Per la riforma del voto segreto

La questione del voto segreto non è la sola che va discussa, ma essa va affrontata seriamente e subito perché ha valore pregiudiziale rispetto ad ogni altra riforma. Una volta lo scrutinio segreto era richiesto di solito per gravi decisioni, su argomenti estremamente importanti; da parecchi anni se n’è abusato, invece, sì da farne non uno strumento di dissenso, ma un’arma di ricatto, un atto di fellonia, uno strumento di vendetta e un modo di cedere – nel segreto dell’urna – alle allettanti intese con gruppi di pressione o a richieste corporative. Questa sconcezza ne genera un’altra: il continuo ricorso dei governi al voto di fiducia nel disperato tentativo di porre un argine alla collusione tra due irresponsabilità: quella dell’opposizione, che su ogni cosa si batte per portare le spese al massimo, e quella dell’arrembaggio ad ogni sorta di interessi. Sulle questioni importanti gli elettori dovrebbero poter controllare se i loro eletti sono stati fedeli al mandato ricevuto; la ricerca di anonimato, invece, esclude a priori la possibilità per l’elettore di domandar conto ai deputati della condotta tenuta in Assemblea.
Si cominciò a sbagliare già nell’Assemblea Costituente, con l’assurda imposizione di un regolamento (valido solo per la Camera dei deputati, n.d.r.) che prescrive – tuttora! – che il «voto finale sulle proposte di legge si dà a scrutinio segreto». E persino sul testo costituzionale si ebbero ben quaranta scrutini segreti. Il voto segreto è un triste privilegio del Parlamento italiano; a Washington, a Londra, a Parigi si vota a scheda segreta solo per nomine e per decisioni che riguardino giudizi su persone. Gl’indecisi, i timidi, gli ipocriti – e ancora più gl’intrallazzatori – non vorranno mai la riforma del voto segreto. Dicono che il voto segreto è un modo per sfuggire alla disciplina di partito. Può essere, ma è il modo più sbagliato e aberrante. I deputati e i senatori, invece di aggredire alle spalle, facendo propri i metodi dei mafiosi e dei terroristi, rivendichino di fronte ai loro stessi partiti e in Assemblea il diritto a partecipare attivamente al processo di formazione degl’indirizzi di politica legislativa e alla loro esecuzione. Bisogna farla finita con i franchi tiratori e dare, nel contempo, una più ampia possibilità di espressione a chi rappresenta l’elettorato. Se il dissenso è fondato e onesto rispetto alle posizioni del proprio partito, perché non assumersene pubblicamente la responsabilità? Dissentire per seri motivi di coscienza significa aver diritto alla stima e obbligare i partiti a meritarsi il consenso dei rispettivi gruppi parlamentari.
Non è un sopruso, dunque, obbligare i deputati ad essere onesti, ma una misura di igiene parlamentare. Chi invece pensa di essere libero solo nel segreto dell’urna, sceglie un comportamento degradante. Il voto segreto, come oggi è esercitato nel nostro Parlamento, condiziona le maggioranze e quindi i governi agl’interessi particolaristici e – cosa ancora più deleteria – scatena i tatticismi, che disarticolano gli schieramenti politici, paralizzano l’esecutivo, screditano le istituzioni pubbliche. A quanti contrabbandano la loro disponibilità ai «cattivi giochi parlamentari» per garanzia di libertà, risponderemo con le parole di Luigi Sturzo. «Chi ha paura – scriveva quell’inascoltato maestro di libertà – di far conoscere il proprio voto sia ai capi-partito sia agli elettori, abbia la bontà di dimettersi da deputato o da senatore. La gente paurosa non è buona per quelle aule».
Kant, a nostro avviso, aveva visto giusto quando aveva riconosciuto nel «principio di pubblicità» l’anima stessa dello Stato di diritto. Per lui «tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui ragione non è suscettibile di essere resa pubblica, sono ingiuste». O sono evidentemente esposte al pericolo di diventarlo. «In decisioni di carattere pubblico ciò che non è confessabile pubblicamente – e che pertanto dev’essere tenuto segreto – non può trasformarsi in una minaccia di ingiustizia per ogni cittadino». Il filosofo di Kønigsberg precisava che «il principio di pubblicità non deve considerarsi solo etico, pertinente cioè alla sfera della virtù morale, ma anche giuridico, perché concerne in senso stretto il diritto degli uomini», se la società in cui vivono è una società civile e non belluina. Chi ha senso storico e ha un’alta idea della democrazia, nonostante le evitabili delusioni che le democrazie antiche e nuove hanno dato a chi crede in quell’idea coma a un dovere da far esistere nella storia, non può non essere d’accordo con Kant e Sturzo.
 

Giornale di Brescia, 18 luglio 1988.