i ricordi colpiti non si assomigliano per il fatto di appartenere tutti a una stessa epoca, o perché vi è tra loro una parentela logica, ma semplicemente perché sono tutti uditivi, o tutti visivi, o tutti motori”. Dunque, più che i ricordi stessi sembra che ad essere lesi siano i meccanismi che permettono alla memoria di agire; ma se le cose stanno così, la memoria è qualcosa di diverso da una funzione del cervello.
Nel gran numero di afasìe puntigliosamente studiate da Bergson, noi ne scegliamo una perché reca un particolare contributo al problema in discussione. “Nel loro scomparire le parole seguono un ordine metodico e grammaticale, lo stesso che ci viene indicato dalla legge Ribot: si eclissano prima i nomi propri, poi quelli comuni, ed infine i verbi… Come spiegare il fatto che l’amnesia segua un andamento del genere? Se le immagini verbali fossero realmente depositate nelle cellule della corteccia, sarebbe praticamente impossibile: non sarebbe strano, infatti, che la malattia intaccasse sempre queste cellule nello stesso ordine?”. Se i ricordi fossero localizzati in determinate cellule della sostanza cerebrale, la distrazione di quelle cellule comporterebbe la distruzione di quei ricordi in esse immagazzinati; ma i ricordi, come si sa, ritornano non appena si siano ricostruiti i meccanismi motori a cui la coscienza fa appello per attualizzarli; dunque l’ipotesi della localizzazione dei ricordi nel cervello è falsa. Occorre allora rappresentarci in un’altra maniera il rapporto tra cervello e coscienza.
Il problema diventa ineludibile anche per un’altra ragione: le guerre e lo spaventoso moltiplicarsi di incidenti hanno posto e pongono sotto gli occhi di tutti un fatto: ci sono persone che, pur avendo perduto della materia cerebrale, talora in quantità notevole e dopo qualche tempo riacquistano a poco a poco l’attività motoria, riprendono a parlare, a ricordare e a ragionare. Ebbene, in quei soggetti si constata che, malgrado la fuoriuscita di materia cerebrale, non sono fuoriusciti i ricordi, salvo, com’è naturale, quello dell’incidente, che non avevano avuto il tempo di organizzare. Tutto ciò porta un’evidente conferma alle vedute di Bergson.
In “Materia e memoria” Bergson afferma la realtà dello spirito e la realtà del corpo e tende a determinare il rapporto tra l’una e l’altra su un esempio preciso, quello della memoria. Quel grande libro ebbe subito il consenso dei più illustri neurofisiologi, come il Marie, il Monakow e il Morgue, ma sconcertò i cattedratici di filosofia per il suo modo di procedere così rigorosamente scientifico, “su misura dei fatti”. Orbene i fatti esaminati sembrano a Bergson suggerire una precisa, inequivocabile conclusione: il pensiero, la coscienza, lo spirito – l’anima per usare il termine della tradizione filosofica inaugurata da Socrate e della tradizione religiosa ebraico-cristiana – ha bisogno del cervello per esprimersi, non per essere. Lo spirito non ha nel cervello la sua sorgente e lo oltrepassa infinitamente. Il cervello serve a richiamare il ricordo in rapporto a un certo tipo di azione, a un interesse, a una percezione. Esso è il filo conduttore che ci inserisce, mediante i suoi meccanismi, in una realtà, in una situazione. “Il cervello è una specie di ufficio telegrafico, il cui ruolo è di passare la comunicazione, oppure di farla attendere”. Il cervello non aggiunge nulla a ciò che riceve, ma è il centro a cui si collegano tutti gli organi percettivi. Esso riceve il movimento e lo restituisce: per suo mezzo l’eccitazione periferica entra in rapporto con l’uno o l’altro meccanismo motorio. Il suo ruolo è condurre il movimento raccolto ai meccanismi motori e smistarlo tra essi, limitandosi ad abbozzare una pluralità di azioni possibili. Di qui l’altra immagine a cui ricorre Bergson: “Il cervello è simile ad un interruttore, che permette di erogare la corrente ricevuta da un punto del corpo ai dispo-sitivi motori, tra i quali a noi tocca scegliere”.
Nell’uomo la presenza del cervello sostituisce al sistema degli adattamenti infallibili, ma unilaterali e ciechi, dell’istinto un sistema che tra la sollecitazione esterna e la risposta intercala un intervallo in cui l’io si inserisce facendo valere la sua capacità di discernimento, di rinvio, di scelta. Insomma, il cervello ha una funzione “moratoria” (mora = indugio) che abbozza, in qualche modo, l’indeterminazione del nostro volere. Guadagnare tempo per la coscienza significa, infatti, sottrarsi al meccanismo eccitazione-risposta e scegliere la propria ora. Dello stato psichico il cervello disegna soltanto la parte capace di tradursi in movimento, esteriorizzando quanto lo stato di coscienza contiene di azione, quel che di esso è l’aspetto motorio, schematico, rappresentabile in rapporti spaziali. È ovvio che se il meccanismo motorio si guasta, ne subiamo gli effetti, ma questo non significa affatto che sia il cervello a generare la coscienza. Le lesioni e le malattie non aboliscono mai il ricordo in quanto tale, ma compromettono certamente questa o quella funzione necessaria al suo attualizzarsi. Il ricordo sussiste anche quando sono interrotti i meccanismi motori che ci aiutano a renderlo presente; ma, una volta che questi siano ricostituiti, esso può tornare ad essere evocato.
L’esperienza ci mostra che la vita dell’anima è legata alla vita del corpo e che tra essi vi è bene una relazione; ma chi oserà pensare che una relazione tra due termini equivalga a uno di essi? Il problema è chiarire qual è questa relazione, in che cosa consiste. “La coscienza è innegabilmente appesa ad un cervello, ma da questo non discende affatto che il cervello disegni ogni particolare della coscienza, né che la coscienza sia una funzione del cervello”. La relazione del cervello con il pensiero è complessa e sottile. “Se mi chiedete di esprimerla in una formula semplice, necessariamente approssimativa, io direi – scrive Bergson – che il cervello è un organo di pantomima. Il suo ruolo è mimare la vita dello spirito, mimare anche le situazioni esterne a cui lo spirito deve adattarsi”. Il meccanismo cerebrale sta al pensiero e alla coscienza press’a poco come il via vai degli attori sulla scena, i loro gesti, i loro atteggiamenti stanno al testo che essi interpretano. Se non conosciamo il testo, quel sus¬seguirsi di movimenti ci dirà ben poco sulla commedia che viene rappresentata e sul suo valore. In una buona commedia, infatti, vi è molto più che nei movimenti con i quali la si rappresenta. Non meno calzante è l’altra immagine a cui Bergson ricorre: “L’attività cerebrale sta all’attività mentale come i movimenti della bacchetta del direttore d’orchestra stanno alla sinfonia. La sinfonia supera da ogni lato i movimenti che la scandiscono; allo stesso modo, la vita dello spirito supera la vita cerebrale”. E ancora: “Il cervello, dunque, non è organo di pensiero, né di sentimento, né di coscienza; ma fa sì che coscienza, sentimento e pensiero restino tesi sulla vita reale e, di conseguenza, capaci di azione efficace. Diciamo, se volete, che il cervello è l’organo dell’attenzione alla vita”.
Nel linguaggio corrente con lo stesso termine di memoria noi indichiamo due modi radicalmente diversi di concepire il ricordo. “Studio una lezione e, per impararla a memoria, la leggo scandendo prima ciascun verso; la ripeto poi un certo numero di volte. Ad ogni nuova lettura si accompagna un progresso; le parole si collegano sempre meglio, finiscono per organizzarsi in un insieme. In quel preciso momento io conosco a memoria la mia lezione… Il ricordo della lezione ha così tutti i caratteri di un’abitudine. Come l’abitudine viene acquisito attraverso la ripetizione di uno stesso sforzo. Come l’abitudine, all’inizio ha richiesto la scomposizione e poi la ricomposizione dell’azione completa. Come ogni esercizio abituale del corpo, esso si è inserito in un sistema chiuso di movimenti automatici, che si succedono nel medesimo ordine e occupano il medesimo tempo. Al contrario, il ricordo di una lettura particolare di quello stesso testo non ha alcuno dei caratteri dell’abitudine. Esso è come un evento della mia vita; e in questo senso porta essenzialmente una data e, di conseguenza, non può ripetersi”.
La distinzione fra i due tipi di ricordo è così fondamentale che si deve parlare di due memorie, l’una meccanica, l’altra spirituale. L’una trova nei meccanismi motori del cervello il suo strumento, l’altra può ben dirsi memoria pura in quanto distinta dalla sensazione e dalla percezione. La memoria abitudine è del corpo, la memoria pura è lo spirito. Della prima si occupa la psicologia, ma anche la fisiologia, la medicina, la neurochirurgia; della seconda la metafisica. La memoria pura, infatti, definisce nella sua essenza e nella sua purezza la realtà spirituale e con essa si identifica. La memoria pura di ogni persona fu tutt’uno con la storia della sua vita. Dire che il ricordo non è in un luogo, ma è lo spirito significa dire che il ricordo si conserva in se stesso.

Giornale di Brescia, 7.9.1996 e 13.9.1996.