Nuove regole per i conti pubblici: la riforma dell’art. 81 della Costituzione

Vi parlerò da economista, per come vedo il problema dell’aggiustamento dei conti pubblici. Per chiarezza vorrei richiamare alcuni punti preliminari.
Il primo riguarda proprio l’articolo 81, uno dei pochi esempi di costituzionalizzazione della materia; aggiungerci che il comma quarto, che nasceva in sede di Assemblea costituente nelle discussioni sui limiti da porre all’iniziativa parlamentare dei deputati in materia di spesa, divenne parte integrante dell’articolo stesso solo in sede di redazione finale. La riforma del quarto comma dell’art. 81 dovrebbe consistere nell’abolizione o, almeno, nell’ulteriore limitazione dell’iniziativa parlamentare in materia di spesa. Solo una riforma in tale direzione permetterebbe di riportare il dettato costituzionale alla sua coerenza originaria. Si deve perciò fare riferimento all’esempio di persone come Moratti, Einaudi, Nitti, Vanoni, le quali non potevano nemmeno pensare all’evenienza che le leggi di spesa non fossero coperte. Per questo vedere il quarto comma dell’art. 81 esclusivamente come un presidio per l’equilibrio dei conti pubblici potrebbe essere fuorviante, secondo la mia opinione; la condizione di equilibrio, infatti, rappresentava per i Costituenti un presupposto oggettivo indiscutibile su cui elaborare le norme in materia del bilancio.
Il secondo punto riguarda il fatto che il sistema di contabilità pubblica, così com’è stato disegnato nel dopoguerra, ha funzionato in maniera accettabile sino all’inizio degli anni Settanta, in una situazione di forte crescita economica, di tranquillità finanziaria, in cui gli istituti di spesa sociali erano ancora immaturi.
La rottura del meccanismo si è verificata, come detto, nei primi anni Settanta, ma vorrei aggiungere un’ulteriore memoria storica. L’alto debito pubblico è un fatto che potrei definire ideologicamente neutro, politicamente qualunquista, nel senso che per cinque volte nella storia d’Italia i debiti pubblici sono risultati superiori al prodotto interno lordo.
Ai tempi della Destra Storica (1870), della cosiddetta Sinistra crispina (1894), della prima guerra mondiale (e qui qualche motivazione si può trovare), dal fascismo ai giorni nostri. Ragion per cui nuovamente questo richiamo serve a dire che forse esistono le procedure, ma vi sono anche altri fattori molto importanti.
Un ulteriore punto a mio giudizio rilevante è che il nostro sistema di contabilità pubblica è stato comunque caratterizzato da un elevato grado di sperimentazione istituzionale.
Inizialmente, si è passati da una procedura di bilancio puramente formale ad una fase interventista, caratterizzata da una legge finanziaria di grande estensione, per passare poi ad una fase caratterizzata da una finanziaria asciutta e da provvedimenti di accompagnamento.
Attualmente, a mio giudizio, pare che vi sia la volontà di abolire la finanziaria. Per debolezza intellettuale di carattere sono sempre stato d’accordo con tutti coloro che proponevano riforme, con il risultato di aver oggi raggiunto uno stato mentale che i filosofi antichi erano soliti chiamare di atarassia totale.
In tempi di crisi dell’ideologia credo fortemente nelle proprietà elementari dell’aritmetica e, fra queste, fondamentale è quella commutativa, per cui, nonostante prima venga elaborata la legge di bilancio rispetto alla legge finanziaria, ritengo che i risultati ultimi non possano essere diversi.
Vorrei sottolineare che, in un sistema decentrato dal lato della spesa e accentrato dal lato dell’entrata, una manovra d’aggiustamento annuale dev’essere comunque effettuata. Non per nulla la legge finanziaria nasce alla fine degli anni Settanta, quando saltano tutti gli equilibri di finanza locale e delle aziende autonome. Per cui, fino a quando non riformeremo radicalmente i rapporti fra centro e periferia, sarà necessaria una legge finanziaria.
Questi sono i punti essenziali che volevo richiamare e che pongo come presupposto a queste mie brevi considerazioni.
Distinguerei due classi di cause nell’attuale squilibrio dei conti pubblici. La prima è il risultato di comportamenti non appropriati degli organi decisionali (usiamo il termine in senso generale).
La seconda è lo squilibrio che nasce da fattori endogeni, derivazione immediata del funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Da questo punto di vista ritengo che quando si parla di riequilibrio dei conti pubblici nel nostro sistema, si debba tener conto di questi due ordini di cause per individuare i meccanismi d’intervento appropriati.
Vediamo quelli che possiamo chiamare genericamente comportamenti inappropriati. Credo che da questo punto di vista occorra, più che una innovazione, un’applicazione seria e consapevole delle leggi esistenti.
Ritengo che la legge 362/1988 sia una buona legge e abbia in sé tutti i meccanismi per controllare le decisioni annuali di spesa. Quando una legge prefissa l’ammontare massimo da destinare all’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, la stessa fornisce ad un eventuale controllore anche un meccanismo per verificare il comportamento degli organi del Governo. Se poi non si applica il problema cambia e viene a riguardare il mancato rispetto di una norma di legge.
Questa stessa legge, inoltre, prevede le stime pluriennali per le leggi dì spesa. Addirittura, per la componente pensionistica, impone previsioni di carattere decennale. In aggiunta fissa rigidamente, e qui forse il problema della copertura non è più così assurdo come nel ’48, gli obblighi di copertura per le spese inserite nel fondo di parte corrente. E’ in sostanza una legge che predispone tutti gli strumenti necessari per la verifica del comportamento degli organi del Governo.
Ritengo, allora, che nel nostro processo di bilancio la massima attenzione dovrebbe essere data al bilancio che risulta dalla ricostruzione del sistema esistente. Ho l’impressione però che il 90% delle decisioni di finanza pubblica avvenga nel momento in cui si formano le ipotesi sul futuro. L’aspetto innovativo contenuto nella legge finanziaria finisce per essere relativamente ridotto.
Il problema è quindi di gestire il momento della presentazione di questi conti, che costituiscono un fatto burocratico e amministrativo più che politico.
In aggiunta sottolineerei l’importanza della competenza nelle decisioni di finanza pubblica. Se non sbaglio l’onorevole Andreatta, quando era ministro del Tesoro, pronunciò il famoso discorso in cui sottolineava l’importanza della competenza. La competenza finisce per trasformarsi in qualcosa di nebuloso e, se non la si controlla al di là di tutti gli arretrati di spesa che esistono, non si controllerà mai la finanza pubblica.
Direi che vi è un elemento positivo, nonostante tutte le manipolazioni subite quest’anno dalla finanziaria: si riscontra un saldo netto della finanziaria inferiore a quello che è il fabbisogno desiderato del settore statale.
Al fine del controllo, l’aspetto forse su cui ci si potrebbe soffermare è quello della sovrapposizione al normale processo decisionale di una sorta di piano pluriennale di rientro, secondo modelli applicati nel decennio scorso con diversa fortuna negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Il piano finanziario inglese a medio termine si è risolto apparentemente in un successo; non così quello statunitense. Vediamone le ragioni. Certamente anche il Primo ministro Thatcher ha assunto un atteggiamento molto flessibile nell’applicazione dei suoi piani; ha “sconfinato” nei primi anni, quando l’economia andava male, ma è successivamente riuscita a creare un sistema non inflazionistico, portando ad una riduzione dei tassi d’interesse. In definitiva ha sfruttato pienamente la favorevole congiuntura della seconda metà degli anni Ottanta.
E’ da sottolineare che la prima fase dell’aggiustamento è avvenuta essenzialmente dal lato delle entrate e non dal lato delle spese.
Il piano finanziario statunitense, invece, è costituito da una legge famigerata, che presenta degli aspetti interessanti anche se in senso negativo. Si noti che essa ha rappresentato una sorta di compromesso fra Congresso e Casa Bianca per riportare in equilibrio i conti pubblici degli Stati Uniti. L’aggiustamento doveva essere ripartito in parti uguali fra le spese civili e quelle militari (questo era il compromesso politico) mentre non si dovevano toccare le imposte.
Il punto fondamentale è che la definizione della base di riferimento per gli aggiustamenti automatici era così ristretta che dopo un anno era impossibile riapplicarla. Il piano è fallito. Non era tanto l’idea ad essere sbagliata, quanto la realizzazione tecnica di un principio, che probabilmente se esteso dal lato delle entrate, avrebbe potuto conseguire risultati diversi.
Si ritorni al caso italiano. Più che sulle procedure in senso stretto, mi soffermerei sull’inquadramento dei programmi economici. Questo porterebbe anche ad una considerazione negativa dei nostri documenti di programmazione economico-finanziaria, che risultano essere delle costruzioni contabili puramente astratte, in cui sono previste riduzioni da 20.000 miliardi all’anno nel fabbisogno del settore statale senza alcuna attenzione alla loro applicabilìtà.
In un sistema così dipendente dai mercati dei capitali sbagliare le previsioni è drammatico, per gli effetti di costo che si ripercuotono sul finanziamento del debito; meglio è fare una previsione di fabbisogno di 150.000 miliardi e rispettarla, piuttosto che farne una di 130.000 miliardi e non rispettarla, pagando un punto in più d’interesse. Poniamo l’accento anche sulla perdita di significato che hanno certi dati e numeri su cui abbiamo fermato la nostra attenzione. Quando si inizia ad utilizzare in modo sistematico la componente straordinaria di entrata, il saldo del bilancio annuale perde ogni significato. Ma stiamo attenti, perché si potrebbe ragionare in maniera molto più pacata sull’evoluzione di finanza pubblica prescindendo da queste componenti straordinarie.
Tuttavia ritengo che in un processo d’aggiustamento dei conti pubblici, partendo da una situazione di profondo squilibrio, più che le procedure, giochino le grandi caratteristiche strutturali di un sistema di finanza pubblica e l’andamento macroeconomico.
Quello che più preoccupa delle vicende italiane degli anni Ottanta è che un periodo di prolungato sviluppo non ha prodotto risultati sufficientemente rilevanti sui conti pubblici, dal momento che qualcuno non ha assunto comportamenti adeguati alle possibilità di aggiustamento.
Vorrei ora sottolineare due aspetti che ritengo centrali nel nostro discorso; il primo è un discorso di più lungo periodo che però da l’idea di cosa significhi inserire una componente strutturale in un sistema di finanza pubblica in riferimento al sistema pensionistico. Tutti sappiamo che questo sistema tende ad espandere la spesa pubblica. Questo accade soprattutto perché, ancora oggi, il nostro sistema pensionistico riflette due caratteristiche specificamente italiane della fine degli anni Sessanta: un’elevatissima disoccupazione strutturale e storie contributive molto ridotte e limitate, nel senso che per pagare le pensioni si dovevano fissare coefficienti di liquidazione delle pensioni straordinariamente elevati (il famoso 2% per ogni anno di retribuzione). Dunque, per pagare le pensioni e quindi per ragioni macroeconomiche, si fissarono una bassa età pensionistica e alti coefficienti utilizzati per determinare le pensioni.
Oggi questi due parametri sono le cause dell’esplosione del nostro sistema pensionistico. Una riforma pensionistica significa intervenire fondamentalmente su questi due parametri. Quando si parla di pensione bisogna considerare nel complesso tutto il sistema di trasferimento intergenerazionale dalle risorse della popolazione attiva a quella in pensione.
Ascolto con stupore la gente che parla di necessità di introdurre forme integrative nel nostro sistema pensionistico. Ora, nel nostro sistema pensionistico esistono i dipendenti pubblici che sono esclusi, come pure i bancari; i dirigenti d’azienda che, se non sbaglio, hanno firmato un contratto che ha come termine di riferimento uno stipendio annuale di 170 milioni (e ciò è unico in Italia). E’ da sottolineare che esiste un sistema di trattamento del risparmio che tende a favorire e certamente non a penalizzare. Quindi, pensare oggi di sovrapporre un’ulteriore struttura ad un sistema che nella componente pubblica è quello che è, e nella componente privata è quello che ho detto, significa introdurre un elemento esplosivo, non correggere gli andamenti strutturali, ma, anzi peggiorarli ulteriormente e forse permanentemente.
Il secondo punto importante riguarda i tassi d’interesse: nell’ottobre del 1987 l’istituto di cui faccio parte fu invitato dall’onorevole Andreatta a presentare previsioni riguardo l’andamento della finanza pubblica. Prospettammo uno scenario rigoroso caratterizzato da un’evoluzione delle entrate con elasticità pari all’1,2 ed un’evoluzione delle spese pubbliche con un’elasticità pari all’1 rispetto al Pil. Tenevamo fermi i tassi d’interesse al livello di allora e ipotizzavamo di raggiungere nel ’92 un fabbisogno di 122.000 miliardi. Notate che è stato uno straordinario successo, anche se abbiamo sottovalutato un pochino la componente inflazionistica. Però il fatto importante è che abbiamo rilevato un punto sostanziale: oggi l’aggiustamento dei nostri conti pubblici passa per un ritorno dei tassi d’interesse a livelli fisiologici, a livelli probabilmente degli anni Sessanta, cioè ad un rapporto più equilibrato con l’evoluzione del sistema. Risulta perciò necessaria tutta una serie di politiche volte a ridurre il costo medio del debito pubblico. Per tale motivo è necessario attuare una seria politica antinflazionistica, così come una seria politica di stabilizzazione delle aspettative.
Acquista perciò fondamentale importanza una politica di composizione del debito pubblico, che non tenda a massimizzare il costo, ma a minimizzarlo. Questi sono tutti aspetti che a mio giudizio potrebbero aiutare a sfruttare le condizioni internazionali eventualmente favorevoli.
Ma soprattutto si dovrebbe prestare attenzione a certi saldi parziali che noi economisti sciaguratamente abbiamo proposto in questi anni. L’importanza, data in questi anni, al saldo primario come elemento rappresentativo delle strutture di finanza pubblica, a mio giudizio è stata una cosa sciagurata, che ha fatto dimenticare il fatto che, nonostante un miglioramento sostanziale del saldo primario, ci si ritrova comunque in una situazione di fortissimo disavanzo complessivo nel settore pubblico (10 punti di percentuale).
Quando i tassi d’interesse reali eccedono il tasso di crescita del sistema economico, si deve attivare subito un meccanismo fiscale diffuso che impedisca un’ulteriore esplosione del debito pubblico. Questo per suscitare una coscienza della pericolosità di un avvitamento del debito sul debito.
Rendiamoci conto che se si seguono politiche rigorose dal lato delle entrate e delle spese e se si riesce a ridurre l’inflazione, un’aggiustamento sostanziale del nostro disavanzo pubblico può essere ottenuto nel giro di quattro anni.
Comunque direi che tutto questo evidentemente si coordina.
Questo è il dato essenziale che, se rispettato, ci permetterà di entrare in Europa.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.