Per una riflessione su piacere e felicità

1. L’eudaimonìa greca: senso del limite e apertura all’Assoluto.

Ogni due anni un nutrito gruppo di studiosi di filosofia morale si danno appuntamento per confrontare insieme, in quel clima di libertà a tutti garantito dall’impareggiabile promotore dell’iniziativa, Romeo Crippa, su di un argomento preciso. Il tema-problema del 1980 è stato incentrato sul rapporto tra piacere e felicità. Come per ogni discorso di fondo sulla condizione umana, anche qui bisogna partire da Atene, matrice essenziale anche se non esclusiva della nostra cultura. Per i greci «compiutezza» e «misura» sono i coefficienti primari, il costitutivo stesso di una vita umana razionalmente vissuta e dunque felice. Anche se con accentuazioni diverse in questo convengono Platone e Aristotele. La vera “eudaimonìa” degli uomini, cioè la loro vita inseparabilmente buona e felice, si ha quando il bisogno illimitato (ápeiron) di godimento che urge in ognuno di noi è umanizzato dal limite (péras) che la ragione gli assegna. L’uomo è un composto, comunque questo dato venga interpretato e presentato (e qui le divergenze fra Platone e Aristotele sono incolmabili), e la felicità per l’uomo sarà pertanto «una vita mista di intelligenza e di piacere», purché innocenti e goduti con moderazione. È la tesi del “Filebo” platonico puntualmente riproposta da Aristotele nell’ “Etica nicomachea”.
Da queste considerazioni secondo Francesco Adorno si dovrebbe trarre una radicale conclusione: la ricerca greca della «compiutezza» e della «misura» comporta la «mondanità» come orizzonte esclusivo della condotta umana, per cui tutto si dispiega e si conclude entro l’arco del nascere e del perire. Una prospettiva del genere, a sua volta, impone un vero e proprio capovolgimento nella interpretazione del messaggio di Socrate, Platone e Aristotele. Adorno non arretra. Per lui il platonismo e l’aristotelismo «ontologici» e «religiosi» sarebbero «costruzioni» posteriori suggerite dall’irrompere di componenti nuove, religiose appunto; non più strettamente greche, ma stoiche, neo-platoniche, ebraico-cristiane, in virtù delle quali «si giungerà a credere che l’essenza umana è tale non in questo mondo, ma solo oltre questa vita». Di qui una conseguenza paradossale: un pensatore come Epicuro, materialista nella concezione del mondo ed edonista in morale, verrebbe a trovarsi in una linea di continuità diretta con Platone ed Aristotele una volta che questi siano dichiarati estranei al nucleo metafisico e teologico della loro opera. Con Epicuro l’etica strettamente greca, portando anzi a perfezione il suo carattere di mondana restituzione dell’uomo a se stesso e di rifiuto della dimensione religiosa, tocca il culmine e si conclude.
Alla risoluzione secolaristica di tutta la morale greca è difficile consentire e per molte ragioni, tutte fondate su testi peraltro celebri a causa della loro profondità e chiarezza. Ma prima ci sia permessa un’osservazione: è lecito sovrapporre o dichiarare a priori coincidenti l’etica che parte dal riconoscimento del limite e l’etica della chiusura all’Assoluto? L’asserita identità delle due posizioni è tutt’altro che scontata nel pensiero greco e trova poi in campo cristiano una smentita continua, clamorosa. Si pensi ad Agostino, a Pascal, a Blondel: tre pensatori che sulla ricognizione critica del limite hanno fatto leva per l’affermazione della trascendenza, in epoche assai diverse per intervallo di secoli e per il tipo di cultura che le caratterizza. Certo, il vigoroso richiamo alla ‘misura’ della ragione è aspetto reale e non secondario della saggezza, è un acquisto fatto per sempre e per tutti da Atene. Di quella lezione ha bisogno anche il nostro tempo, perché occorre ben misurarsi con i fatti, e solo chi conosce la dura realtà effettuale potrà impegnarsi a elevarla e a razionalizzarla moralmente, senza fanatismi e intolleranze. Ma la forza dinamica della saggezza greca – protesa a vincere di continuo il cattivo infinito, quello pseudo-infinito che è l’illimitato, l’indefinito, il confuso, l’ “ápeiron” appunto – sta forse proprio nel fatto che, non perdendosi, come fanno quasi tutti i sistemi dell’immanenza, nella infinitizzazione del finito, è già costitutivamente orientata alla ricerca e all’affermazione dell’autentico infinito. Quali che siano le differenze profonde dalla visione cristiana della vita, la saggezza di Socrate, di Platone e di Aristotele tende a oltrepassare l’orizzonte terreno, e non per una sortita casuale. Chi non avverte nell’opera prima di Platone, l’ “Apologia”, che la fede razionale e religiosa in Dio, nelle cui mani è la sorte del giusto, è il postulato fondamentale della scelta decisiva di Socrate? Bergson ha scritto di Socrate, con la solita finezza, che «la sua missione è di ordine religioso mistico, nel senso in cui prendiamo queste parole: il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione» . In Platone la dimensione teologica non è una fase della sua ‘schepsi’ o un’aggiunta posticcia di interpreti tardivi, ma ciò che anima la trattazione di tutti i problemi. SU questo punto non si può nemmeno giocare alla contrapposizione del Platone del “Fedone” e della “Repubblica” al Platone del “Timeo” e delle “Leggi”. È infatti proprio in questi ultimi scritti che la razionale determinatezza dell’opera è invocata ad attestare la finalità della natura e la provvidenza del Dio-misura, cioè principio di ordine, di armonia, di equilibrio nel mondo delle cose e degli uomini. Per Platone la condotta dell’uomo è morale se è ‘imitazione di Dio’ e se l’uomo si fa collaboratore della provvidenza nel finalismo universale. Una scienza del bene senza il Bene, senza la Sorgente prima e il Valore assoluto, sarebbe meramente formale, incapace di vincere l’utilitarismo, l’edonismo, la pressione sociomorfica. Lo stesso eudemonismo dell’etica platonica rivela, sin dal “Gorgia”, nell’ispirazione religiosa il suo profondo significato: il bene non è mezzo a realizzare la felicità, ma fine a se stesso, valore al quale la felicità è insieme subordinata e intimamente congiunta. Nell’ultima sua opera Platone, quasi a sigillo di una delle più straordinarie avventure del pensiero, scrive le parole rivelatrici: «chi ignora Dio non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità e l’infelicità» .

Malgrado l’insistenza di Aristotele nell’analisi fenomenologica dell’atto morale e nella reciproca subordinazione – propria dell’Ellade – dell’etica e della politica, è sostanziale la sua adesione alla dottrina socratico-platonica, che distingueva beni esteriori, beni dell’anima e beni del corpo, conferendo non certo l’esclusiva ma senza dubbio il primato ai secondi. Tale primato include, perché l’uomo sia felice, sia il concorso di alcune circostanze favorevoli, sia il retto uso del piacere. Un padre che avesse figli buoni ma li vedesse morire, o avesse figli scellerati che sarebbe meglio non fossero mai nati, non può essere felice, anche se la sua coscienza è serena e se affronta la situazione con dignità e fermezza. La sventura compromette la felicità; e la sventura può avere anche i caratteri della tragedia collettiva, dalla quale assai spesso non ci si può riprendere in breve tempo. «Nessuno potrà essere veramente felice, se farà la fine di Priamo» , scrive con molta verità il filosofo di Stagira. E ognuno può aggiornare il paragone come meglio crede! D’accordo con il Platone della vecchiaia, Aristotele insiste per una certa rivalutazione del piacere; ma anche per lui il piacere più degno dell’uomo è il coronamento della vita virtuosa, il conseguente di cui la virtù è l’antecedente necessario. Se il piacere non è il Bene, è però qualcosa di positivo, il cui effetto è quello di perfezionare l’esercizio di una facoltà. Non si deve dire che ogni piacere è male, per il fatto che alcuni piaceri sono ignominiosi; ma se sono ignominiosi, sono poi veramente piaceri? Aristotele, con il suo robusto buon senso, non lo ritiene possibile . Poiché i piaceri differiscono specificamente a seconda delle attività dalle quali derivano, «si potranno dire propriamente piaceri quelli che accompagnano e perfezionano le attività proprie dell’uomo; gli altri invece saranno piaceri solo in via secondaria e del tutto accessoriamente» . In ultima analisi, l’ “eudaimonìa” socratico-platonica-aristotelica può essere sintetizzata dal principio formulato nel Gorgia (500 a): «si deve cercare il piacevole per il bene, non il bene per il piacevole»; la felicità che si vuole non è mai ridotta a una ‘metrica dei piaceri’, non è mai edonismo né raffinato, né volgare. Malgrado le gravi aporie che caratterizzano la concezione aristotelica del rapporto tra Dio e il mondo e del destino ultimo dell’uomo, per il filosofo del Liceo la sapienza trae forza e norma dalla contemplazione intellettiva, dall’atto con cui, nel coglierla, ci impossessiamo della verità di ciò che è al di sopra dell’uomo. E la verità più alta, supremamente disinteressata e proprio per questo supremamente necessaria all’uomo, è quella che riguarda Dio. Anche qui Aristotele continua direttamente Platone, tematizzando sul piano metafisico e morale «la tangenza contemplativa con la vita di Dio», per servirci di un’efficace espressione di Giovanni Reale. Così il precetto platonico che l’uomo deve quanto più è possibile assimilarsi a Dio acquista un più preciso significato: assimilarsi a Dio significa in primo luogo contemplare Dio. La suprema Verità è anche il sommo Bene. «Dio – è scritto nell’ultima pagina dell’ “Etica eudemia” – è il fine in vista del quale la saggezza comanda e qualsiasi cosa che, o per eccesso o per difetto, impedisca di servire o contemplare Dio sarà cattiva».

2. L’illuminismo = ossessione e scacco della felicità.

Se ci fu un’epoca che ebbe ‘l’ossessione della felicità’ (Crocker) fu il XVIII secolo, ‘il secolo dei lumi’. Sul Settecento ha svolto un’approfondita relazione Claudio Cesa. L’illuminismo nel suo atteggiamento di fondo tende a sostituire il tema della felicità puramente terrena a quello della salvezza. Bayle esprime questo punto di vista destinato a divenire prevalente nella mentalità illuministica; ma pensatori di ben altra levatura – Leibniz, Rousseau, Kant – non ne saranno mai paghi e porranno l’immortalità personale come soluzione obbligata per realizzare l’equazione di virtù e felicità, che la ragione comanda e l’esperienza smentisce.
Nel sentire del tempo l’idea che l’uomo sia il punto più alto della creazione viene per lo più messa in dubbio o rifiutata; ci si chiede come possa essere felice l’uomo in un mondo non fatto per lui in cui si trova gettato per caso. Pascal nel secolo precedente aveva posto il problema in termini di alta drammaticità, puntando sulla ‘coscienza della miseria’ come dato rivelativo dell’originale posizione dell’uomo nel cosmo, prova della sua ‘grandezza’. La potente sintesi pascaliana, rigorosa e disincantata, frutto di un genio che è contemporaneamente scienziato e filosofo e mistico, malgrado certi suoi risvolti pessimistici, è ben presente nel Settecento, vera ‘spina nel fianco’ di Voltaire e degli altri illuministi, ispiratrice diretta o indiretta di ogni seria contestazione nei loro confronti.
Come per i pensatori di altre epoche, anche per gli illuministi occorre in primo luogo cercare le cause dell’infelicità nei modi sbagliati con i quali gli uomini giudicano e agiscono; ma questi modi sbagliati – ed è qui la novità – sono indicati veramente solo da una critica sociale che metta a nudo i ‘pregiudizi’: i ‘pregiudizi’ appunto delle convenzioni, dei privilegi, della religione. Il nuovo credo, anche quando rifiuti l’ateismo e faccia proprie le tesi del deismo (un Dio assioma eterno, gran geometra dell’universo, assente però dal mondo a cui pure ha dato la ‘spintarella’ e dalla storia degli uomini), pone tra “le bonheur” e la dimensione religiosa un rapporto inversamente proporzionale. Montesquieu de “L’esprit des lois” e, a suo modo l’anticonformista Rousseau avranno un ben diverso atteggiamento, ma il grosso dell’illuminismo combatte la religione in quanto tale e non vuol distinguere la patologia della coscienza religiosa dalla sua fisiologia, la superstizione dalla mistica e dalla santità, in ciò preludendo chiaramente alla tesi feuerbachiana e marxista della religione come alienazione e coscienza ingannevole tout court.
In tutto l’arco del Settecento circola poi un’antinomia irrisolta. Oltre le deformazioni sociali, potrà mai l’uomo riscoprire il suo volto originario, la sua condizione naturale, la sola in cui possa pensare di essere stato felice? E questa felicità dello stato di natura perché non riaffermarla e garantirla mediante un nuovo patto sociale nella società di oggi? Quello stato di natura, infine, è un fatto, un momento del corso storico o qualcosa che misticamente sta al di qua della storia, un concetto-limite, un’ipotesi, una idea regolativa a cui aggrapparsi per l’oscillazione tra il richiamo ai ‘selvaggi’, alla rappresentazione di ciò che non siamo più o dovremmo pur tornare ad essere, da una parte, e dall’altra, la felicità posta nel trionfo dei ‘lumi’, la mistica delle magnifiche sorti e progressive, la celebrazione della scienza come la sola verità che ci renderà liberi, vincitori un giorno del dolore e della morte. Kant seppe cogliere il positivo che si celava nella proposta illuminista, ma di essa respinse fermamente lo sbocco edonista e utilitaristico in etica, l’illusione scientista, la boria intellettualistica. Si è scritto e si continua a ripetere che il filosofo tedesco sia un rigorista, chiuso alla comprensione dell’umana aspirazione alla felicità. «È indispensabile sfumare», dice il Cesa. Secondo noi per sfatare quel luogo comune occorre tener conto di tutto il messaggio morale di Kant per mostrarne la finezza e la concretezza, in netto contrasto con l’immagine assai diffusa del pensatore insensibile e incartapecorito. Qui basti ricordare che anche per Kant, come per Aristotele e Agostino, la felicità è “Naturzweck”, un fine naturale, e che, come quel grande si esprime chiaramente nella “Fondazione della metafisica dei costumi”, «assicurare la propria felicità è dovere, almeno indiretto, in quanto l’insoddisfazione del proprio stato, nella stretta di molte preoccupazioni e in mezzo a bisogni insoddisfatti, potrebbe diventare una grave tentazione di trasgredire i propri doveri». Altrove, contro il fraintendimento del suo punto di vista espresso dallo scherzoso epigramma di Schiller, nel ribadire che l’azione per essere morale deve avere solo nel dovere il movente precipuo e determinante, precisò che se non si deve mai agire ‘per inclinazione’ (aus Neigung), è però sempre auspicabile che si possa fare ciò che va fatto ‘con inclinazione’ (mit Neigung). È un punto di arrivo, ma non è certo una nota impossibile. È un aspetto della felicità a cui legittimamente possiamo tendere.
L’illuminismo è proprio così sicuro di sé come vorrebbe far credere – si è chiesto Baroncelli – o cerca di esorcizzare l’angoscia esistenziale? Le fratture interne ci mostrano piuttosto un’epoca assillata dal problema della felicità e prodiga nel prescriverne le ricette, ma intimamente infelice. Rousseau e Kant vollero onorare gli uomini in quanto soggetti di vita morale e disprezzarono quella specie di ‘pathos della distanza’ che caratterizzava l’atteggiamento degli intellettuali illuministi verso il popolo. Per l’uno e per l’altro la legge morale, adulterata dai sofismi dei ‘philosophes’, trova invece un’eco immediata e potente nella coscienza della povera gente.
Per Gianfranco Morra non si deve più prescindere quando si parla di illuminismo dalle forti pagine della “Dialettica dell’illuminismo” di Adorno e Horkheimer. A causa del suo intellettualismo astratto, l’illuminismo ha la tendenza a rovesciarsi, a produrre proprio il contrario di ciò che proclama, l’illibertà e l’infelicità. Per quanto possa risultare irritante, l’opera del marchese di Sade si colloca cronologicamente e idealmente nell’illuminismo e ne è insieme la demistificazione e la conclusione. Sade come Voltaire odia il cristianesimo, demonizza il cattolicesimo come ultima mitologia, esalta il piacere aristocratico della critica dissolutrice. Ma Sade va ben oltre Voltaire, pur camminando nella stessa direzione, e coltiva la prassi del sacrilegio, il culto di ciò che è vietato, la libertà della coscienza, la felicità nel vizio. Nelle pagine di Sade rivive un’altra contraddizione dell’illuminismo: l’individualismo più esasperato, che è già nicciano sotto tanti aspetti, si unisce al giacobino dominio dell’universale, del collettivo, della repubblica, dello stato unico padre e padrone dei nati da donna. La felicità degli uomini è stata posta proprio in buone mani!
A nostro avviso anche nell’illuminismo sono intrecciati verità ed errori, e nella sua protesta non mancavano slanci generosi e germi fecondi che un Manzoni o un Capponi seppero individuare e ricollegare alla loro fonte innegabile anche se taciuta, il Vangelo. Solo chi abbia riscoperto e valorizzato il positivo dell’apporto illuministico, può meglio cogliere di quel movimento le promesse non mantenute, gli sviluppi ripugnanti (Sade ha ‘il compito di far inorridire l’illuminismo su se stesso’) e insieme quegli svolgimenti che onorano il cammino umano. Non tutto l’illuminismo può essere però assunto a premessa di un esito unilineare e inevitabile. C’è tuttavia un punto su cui occorre insistere. La raison illuministica tende a porsi come ‘ragione strumentale’, che per meglio estendere il suo dominio su tutti i campi ed accertare il ‘come’ dei fenomeni, espunge dalle modalità della mente umana e dalla cultura la vita interiore, il pascaliano ‘esprit de finesse’, l’interrogazione sul ‘perché’, la domanda metafisica e religiosa. Una tale mentalità, rigorosamente prammatica e funzionalistica, non vede nulla oltre i compiti e i problemi della scienza e della ‘ingegneria sociale’: le sue chiusure teoretiche e pratiche sono troppo soffocanti e intolleranti. L’illuminismo nel suo insieme si configura pertanto come un’ideologia il cui prezzo è troppo alto: la caduta di senso, la perdita di significato della vita per l’uomo. In una prospettiva del genere quale reale differenza di senso e di destino si potrebbe mai stabilire tra l’uomo – un essere senza scopo a cui è nondimeno demandato il compito di elaborare una civiltà dopo l’altra – e le formiche o le termiti, incessantemente anch’esse impegnate a fare e rifare le loro magnifiche e fragili dimore? «Io non posso vivere senza sapere ciò che sono e per quale fine esista, e poiché non posso persuadermi di ciò, la vita mi è impossibile». Queste parole dette da Levine, verso la fine di Anna Karenina, hanno più verità delle orgogliose sicurezze illuministiche.

3. La felicità come compito umano e ‘giustizia di Dio’

Sul finire della guerra Albert Camus nelle sue indimenticabili “Lettere a un amico tedesco” individuava nella inaudita volontà di potenza della Germania hitleriana un crimine che riassumeva tutti gli altri:: la rinuncia alla felicità, al “bonheur”. «In cinque anni non è stato più possibile gioire del trillo degli uccelli nella frescura della sera». Dall’altra parte della barricata, nello stesso tempo, Robert Brasillach dava voce alla stessa aspirazione con una delicatezza appassionata che ancor oggi commuove. «Una parola ci sarà restituita un giorno, una parola che occorrerà proteggere perché è fragile, e che io preferisco veder scritta nel cuore degli uomini piuttosto che sui frontoni degli edifici, una parola che bisognerà non sacrificare più ad altre più inebrianti…: la felicità». Queste due umanissime testimonianze ci dicono che nelle considerazioni degli uomini e nelle loro aspirazioni pratiche il tema della felicità e del piacere è ben presente. Per Ezio Riondato, relatore all’incontro del 1980 tra studiosi di filosofia morale su «presenza o silenzio di felicità e piacere», il primo nemico da smascherare è l’ipocrisia di chi parla della condizione umana e mette il silenziatore su ciò che interessa e tormenta l’uomo. Bisogna passare dal ‘silenzio’, cioè dalla implicazione taciuta o sottaciuta di piacere e felicità, al riconoscimento della loro ‘presenza’. L’unità psicofisica dell’uomo è il primo dato da cui partire per dare ad ogni aspetto della vita il posto che gli è dovuto, senza esasperazioni dualistiche e senza mutilazioni aberranti. L’avvertimento di gradevolezza da parte dell’uomo per qualcosa che lo appaga e lo gratifica è ciò che in primo luogo specifica sia il piacere che la felicità. Il riferimento alla dimensione corporea del piacere è uno degli aspetti costitutivi della felicità umana. Occorre sottrarsi alla fuorviante altalena di un rigorismo disumano e di un edonismo che fa marcire lo stesso piacere e il più elementare e sano gusto di vivere per sazietà e complicatezza di fruizione. La morte del piacere e della felicità è infatti l’esito inevitabile di una teorizzazione e di una prassi dominante dalla assolutizzazione del piacere nelle forme più diverse e aberranti: sadismo, consumismo, pansessualismo, l’istintività capovolta spezzata e autodistrutta, la fuga nella droga, l’autoaffermazione distruttiva di sé e degli altri del nichilista. Al contrario, l’accettazione dell’uomo nella sua ‘unità pluridimensionale’ fa sì che all’interno della ‘dialettica naturalistica dell’avvertimento di gradevole-sgradevole’, prima ancora che nei suoi confronti, si apra il varco una ‘dialettica axiologica’. Infatti, oltre la meccanica delle passioni (Spinoza) e l’aritmetica dei piaceri (Bentham), l’uomo ha bisogno di motiva le sue scelte innanzi tutto ai propri occhi come valore e dunque da perseguirsi perché degne. Conferire il segno del valore all’avvertimento di gradevole-sgradevole significa già non fermarsi all’edonismo e persino capovolgerne il criterio, quando sorga il conflitto, mai auspicabile ma tutt’altro che infrequente, tra ciò che è doveroso fare costi quello che costi e ciò che è semplicemente gradevole. A noi sembra che il punto di arrivo dell’itinerario percorso da Riondato sia chiaramente espresso dall’efficace distinzione tomistica tra il “bonum delectabile” e il “bonum honestum”. Il primo ci vuole, almeno fino al punto che l’espansione della nostra vitalità non soverchi quella degli altri; il secondo è quello che deve avere sempre e comunque il primato. È il sale e il lievito che preserva e potenzia la stessa vitalità – ciò che Nietzsche non vide – nell’atto di umanizzarla.
Termini correlativi inevitabili di piacere e felicità sono pena, sofferenza, male. Ebbene bisogna parlarne in modo esplicito – afferma Romeo Crippa, animatore discreto e signorile del convegno – perché più viva ne risulti la percezione della realtà vissuta e l’impotenza sia delle ideologie che dei grandi sistemi chiusi, come quelli di Spinoza e di Hegel, ad affrontare quel problema. L’impegno a liberare l’uomo dalla sofferenza fisica è una forma di riscatto ed una reale prospettiva di progresso. Vi sono poi le ‘sofferenze evitabili’, la più numerose ed affliggenti forse proprio a causa del loro poter non esserci; educazione, economia, una politica umanista, scienza e tecnica al servizio dell’uomo devono vigorosamente concorrere alla loro eliminazione o progressiva riduzione. Vi è pure la ‘sofferenza cercata’, non in se stessa, ma come condizione in qualche misura ineliminabile di attività in cui l’uomo si esprime: il lavoro, la creazione artistica, la ricerca intellettuale di ogni tipo, lo sport, l’ascesi morale e religiosa. Ma che dire delle ‘sofferenze distruttive’ che rendono insopportabile la vita,che dire delle ‘sofferenze dell’innocente e del giusto’ – i bambini della “Peste” di Camus, il destino di Socrate e di Gesù e di tanti dei loro discepoli e continuatori? Fare dell’ottimismo ad ogni costo, proclamare l’identità di realtà e ragione con Hegel o di virtù e felicità con gli stoici, rifugiarsi nel nulla emotivo o fanatismo ideologico significa non comprendere i termini reali in cui si pone il problema del piacere e della felicità, assai più complesso di quanto non si creda. Senza ‘la giustizia di Dio’, che Kant postula a fondamento ed epilogo del mondo morale, senza l’economia paolina e kantiana a un tempo del ‘regno dei fini’ non si illumina per noi veramente né il dolore, né il dato incoercibile della nostra aspirazione alla felicità.

Humanitas, n. 5 – ottobre 1980. Il testo compreso di note si trova nel file allegato.