Per cambiare la politica e la cultura: la lezione di Mounier

La prima volta che ho visto Mounier è stato all’occasione del primo processo in cui era stato accusato dal governo di Vichy di essere il direttore spirituale della Resistenza. Avevo 18 anni e me ne ricorderò sempre. L’ho visto come un uomo dinanzi all’accusa, dinanzi alla potenza dello Stato, della dominazione e del terrore, esempio di ciò che più tardi chiamerà lui stesso “affrontamento”. Una sua frase mi piace qui citare: “Bisogna prima fare gli uomini capaci di tenersi in piedi da soli”. Non dimentichiamo mai questa lezione prima di parlare di politica. E’ per questo che la comunità nella quale io ho vissuto con lui, non era una comunità in cui tutto era mescolato, confuso, ma una comunità che si basava su un concetto che, per Mounier, era fondamentale, cioè una separazione tra la vita privata e quella comunitaria. C’erano sei-sette famiglie, ciascuna aveva una sua autonomia, ma tutte erano unite nella dedizione, nella prova e tutte avevano un compito nell’educazione dei figli.
Mounier diceva che un cristiano non può che essere un rivoluzionario, un cristiano non può sopportare ciò che è oppressione, ingiustizia. Mounier è partito dalla constatazione dell’ annientamento degli uomini nel sistema capitalistico, dalla miseria, dalla disoccupazione all’epoca della grande crisi del 1929/30. Tutto il suo pensiero si è esaurito nello scandalo della miseria.
Io ho fatto mie le idee di Mounier a partire dalla mia rivolta: la rivolta di un ragazzo che aveva diciassette anni quando i nazisti sono entrati in Francia e che non ha potuto accettare l’annientamento della libertà, l’antisemitismo, la schiavitù nella quale si era messa o si voleva mettere la nostra nazione.
Non sono qui per raccontare la storia del vecchio combattente. Non mi resta della Resistenza che una sola lezione, ma che è essenziale: nei momenti difficili non bisogna fare affidamento sugli altri, sulle istituzioni, sui notabili, sui dirigenti; bisogna solo contare su se stessi e sui propri compagni. Ho imparato in quel momento una cosa che non ho più dimenticato, cioè che nelle circostanze difficili non ci si trova molto numerosi. Vorrei raccontare solamente un aneddoto a questo proposito. Era il luglio 1944, appartenevo ad un gruppo di partigiani composto da ebrei, protestanti e cattolici, che aveva liberato una città. Tutta la gente uscì dalle case per acclamarci, ma dopo un’ora tutti erano spariti. Eravamo rimasti soli, ci guardavamo tra di noi, non capivamo: si era sparsa la voce che le SS stavano ritornando, allora tutti sono scappati. In quel momento ho capito, ho avuto la certezza che nei momenti difficili ci si troverà sempre soli con pochi compagni.
Vi propongo un pensiero di Bernanos, un grande ispiratore per tutti noi, che ha scritto: “È una porzione di uomo libero che fa un paese libero”. Quale porzione è difficile dirlo, forse il 10% o forse il 90%. Noi non possiamo contare sui sistemi politici, sui governanti, possiamo contare solo su noi stessi. Noi sappiamo che gli uomini amano la schiavitù, che dentro tutti c’è un desiderio di essere comandati, dominati, un desiderio che ci abbassa. Questa è forse una tra le scoperte più terribili che abbiamo fatto: quando i popoli sono schiavi, spesso è dovuto a loro e non è solo lo sbaglio di un ambiente, l’errore degli altri. Il loro desiderio di essere dominati, comandati, la loro paura, il loro timore di affrontare il rischio, è questo che prima di tutto porta i capi a diventare potenti.
Le esperienze che ho fatto durante la Resistenza, l’ho ripetuta durante la guerra di Algeria in modo ancora più difficile. Infatti le guerra partigiana era pericolosa, ma in qualche misura facile: si poteva essere nazionalisti o universalisti, a favore della democrazia o della rivoluzione comunista. Durante la guerra di Algeria, invece, ho scoperto che il mio popolo, la mia nazione, il mio Stato, il popolo francese era capace – come le altre nazioni – di essere crudele, di torturare, di uccidere. Ho conosciuto dei compagni che erano con me nella Resistenza, e poi, in Algeria, sono diventati ufficiali e si sono comportati come gli ufficiali di Hitler. L’esperienza algerina è stata la più dura di tutta la mia vita, mi ha formato la convinzione che non bisogna contare su nessun popolo, su nessuna razza, nemmeno sulla nostra nazione, bisogna contare su se stessi e sull’aiuto di Dio, e questo vuol dire che la Resistenza non è mai terminata, che bisogna lottare senza tregua contro le barbarie che rinascono sempre.
Da questo ho tratto due conclusioni alle quali vorrei restare fedele, che sono collegate tra di loro ed erano già la verità del personalismo comunitario di Mounier: “L’uomo deve farsi libero, si deve rendere libero legandosi agli altri”. Mounier diceva che non c’è contraddizione tra la mia esistenza e quella degli altri, per cui il fine supremo della persona è la comunione. Egli ha rovesciato la filosofia polemica che è stata per anni la filosofia dominante in Francia sotto la forma umanistica e esistenzialistica, per proporci un’azione che interpella direttamente la persona e la comunità.
Avevo incontrato un grande spirito, ero felice di lavorare con lui alla costruzione di piccoli gruppi come quello che voi formate qui a Brescia. Era ciò che Mounier chiamava rifare un tessuto organico, costruire una società. Questo è soprattutto il nostro compito prima di operare in partiti politici, in sindacati; bisogna riunirsi in piccoli gruppi, in piccole associazioni ed operare in modo da creare luoghi di una vita libera e ragionevole contro la minaccia delle barbarie.
Vorrei fare una confessione: mi sono sbagliato molto, soprattutto perché volevo prolungare le battaglie iniziate con la Resistenza, sostenere una parte contro un’altra, la parte del bene contro quella del male. Mi sono impegnato in politica come se fosse la chiave della liberazione dell’umanità, ho creduto che cambiando la politica, cambiando il governo, si potesse veramente modificare la vita, ma ora so che in questo mi sono sbagliato. Io sono una vittima di due parole: la prima è rivoluzione, la seconda liberazione. La parola rivoluzione era quella che ci esaltava di più quando noi eravamo nella Resistenza e anche negli anni successivi, dopo il 1946, pensavamo di essere capaci a cambiare completamente i domini sociali, ma avevamo dimenticato qualcosa di essenziale dell’insegnamento di Mounier che aveva scritto nel 1932: “Qualsiasi rivoluzione che non sarà accompagnata da una trasfigurazione morirà della sua morte”. Ho ripensato a queste parole quando Dubcek, presidente della Cecoslovacchia nel 1967, aveva detto che voleva costruire un socialismo dal volto umano. Nell’ebbrezza politica del potere che ci aveva totalmente preso, avevamo dimenticato l’idea, così cara a Mounier, che bisogna cambiare il cuore e il volto degli uomini prima di fare la rivoluzione, parole queste con cui aveva terminato l’articolo di presentazione della rivista Esprit nel 1932.
Una posizione considerata all’epoca come idealismo cristiano, come qualcosa di generoso ma inefficace, eppure ora sappiamo che probabilmente è la cosa più efficace che sia stata detta, dopo aver visto rinascere il terrore, la tirannia. Gli orrori dello stalinismo sono la prova che una rivoluzione, se non si accompagna a un cambiamento nel cuore degli uomini, nelle relazioni umane, è una rivoluzione che tradisce se stessa uccidendo molte persone.
A proposito della parola liberazione, così frequentemente usata, che noi vediamo su tutti i giornali e su tutti i muri, dirò all’incirca la stessa cosa, una liberazione senza conseguenze, una liberazione che non si accompagna ai valori, una liberazione che è solo l’esplosione continua della spontaneità è – lo dirò ancora citando Mounier – un’emancipazione, una liberazione sotto condizione. Mounier sapeva che una libertà siffatta sarà una libertà contro l’uomo stesso. So bene cos’è l’insuccesso e quali sono le leggi della politica. Già il grande poeta romantico Lamartine aveva detto che la politica è disinganno, e sono state per noi delusioni crudeli lo sviluppo del comunismo nello stalinismo e la liberazione dei popoli sottosviluppati che diventa un po’ ovunque nel mondo tirannia, dittatura militare. L’esempio del maggio ’68 francese è molto interessante: sorto come una forma esplosiva di emancipazione, alla fine esso si è risolto in una americanizzazione accentuata degli usi francesi.
Non vorrei scoraggiare nessuno e non voglio soprattutto parlare qui contro la politica, che ho amato troppo. Cito ancora Mounier per il quale “il politico e l’azione politica sono subordinati, non sono il primo lavoro”. Ciò che è rimasto della mia esperienza, degli errori della mia generazione è che in politica non bisogna contare su un effetto privilegiato, su un popolo o su una classe sociale che giocherebbe un ruolo salvifico. Il male è all’interno della politica, è nel potere; il solo salvatore è Gesù Cristo e questo non vuol dire che noi non dobbiamo fare il possibile per liberare, per quanto ci è possibile, gli uomini a noi vicini e poi quelli al di là delle frontiere, compito che è sempre da attuare contro tutte le barbarie. Anche se dobbiamo cercare di costruire una società migliore, più giusta, più libera, noi non possiamo sperare di realizzare una società “totalmente trasparente”. C’è un fondo oscuro nella storia fin dall’inizio dei secoli e se non ci fosse stato il male nella società, il Cristo non sarebbe venuto e non ci sarebbe la storia. Il marxismo ha preteso di fermare la storia, chiudendola nel suo sapere assoluto. Se noi sapessimo tutto sulla storia, allora non potremmo essere protagonisti nella storia. Noi non conosciamo la fine della storia e nemmeno il suo svolgimento domani o di dopodomani, e proprio perché è enigmatica che noi dobbiamo e possiamo impegnarci per modificarla.
Ecco, non credo alla storia con la esse maiuscola, alla storia il cui senso ci sarebbe dato da una dottrina, non importa quale; non sono per niente d’accordo con quelli che, con gli strutturalisti, come Levi Strauss, pretendono che la storia sia solamente una particolarità ontologica dell’Europa, un incidente. No. Noi non possiamo interpretarla in modo univoco. Mounier parlava di ottimismo tragico, cioè che ad ogni momento noi dobbiamo interpretare e scegliere. In questo sta la grandezza dell’Europa: rimettere sempre in questione i nostri miti, le nostre prospettive, le nostre tradizioni. Non credo più alla storia, credo all’avvenimento, al fatto, cioè il sorgere di qualcosa di nuovo, come diceva un poeta francese: “Io attendo una cosa sconosciuta, io so che ciò si produrrà, che ciò si deve produrre e ciò nonostante non so cosa si produrrà”.
“L’avvenimento – mi ha scritto Mounier in una lettera – sarà il nostro maestro interiore”. È una frase molto bella, una frase foscoliana, ma anche peguysta. Una vita, un gruppo di uomini si organizza intorno ad un avvenimento, ciò che si chiama avvenimento fondatore, qualcosa che ci è capitato attraverso un incontro personale o attraverso una nuova situazione e che ha ricordato a noi stessi, alla nostra fedeltà o che piuttosto ci ha rivelato ciò che noi non conosciamo, ciò di cui non abbiamo coscienza. C’è un autore francese che comincia ad essere ben conosciuto in Italia e io ne gioisco perché è stato il mio primo ispiratore e il maestro di Mounier, è Charles Péguy. In occasione dell’affaire Dreyfuss, un ebreo che era stato condannato ingiustamente, Péguy ed altri organizzarono una protesta e ne hanno fatto un avvenimento che conta ancora per noi, un avvenimento che è stato decisivo per la storia della Francia.
Occorre far scoppiare attraverso gli avvenimenti la potenza dello spirito, una ricchezza, una verità, un’autenticità che sono quelle della nostra vita profonda. Come per Péguy e per Mounier, lo dico a modo mio, è la vita privata che deve nutrire, alimentare, per quanto possibile, la vita pubblica e non il contrario. Che cos’è il totalitarismo se non la scelta della vita pubblica per la vita privata? Ebbene il personalismo è il contrario. Dieci anni fa non avrei osato parlare in questo modo, mi sarei detto: “É un sermone, tu prendi il posto del prete, fai discorsi moralisti”. Poi, nella pratica, ho constatato che queste parole erano una forza, qualcosa che non solo aveva valore ma anche che agiva nella prassi.
Da allora ripeto ciò che diceva Mounier nel ’30, che dobbiamo rifiutare le parole di menzogna perché ci mettono fuori strada. Quando si grida contro l’imperialismo, mi chiedo cos’è l’imperialismo, si dovrebbe dire “gli imperialismi”; quando si grida contro il socialismo, mi chiedo cos’è il socialismo oggi, ben diverso da quello con il quale è facile sognare. La lotta contro il terrore, la lotta per la liberazione, comincia con la parola, con il linguaggio. Non si tratta solo di criticare le parole degli altri, bisogna criticare anche le nostre. Noi, in Francia, ripetiamo il motto della repubblica “libertà, fraternità, uguaglianza”, ma cos’è questa libertà? Mounier ha detto nel 1930: “Questa democrazia è una democrazia di schiavi in libertà”. È una condanna terribile contro la nostra società che reclama la libertà, ma non la vive, che proclama l’uguaglianza, ma non la pratica, per non parlare poi della fraternità.
Noi viviamo nel cuore di una società ingiusta, dominata dal denaro e dall’indifferenza, che sta omologandosi sempre più perfettamente, e davanti a questa società ho una reazione di disgusto simile a quella di Mounier davanti alla folla di gente che non sa vivere, che egli chiamava “marmellata insipida”.
La società di consumi, anche se non è da confondere con la tirannia perché ci lascia ancora alcune opportunità, però, è una società dove l’uomo si degrada. Credo che sia una società molto potente, probabilmente la più forte che gli uomini abbiano mai inventato, perché corrisponde esattamente alla tentazione che i Padri della Chiesa chiamavano la tentazione della concupiscenza e che io chiamerei propriamente “discesa ontologica”. Mi si chiederà perché lottare, perché occuparsi degli altri. Se fossi cristiano, risponderei che è il mio dovere, ma sono convinto che sia il dovere di tutti gli uomini. Siamo solidali con i nostri compatrioti, ma anche con l’insieme dell’umanità. La grandezza della nostra epoca è che il mondo intero si sta scoprendo nel bene o nel male solidale. Siamo tutti sulla stessa barca, non possiamo più contare sui selvaggi per salvarci. Il mito della società innocente, degli uomini puri, è terminato; siamo tutti insieme sullo stesso fronte.

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Avvicinandomi alla conclusione vorrei avanzare delle proposte per l’oggi. Io non ho un programma e nessuno ce l’ha. Farò qualche riflessione molto semplice, ma è meglio essere semplici quando si affronta una grande questione. Partirò riprendendo la frase del Vangelo: “Lasciamo ai morti seppellire i loro morti”. Noi stiamo vivendo la fine di un’epoca, quella della totale mobilitazione. Appartengo alla generazione della guerra fredda che è felicemente finita; noi sentiamo profondamente che i due grandi totalitarismi che si sono divisi il mondo (il totalitarismo hitleriano e quello staliniano) saranno visti, in futuro, come una stessa realtà; hanno la loro unità profonda nell’ideale della potenza industriale, nella meta della potenza militare, nella burocratizzazione generalizzata del nazionalismo. La sola differenza è che il totalitarismo sovietico è durato più a lungo, ma ora si comincia ad intravvederne la fine.
Da trent’anni ci sono delle rivolte dove i lavoratori e gli studenti si sono uniti. A Praga, a Danzica queste rivolte costituiscono un fatto su cui basare la nostra speranza, non perché provocano delle difficoltà al governo sovietico, ma perché manifestano nel centro dell’Europa una reazione fondamentale: è la società europea che non accetta di lasciarsi distruggere, che reagisce e per la quale i diritti dell’uomo sono una rivendicazione fondamentale. Quando ho visto quattro anni fa il cardinale Wojtyla, prima che fosse eletto Papa, gli ho domandato: “Padre, che cos’è più importante per la chiesa polacca?”. Credevo che mi rispondesse il seminario, le chiese, le parrocchie; no, egli mi disse subito: “Sono i diritti dell’uomo, come in America Latina” e quel giorno ho sentito che il cristianesimo poteva diventare portatore di speranza umana.
Tutti parlano di diritti dell’uomo e per la prima volta nella storia il mondo intero ha un linguaggio unitario su questo argomento. È un discorso universale che riguarda tutta la terra. Può essere però un discorso di menzogna, di impostura; perché ci sia un discorso sui diritti umani ci devono essere gli uomini e fino a quando gli uomini muoiono di fame o sono imprigionati, non ci sono i diritti dell’uomo, è una burla ad uso dei governi e della diplomazia. Bisogna dirlo senza remore: ci sono veramente degli uomini solo se si rispettano i valori fondamentali che sono la libertà di pensiero, di religione, la libertà di usare la propria lingua, il diritto di associarsi. È possibile una politica dei diritti dell’uomo solo se non ci lasciamo andare in un individualismo abusivo, che si traduce in un ricorso continuo al sostegno dello Stato.
Vorrei che non ci fosse confusione, che si pensasse che io innalzi il cristianesimo contro il marxismo. Non è la mia intenzione, perché sono convinto che in Europa il marxismo è morto, e ho questa certezza dopo aver visitato Praga e Varsavia. Non è contro il marxismo che oggi innalzo il personalismo, ma contro il nichilismo. Noi stiamo entrando in una dolce anestesia, l’anestesia della società dei consumi. Ricordo, per parlare ancora della Polonia, un rimarchevole rapporto che il ministro dei culti aveva fatto quattro anni fa al comitato centrale del partito comunista polacco sulla persistenza della religione cattolica in Polonia. Quel rapporto si concludeva con un’osservazione molto intelligente: “Non possiamo sbarazzarci della fede con la nostra lotta atea, con la nostra ideologia; non c’è che un modo per sbarazzarci della religione cristiana ed è diffondendo la mentalità consumistica”.

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Ritorno all’epoca della fondazione, nel 1930, della rivista Esprit: Mounier aveva avuto l’intuizione che bisogna dapprima cambiare la cultura, rifare il rinascimento. É uno slogan di Mounier, ma che cosa vuol dire? Rifare la rinascita è riprendere la cultura europea là dove si è spezzata in due parti (l’individualismo e il collettivismo), riscoprire la realtà profonda dell’uomo, ricostruire con la sua interiorità la sua responsabilità verso gli altri. Rifare un uomo che si unisce alla natura e a lui stesso, rifare un uomo più in armonia, più completo, più equilibrato, rifare un uomo più libero, educarlo alla libertà. È in questa direzione che bisognerebbe lavorare. Rifare una natura che ci riunisca al mondo, a noi stessi, liberandoci per quanto possibile dalla tirannia delle cose. Rifare la politica non è fondare un nuovo partito, ma riprendere le rivendicazioni degli uomini nella profondità dell’essere. C’è qualcosa che è stato corrotto nell’essere: si dovrà ripartire da questi esseri alienati nella loro esistenza, riunire le loro rivendicazioni profonde, dare la priorità a coloro che sono i più miserabili e i più emarginati. É necessario riorganizzare l’economia contro la dittatura del produttivismo, rimettere l’economia al servizio del bisogno umano e non il contrario, come avviene nella società dei consumi.
La proposta di una rivoluzione evangelica non è un vano sermone, ma una via da percorrere, una fonte pura di ispirazione, una forza che trasforma e nobilita l’esistenza.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 20.10.1980 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.