Natura e limiti del sapere scientifico

È noto a tutti come la filosofia, che per sua stessa natura si applica ad ogni espressione del pensiero umano, si sia da sempre esercitata anche sulla scienza: dalle primissime speculazioni di Platone e di Aristotele sulla natura del numero alle riflessioni del sec. XX sulla logica e la struttura del sapere scientifico, si rintraccia nel corso del tempo un’attenzione sempre rinnovata verso questo fondamentale manifestazione dell’uomo.
Vi è tuttavia una differenza sostanziale fra la filosofia della scienza del passato e quella – che oggi si preferisce designare col nome di “epistemologia” – del presente: a partire dai primi decenni del Novecento essa non si limita, come un tempo, ad una riflessione generale e forzatamente generica sulla presenza della scienza nel sapere universale e i suoi collegamenti con altre discipline, bensì, prendendone a modello alcune espressioni particolari, come la Fisica quantistica, si dedica piuttosto ad analizzarne dall’interno i meccanismi e i metodi, sforzandosi di gettare una luce sulla struttura profonda del suo procedere e, in sostanza, sullo sviluppo, colto nel suo stesso farsi, delle sue teorie.
In questo senso l’epistemologia, secondo l’impostazione ormai classica in senso neopositivista che le conferirono negli anni Venti del Novecento gli esponenti del Circolo di Vienna, si configura da una parte come analisi strutturale, diremo quasi come analisi “logica”, delle parti del discorso scientifico, dall’altra come studio concentrato sulle problematiche delle scienze fisico-sperimentali, con particolare attenzione ai problemi di ordine logico-matematico. Il nucleo fondamentale del pensiero del Circolo di Vienna riprende in senso radicale le idee del Positivismo di fine Ottocento. Programmaticamente avversi ad ogni tipo di metafisica e di teologia, considerate apodittiche e fondate su un fideismo acritico, gli epistemologi viennesi sottolineano il valore assoluto dell’osservazione sperimentale quale criterio basilare della correttezza (o, in senso stretto, della verificabilità) di ogni teoria scientifica. In sostanza essi teorizzano che ogni proposizione scientifica sarà universalmente vera solo se corroborata dal ripetersi nel senso da essa previsto delle osservazioni sperimentali compiute per dimostrarla.
Karl Popper, il notissimo epistemologo austriaco, le cui teorie acquistarono grande risalto solo dopo la seconda guerra mondiale, mutuava dai neopositivisti del Circolo di Vienna, in cui peraltro non si riconosceva, la premessa che la scienza dovesse essere analizzata come una struttura in sé. Tuttavia le conclusioni cui giunse furono assai differenti da quelle dei colleghi viennesi: Popper avvertì infatti il rischio che l’importanza attribuita da costoro al “fatto positivo” e al dato sperimentale accettato acriticamente potesse risolversi in un nuovo culto, una nuova teologia che avrebbe ripiombato la scienza nel non-senso metafisico. Ne La logica della scoperta scientifica (1934) egli reinterpreta l’osservazione sperimentale non come criterio assoluto di verificabilità, bensì di falsificabilità delle teorie scientifiche. Per dimostrare la verità di una teoria scientifica non si trattava – come volevano i neopositivisti – di effettuare lunghe serie di esperimenti particolari: Popper riteneva infatti logicamente impossibile che un qualsiasi numero finito di esempi potesse giustificare una proposizione universale, cioè valida in un numero infinito di casi; piuttosto egli, osservando acutamente che la scienza procede per tentativi ed errori, sosteneva che un solo esperimento contrario era sufficiente a dimostrare la falsità (o, in senso stretto, la falsificabilità) di una proposizione scientifica. È pertanto la possibilità di essere confutate, e rese false, il tratto distintivo delle teorie scientifiche: non la religione positivistica del fatto, ma l’uso di questo, secondo uno scientismo non apodittico, razionale e moderato, come controllo, conferma, ed eventuale rifiuto della teoria.
Grande fu nella comunità culturale la risonanza delle idee di Popper, non solo grazie al rilievo conferito all’uso non dogmatico del dato sperimentale, ma anche per l’estensione di questi concetti a campi non strettamente scientifici: valga per tutte l’applicazione del principio della falsificabilità all’ambito politico, illustrata nel testo del 1945 La società aperta e i suoi nemici. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni ’50, cominciarono a manifestarsi negli ambienti culturali segni sempre più evidenti di insoddisfazione, dovuti al fatto che le concezioni contrapposte dei neopositivisti e dei popperiani si occupavano della scienza prevalentemente come di un oggetto astratto, prestando scarsa attenzione all’agire del ricercatore, che di giorno in giorno si misura con i problemi concreti che la sua attività gli prospetta. La stessa tesi di Popper secondo la quale gli scienziati avrebbero dovuto dedicare la maggior parte dei propri sforzi nel tentativo di falsificare le teorie appena elaborate, pur accettabile sul piano oggettivo e preziosa come norma di comportamento, non appariva produttiva come condizione dello sviluppo scientifico. Per queste ragioni il dibattito epistemologico, dopo essersi esercitato lungamente su versanti logico-speculativi, spostò in questi anni la propria attenzione alla storia della scienza: si ritenne infatti che solo ritornando alla concezione della scienza come espressione di un dato ambiente storico-culturale potesse essere colta la vera sostanza dello sviluppo temporale del suo linguaggio.
Con l’uscita nel 1962 del celeberrimo saggio di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche tutte queste considerazioni trovarono per la prima volta la loro compiuta espressione: a differenza di Popper, che spiegava l’avvento di ogni nuova teoria scientifica in termini di confutazione o falsificazione della precedente, a causa dell’emergere di alcuni fatti nuovi o di incongruenze logiche inconciliabili con quanto ritenuto vero fino a quel momento, Kuhn interpretava le rivoluzioni del sapere come cambiamenti complessivi dei modelli teorici che investivano in un dato momento storico una determinata comunità scientifica. L’insieme di tali modelli teorici (quali il linguaggio, i metodi di convalida, le modalità di osservazione, ecc.) ricevette da Kuhn il nome di paradigma. Dunque, fino a quando un paradigma era accettato, le teorie che ad esso si riferivano non venivano confutate; quando si produceva una mutazione radicale del modo di pensare, di parlare e di vedere della comunità scientifica, bastava poco o nulla per abbandonare le vecchie teorie, o anche per interpretare i medesimi fatti secondo prospettive del tutto diverse.
Nelle sue applicazioni più estreme la teoria di Kuhn nega al pensiero scientifico gran parte del rigore logico di cui i neopositivisti e i razionalisti popperiani l’avevano dotato, e lo riduce a un processo meramente storico, paragonabile alle rivoluzioni politiche, e fin troppo condizionato dai mutamenti improvvisi, e talvolta irrazionali, che investivano le comunità dei sapienti. Questo approdo, strettamente legato alla storia e dimentico del valore della speculazione logico-filosofica, introdusse gravi difficoltà nel dibattito epistemologico: la stessa comunità degli scienziati prese a diffidare della teoria dei paradigmi, dal momento che essa sembrava negare ogni progresso razionale delle conoscenze, riducendolo al succedersi di rivoluzioni legate al crollo delle idee di volta in volta dominanti. Tuttavia, interpretata correttamente, l’epistemologia di Kuhn appare uno sforzo per riconoscere, dall’interno della storia, le ragioni fondanti e il filo conduttore dell’evoluzione della scienza. Essa vuole dimostrare che i risultati dell’oggi sono frutto di quelli di ieri, e preparazione del domani: in questo senso le idee di Kuhn intendono la scienza non solo come prodotto delle contingenze storiche, ma, al contrario, come attività produttrice di storia, non isolata né astratta dalle altre espressioni della civiltà, anzi ad esse strettamente connessa e capace di mutare, con i suoi risultati, il corso della vita delle generazioni.
Da queste premesse, il dibattito epistemologico si è concentrato, a partire dagli anni ’60 sul tema della presunta “neutralità” della scienza. Se, come insegnava Kuhn, la scienza è elemento storico, oltre che filosofico, ci si chiedeva se potesse concepirsi una ricerca totalmente pura, astratta, svincolata dall’esistenza e, per così dire, innamorata di sé e dell’eleganza dei suoi procedimenti. La questione viene risolta dall’epistemologia contemporanea secondo una duplice prospettiva: considerata come sistema concluso di nozioni, teorie e tecniche, la scienza ha il dovere di essere neutrale, in modo da rispondere unicamente a criteri di ordine interno che non soggiacciano a valutazioni etiche, politiche, o di opportunità; se considerata come attività e prodotto di storia, la scienza non può rinunciare alle ragioni etiche che dovrebbero sempre illuminarne il senso e le finalità.
Dopo essere stata divinizzata dal Positivismo, che, ponendola in posizione dominante, l’aveva forzatamente distaccata dalla concretezza del mondo, dopo le riflessioni di Kuhn la scienza sta recuperando il suo ruolo di elemento culturale integrato alle altre forme del pensiero umano. Tuttavia questo processo di osmosi storico-culturale non appare oggi ancora del tutto concluso, se solo pensiamo che alcune delle più recenti acquisizioni scientifiche (soprattutto nei settori della genetica e dell’ambiente) non risultano perfettamente in linea con esigenze dell’etica moderna. Proprio in questo campo si gioca una delle più appassionanti sfide della nostra civiltà: l’elaborazione di una cultura morale all’altezza delle conoscenze scientifiche, in modo che queste possano sempre più strettamente saldarsi con i valori etici e le speranze della nostra e delle future epoche storiche.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 5.3.1986.