Per un’etica della responsabilità

In Europa la questione etica è tornata a riacquistare una drammatica attualità. Tutti avvertiamo, in forme più o meno limpide e consapevoli, che ci troviamo a vivere una fase della storia in cui è in gioco l’avvenire stesso dell’umanità, non di questa o quella parte di essa, ma dell’umanità nel suo complesso, sia di quella parte che vive perennemente nell’indigenza, sia di quella che invece nuota nell’abbondanza, e che rischia di perire oggi sotto il peso del superfluo. È questa consapevolezza largamente diffusa a determinare una vera e propria emergenza del problema etico com’è vissuto dalla coscienza di tanti uomini del nostro tempo, ma anche, e ancor più, com’esso si riflette nel pensiero dei filosofi. Non è un caso infatti che, dopo un’eclisse che sembrava ormai definitiva (e che grosso modo si può far iniziare con la condanna della morale pronunciata da Nietzsche), l’etica torni a sollecitare la riflessione filosofica, che, sia chiaro, è solo una parte, ma tutt’altro che trascurabile, di quello che Hegel definiva lo “spirito del tempo”. Se pertanto vogliamo penetrare più a fondo nello spirito del nostro tempo, è necessario interrogare la filosofia e chiedersi perché il problema etico assilli così intensamente il pensiero contemporaneo.

In particolare c’è una parola che appare ricorrente: responsabilità. Sempre di più si parla oggi di “etica della responsabilità”. Le accezioni di questo termine nella riflessione dei singoli filosofi sono tutt’altro che omogenee, e tuttavia non è una mera coincidenza che esso appaia il più adatto a connotare il senso stesso dell’esperienza etica, la sua paradigmaticità. Non sempre è stato così, e neppure oggi la riflessione etica – che copre aree molto vaste e differenziate del pensiero contemporaneo – è riconducibile sic et simpliciter a questo paradigma. Nondimeno esso appare per molti versi emblematico della situazione del nostro tempo, come quello che ne esprime la tensione più acuta.

A ridare smalto ad un termine per più versi usurato, ad imporlo in certo senso alla riflessione etica più recente, si può dire sia stata un’opera di grande risonanza, almeno in Germania, dov’è apparsa nel 1978, e tradotta recentemente anche in Italia: Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità) di Hans Jonas, che ha come sottotitolo “Un’etica per la società tecnologica”. Il tema della responsabilità costituisce il filo conduttore di una diagnosi della situazione dell’uomo del nostro tempo e delle scelte che esso è chiamato a fare per salvaguardare le condizioni di sopravvivenza dell’umanità futura. Che l’uomo debba salvaguardare tali condizioni, è precisamente l’assunto di Jonas, il senso stesso della responsabilità che scaturisce inevitabilmente dalla diagnosi.

Ma Jonas non è certo l’unico ad appellarsi così intensamente alla responsabilità. Un altro pensatore, apparentato a Jonas dall’appartenenza ebraica Emmanuel Lévinas – certamente una delle voci più ascoltate di questa stagione filosofica – ha posto la responsabilità al centro della sua riflessione, con una radicalità inusitata. Ma questo tema è ricorrente anche in pensatori, anch’essi tra i più significativi del nostro tempo, come Jürgen Habermas e Karl Otto Apel, i teorici della cosiddetta “etica della comunicazione o del discorso”; pensatori certo molto diversi sia da Jonas sia da Lévinas, con i quali tuttavia hanno, per così dire, delle preoccupazioni comuni. La prima e fondamentale è costituita dalla necessità di dare un fondamento all’etica, nel senso di fare dell’etica un’impresa razionale e più specificamente filosofica. Anche in Emmanuel Lévinas, che pure è pensatore saldamente ancorato alla tradizione religiosa dell’ebraismo, la preoccupazione fondativa appare dominante, anche se con modalità necessariamente diverse.

Uno studioso di rango come Walter Schulz, nel concludere la sua ampia ricognizione sulla filosofia contemporanea in un’opera tradotta come Le nuove vie della filosofia contemporanea (ma il cui titolo originale più esattamente suona La filosofia in un mondo mutato), ha colto perfettamente, nella parte conclusiva intitolata appunto Responsabilità, la crucialità di questo tema e delle sue implicazioni. Scrive infatti: “Un’etica adeguata al nostro tempo deve combattere l’illusione che l’uomo un giorno si emancipi, diventi maggiorenne, rifletta su sè stesso e non sia guidato più che dalla ragione, al di là del bene e del male. L’etica deve guardare l’uomo com’è e, ciononostante, fare appello alla sua libertà. Questo appello avrà proprio oggi un significato collegandosi con la ricerca scientifica sulla situazione dell’uomo in generale e in particolare. Ma la ricerca scientifica e la possibile manipolazione tecnologica che si attua partendo da questa non sostituisce la dimensione dell’azione responsabile, che sta sotto i termini fondamentali di “bene e male”. Sono qui ben delineate le coordinate entro cui si pone oggi il problema della responsabilità. Innanzitutto l’illusorietà di un’emancipazione assoluta dell’uomo, “al di là del bene e del male”, secondo la predicazione di Nietzsche. Ogni etica ancorché razionale, si trova necessariamente di fronte ad una scelta tra ciò che sì può chiamare ancora “il bene e il male”, da cui l’azione responsabile non può assolutamente prescindere. Ma responsabile in che senso? Ci sono significati diversi di responsabilità. Da un lato quello che si può far risalire a Max Weber inteso come un “rispondere di…”. Io sono responsabile in quanto rispondo di me stesso, delle conseguenze delle mie azioni, sempre e in ogni circostanza. Lo sfondo della concezione weberiana è costituito dalla sostanziale irrazionalità del reale, per cui al singolo non resta altro che cercare di introdurvi una razionalità mediante, appunto, la propria azione responsabile. Nelle concezioni odierne appare invece prevalente un’altra accezione di responsabilità, essenzialmente come un “rispondere a…” dove dominante non è il rapporto con se stessi ma con gli altri. Il rapporto con l’altro, nel senso dell’intersoggettività, appare dunque determinante. Ciò significa in altri termini il superamento di una visione fondamentalmente solipsitica dell’etica e della responsabilità, per una netta apertura alla socialità o, per usare un termine caro a Lévinas, all”‘esteriorità”.

In questa trasformazione decisivo è stato il superamento del punto di vista coscienzialistico imperante nella filosofia moderna a partire da Cartesio, per il quale la coscienza – che è sempre in definitiva coscienza individuale – finisce per essere il metro di misura valevole in ultima istanza. Ciò non significa evidentemente esonerare la coscienza individuale dall’obbligo della responsabilità, ma richiamarla energicamente al rapporto costitutivo con gli altri, da cui solo fittiziamente può prescindere. In ciò sta, a mio parere, l’elemento veramente unificante delle prospettive qui in esame.

L’idea-forza del Principio responsabilità di Hans Jonas è che il potere della scienza e della tecnica, per la prima volta nella storia dell’umanità, è giunto ad un punto tale da costituire una seria minaccia alla sopravvivenza stessa dell’uomo. La cosa non sembra tuttavia aver determinato una reale presa di coscienza dei comportamenti che l’umanità, nel suo complesso, deve adottare perché il rischio della scomparsa della vita, sulla terra, da pura ipotesi astratta e remota, diventi elemento discriminante nelle scelte individuali e collettive. Anche perché – sottolinea il filosofo – la dinamica dei processi scientifico-tecnologici è tale da provocare un ritardo congenito nella capacità di previsione e di controllo degli effetti, a medio e lungo termine. Donde la tesi centrale del libro: “Le nuove forme e le nuove dimensioni dell’agire esigono un’etica della previsione e della responsabilità in qualche modo proporzionale, altrettanto nuova quanto le eventualità con cui essa ha a che fare”. In sostanza non si tratta più di commisurare le nostre azioni ad una situazione sostanzialmente immutabile, bensì siamo di fronte alla possibilità di esiti devastanti che non abbiamo saputo sufficientemente prevedere. La scienza e la tecnica con i loro effetti cumulativi, si comportano ormai come una seconda natura, che modifica molecolarmente la prima al prezzo di squilibri e reazioni difficilmente prevedibili.

Si pone allora la domanda: l’etica, com’è stata sin qui concepita, è capace di scongiurare l’eventualità di una fine della vita sulla terra? Ed ancora. In nome di che cosa tale eventualità può e dev’essere scongiurata?

Per Jonas occorre innanzitutto prendere coscienza esatta di quella sorta di schizofrenia che governa i comportamenti dell’uomo del XX secolo. Tutti i suoi atti sono volti ad uno sfruttamento intensivo delle risorse della terra, nella convinzione più o meno tacita che esse siano illimitate, comunque tali da assicurare una sopravvivenza indefinita della vita umana. Tuttavia ogni giorno appaiono segni inquietanti che contraddicono questo ottimismo di fondo: le risorse non sono illimitate, l’ecosistema è sottoposto a danni probabilmente irreversibili; ciò che l’uomo produce spasmodicamente per incrementare la propria vita, finisce per ritorcersi contro di essa.

In quest’ottica il problema etico assume una rilevanza e una configurazione inedite. Infatti la nostra responsabilità, per la prima volta, non è più circoscritta ai nostri contemporanei, a coloro cui – almeno in via di principio – si riconoscono diritti pari ai nostri. L’etica classica era fondata su una situazione di sostanziale reciprocità, di equilibrio tra diritti e doveri: i miei diritti finivano dove incominciavano i diritti altrui. Ora non può più essere così. Il potere pressoché assoluto dell’uomo sulla natura, che è al tempo stesso un potere di vita o di morte sull’umanità futura, crea una situazione di sostanziale “non-reciprocità”, che impone un nuovo imperativo categorico: “che ci sia un’umanità”. “Per me, lo confesso – scrive Jonas – questo imperativo è l’unico per il quale valga veramente la determinazione kantiana del categorico, ossia dell’assoluto”. Pertanto nella dicotomia “etica del dovere” / “etica della felicità”, egli si pone decisamente dalla parte della prima. L’uomo del nostro tempo è così richiamato bruscamente alla necessità di contenere il proprio tenore di vita, a prevenire lo sfruttamento forsennato delle risorse, a mettere in atto una strategia di “salvaguardia”.

Ma tutto questo in nome di che cosa? La preservazione della vita umana è un valore tale cui si debba sacrificare la pienezza del presente?

Per Jonas il nuovo imperativo categorico, che comanda il mantenimento della vita sulla terra, non si fonda come quello kantiano sull'”autocoerenza della ragione” ma su una “metafisica in quanto dottrina dell’essere”. In altri termini il diritto dell’umanità futura all’esistenza è inscritto nel principio stesso dell’essere, in forza di cui tutte le cose, l’uomo stesso, esistono. Si avverte in questa concezione l’eco profonda delle affermazioni di Albert Schweitzer, il medico, il filosofo, il musicista, che esprimeva in queste proposizioni il suo afflato etico-religioso: “L’etica è la responsabilità estesa illimitatamente a tutto ciò che vive”; “L’etica è il rispetto della volontà di vivere in me e fuori di me”. E Jonas, dal canto suo: “Mi si chiede spesso: se si è responsabili solo davanti a qualcuno, davanti a chi siamo dunque responsabili? Potrei rispondere: davanti alle generazioni future. Ma se mi si obietta: le generazioni future non esisteranno, allora non c’è nessuno davanti a cui essere responsabile, la mia risposta è questa: siamo responsabili davanti all’essere”.

Il filosofo non si nasconde certo la problematicità di una motivazione di questo genere, tanto da avanzare il dubbio che una vera etica della responsabilità possa darsi solo all’interno di una prospettiva religiosa. Nondimeno essa costituisce una sorta di strada obbligata dacché, come egli scrive, la “categoria del sacro (…) fu distrutta nel modo più radicale dall’illuminismo scientifico”; da quella dialettica dell’illuminismo per molti versi responsabile della situazione attuale.

Allora è chiaro: la responsabilità implica per Jonas una sorte di primato dell’altro in questo caso l’umanità futura, di chi ancora è nel seno dell’essere ma non per questo possiede meno diritti. Sì tratta dunque essenzialmente di un “rispondere a…”, in una dimensione in cui il futuro si definisce a partire dal presente, dalle scelte che noi uomini d’oggi siamo chiamati a fare. Da qui l’antiutopismo del pensiero di Jonas, il rifiuto di una visione faustiana e prometeica, che fa perdere all’uomo ogni senso del limite nel rapporto con la natura e con gli altri uomini. Diverso è il principio della responsabilità per Emanuel. Lévinas, o meglio, diverse sono le coordinate entro cui viene definito. La responsabilità, se si vuole, scaturisce per Lévinas da un’immediatezza, dalla “dirittura” del rapporto con l’altro. L’altro è il “Volto”, essenzialmente due occhi che mi guardano e che, al tempo stesso, m’implorano di non ucciderlo. Tutto il resto nasce da qui, da questa relazione fondamentale. Il rapporto etico è riconducibile a questa immediatezza, presupposto di ogni mediazione e di ogni discorso. Solo perché c’è l’altro, c’è un io e c’è il discorso, quel legame che ci vincola agli altri in maniera originarla e indissolubile. L’altro mi interpella, e con il suo interpellarmi mi fa essere. In ciò consiste per Lévinas l’asimmetria del rapporto etico, specchio di quella più ampia asimmetria per cui la Legge – parola che Dio ha rivolto all’uomo viene prima e fonda la possibilità stessa della parola umana. L’etica è così la “filosofia prima”.

In ciò consiste per Lévinas il significato autenticamente filosofico dell’esperienza religiosa ebraica, cui egli impronta tutta la sua riflessione: “l’etica è il modello a misura della trascendenza ed è come kerygma etico che la Bibbia è rivelazione”. L'”etica come filosofia prima” intende quindi rovesciare il rapporto tra metafisica ed etica: è l’etica infatti a “fondare” la metafisica, non viceversa. In un certo senso si può dire che sia proprio il diverso atteggiamento di Lévinas e di Jonas nei confronti della comune appartenenza ebraica e del suo retaggio a marcare la differenza del loro pensiero. In Jonas il rapporto con tale esperienza appare molto indiretto e, tutto sommato, secondario. Si direbbe che per lui la parola della Bibbia costituisca un semplice paradigma interpretativo, come se essa fosse vera, perché solo nella sua prospettiva diventa possibile salvaguardare compiutamente la dignità dell’uomo. Per Lévinas essa è molto di più. Tutto il suo sforzo di pensiero si può leggere infatti come una sorta di “trascrizione”, di decifrazione in chiave filosofica della Parola originaria, a partire dalla quale il pensare stesso diventa possibile, e con esso la verità e il senso.

Ciò non comporta tuttavia per Lévinas una preliminare opzione di tipo religioso (del resto, dal suo punto di vista, l’alternativa stessa tra discorso filosofico e opzione religiosa appare decisamente fuorviante), bensì il riconoscimento che solo a queste condizioni il non-uccidere diventa realtà, e con esso la possibilità del discorso e del senso. Solo se l’io non parte da sé, il mondo può aprirsi, e l’apertura originaria si dà nell’incontro con gli altri, l’Altro, l’Infinito.

Per il filosofo francese l’eticità non è mai disincarnata, compressa in un’astratta adesione all’imperativo della ragione universale; essa si attua piuttosto nel concreto dell’economia, in quel mondo “in cui bisogna soccorrere e dare”. Dio e prossimo, Infinito e Volto appartengono ad un’unica costellazione che, in una parola, viene definita l’esteriorità. Come scrive il filosofo “Avere un fuori, ascoltare ciò che viene da fuori – oh meraviglia dell’esteriorità! E’ ciò che si chiama conoscenza o Torà“.

Questa la responsabilità nella forte accezione di Emmanuel Lévinas, che, nella sua radicalità appare qualcosa di difficilmente comparabile e, tuttavia, decisamente emblematico dell’indigenza e della tensione del nostro tempo. Si legga: “Responsabilità per altri, per il primo venuto nella nudità del suo volto. Responsabilità oltre quanto io posso aver fatto o non fatto rispetto ad altri e oltre tutto quanto avrà potuto o non avrà potuto essere opera mia, come se io fossi votato all’altro uomo prima di essere votato a me stesso. O più esattamente come se io avessi da rispondere della morte dell’altro prima di aver da essere. (..) Responsabilità che precede la mia libertà – prima di ogni cominciamento in me, prima di ogni presente. Fraternità nell’estrema separazione”.

La preoccupazione che abbiamo chiamato “fondativa” è particolarmente accentuata nell’etica della comunicazione e del discorso di J. Habermas e K.O.. Apel, variante estremamente sintomatica dell’attuale etica della responsabilità. Il tema della responsabilità è ricorrente nella riflessione dei due pensatori, come indica lo stesso scritto, in certo modo programmatico, Il problema della fondazione di un’etica della responsabilità nell’epoca della scienza di Karl Otto Apel. La preoccupazione di una fondazione dell’etica discende dalla necessità, formulata in termini kantiani, di rinvenire un principio a priori posto alla base dell’agire e che ne garantisca la moralità. Tale principio non può essere che di natura razionale, dato che solo a questa condizione può escludere la necessità di opzioni previe di ordine ideologico o religioso. Un’etica religiosa, quindi, nella misura in cui presuppone un atto di fede di natura extra-razionale non può garantire, a giudizio dei due pensatori, una tale fondazione.

L’autonomia della morale kantiana, tutta imperniata sul principio aprioristico del dovere, che ne esprime l’intrinseca coerenza e razionalità, rivive, con le debite differenze, nella distinzione habermasiana tra agire strumentale e agire comunicativo, e nel principio della comunità illimitata della comunicazione teorizzato da Apel.

Con una differenza fondamentale, dovuta al fatto che non ci muoviamo più, come in Kant, nella dimensione solipsistica della coscienza individuale, ma su un piano originariamente, costitutivamente intersoggettivo.

L’agire comunicativo, a differenza dell’agire strumentale, comprende tutte quelle modalità di rapporto con gli altri non finalizzate ad uno scopo; esso realizza quindi la più ampia sfera dell’interazione sociale, che sfugge alla razionalità puramente strategica. Scrive Habermas nel suo linguaggio notoriamente irto: “Chiamo comunicative quelle interazioni nelle quali i partecipanti coordinano di comune accordo i loro piani d’azione; qui l’accordo di volta in volta raggiunto si commisura in base al riconoscimento intersoggettivo delle pretese di validità. Nel caso di processi di intesa esplicitamente linguistici, gli attori con le loro azioni linguistiche in quanto si intendono fra di loro su qualcosa, elevano pretese di validità, e cioè pretese di verità, pretese di giustezza e pretese di veracità (…). Mentre nell’agire strategico uno influisce su un altro empiricamente, con la minaccia di sanzioni o la prospettiva di gratificazioni per indurlo alla desiderata continuazione dell’interazione, nell’agire comunicativo uno viene razionalmente motivato dall’altro a un’azione concordata, e ciò in virtù dell’effetto illocutivo di collegamento che è proprio di una proposta linguistica”. Da ciò deriva per il filosofo l’insufficienza di ogni prospettiva pragmatistica, ma anche di quella marxiana, che ha posto tutto l’accento sulla dimensione dell’agire strumentale o strategico a scapito dell’agire comunicativo.

Il passaggio da una prospettiva di tipo coscienzialistico a quella di tipo comunicativo è stato reso possibile da quell’evento, tipicamente novecentesco, che va sotto il nome di “svolta linguistica”. Con essa il linguaggio ha finito di essere considerato un semplice “strumento”, per diventare il medium centrale della comunicazione. Il linguaggio diventa così il luogo stesso dell’interazione umana, laddove il senso e il significato si istituiscono e si rendono comunicabili. Il primato del linguaggio sulla coscienza implica la priorità della comunità dei parlanti a scapito di una visione puramente atomistica e convenzionalistica del rapporto sociale. La comunità dei parlanti diventa così il fondamento stesso dell’interazione, di cui quella sociale costituisce solo un aspetto parziale e derivato. L’apeliana comunità ideale della comunicazione è il principio che regola idealmente i rapporti tra gli uomini, anche quelli sociali. La razionalità di questi rapporti – che, sia chiaro, non è un dato, ma sempre un compito – comporta il riconoscimento delle regole procedurali che li informano. Tali regole non sono fissate astrattamente, convenzionalmente, in quanto si trovano alla base stessa del rapporto dialogico. Questo si regge sul fatto che i parlanti accettano tacitamente di entrare in relazione. L’impegno che ne discende costituisce la serietà del dialogo; non c’è dialogo ove non c’è impegno a condurlo nel rispetto delle regole che lo vincolano. Per questa ragione Habermas, nei suoi scritti più recenti, è giunto a parlare di un'”etica del discorso”. Nel caso del discorso le regole sono date dall’istituirsi del discorso stesso, pena cadere in quella che Apel definisce l'”autocontraddizione performativa”, ossia nello smentire di fatto ogni possibile affermazione che, in quanto tale, aspira ad una validità incondizionata. Il principio della comunità illimitata della comunicazione diventa pertanto il criterio per combattere gli impedimenti e le distorsioni della comunicazione stessa: tutti i parlanti sono potenzialmente pari, ma una serie di ostacoli di natura politica, sociale, ecc., può impedire nei fatti la comunicazione riuscita. La “comunicazione libera da vincoli” funge così da idea regolativa in senso kantiano e, al tempo stesso, da principio trascendentale di ogni etica del discorso. In tal modo essa si riallaccia agli intenti della “teoria critica”, il cui obiettivo era fondamentalmente emancipativo. Prosegue così per Habermas la realizzazione di quel “progetto incompiuto della modernità” – com’egli l’ha definito – che non comporta l’abbandono della ragione illuministica ma la sua integrale attuazione nel senso della socialità e dell’intersoggettività.

Certo una prospettiva di questo genere può apparire, ed è apparsa a molti, illuministica nel senso deteriore del termine, come se ignorasse o volesse deliberatamente rimuovere tutto ciò che nell’uomo si oppone al principio della razionalità e universalità del discorso: le lotte, le contraddizioni, le lacerazioni entro l’uomo e nel suo rapporto con gli altri. Di fronte alle immani tragedie della storia, che sembrano anche ai nostri giorni non aver termine, viene quasi da ripetere l’accusa che da sempre accompagna i filosofi, di vivere tra le nuvole. Che tuttavia non sia così, si capisce da una comprensione più precisa dell’etica della comunicazione che, non a caso, chiama direttamente in causa la responsabilità. Il discorso è una responsabilità e una scelta al tempo stesso, oltre le quali non ci sono che le armi, la sopraffazione reciproca. Quale altra possibilità di far tacere le armi, se non il “discorso” nel senso forte del termine? Lo sguardo che implora di non uccidere di cui ci parla Lévinas, ha immediatamente bisogno di tradursi in discorso, in un movimento di domanda e di risposta. Il fatto che le armi abbiano tragicamente la meglio su ogni discorso non è una ragione sufficiente per rinunciarvi; anche quando si imbracciano le armi per far tacere le armi assassine, alla fine è per restaurare le condizioni di un discorso possibile. La “comunità illimitata della comunicazione”, al di là di una certa asetticità della formula, costituisce una prospettiva irrinunciabile per l’uomo che voglia, nonostante tutto, continuare ad essere tale.

La “comunità della comunicazione” si fonda sul riconoscimento di un principio “argomentativamente intrascendibile”, in sostanza su quell’autoevidenza della ragione che si manifesta nell’inconfutabilità stessa delle regole in base a cui si argomenta, magari per negare la validità del discorso stesso.E’, se si vuole, un principio puramente formale ma, a ben vedere, costituisce il presupposto di ogni nostro agire e sperare. Certo, se è vero che il principio della comunità illimitata della comunicazione comprende potenzialmente tutti gli attori possibili, di fatto – lo sappiamo bene – molti ne sono esclusi e, in ogni caso, non esiste mai la garanzia che anche il discorso tendenzialmente più universalistico, nei fatti non sia altro che la copertura di interessi particolari. Così è stato e così continuerà ad essere. Ma, come ci ha insegnato lo stesso Habermas, la “critica” è appunto il potere del discorso di svelare le ipocrisie del discorso stesso; ancora e inevitabilmente discorso, quindi. Pertanto, come ha ben scritto Roberto Mancini nel suo Comunicazione come ecumene, “diventa capace di universalità solo una prospettiva etica che si nutra dell’ascolto del ‘Tu’ e, in generale, di un ascolto antropologico che fa attenzione al carico di umanità ospitato nei popoli e nelle culture”. In questo modo, la prima sfida che un’etica della responsabilità è chiamata oggi a raccogliere è quella di assumere una prospettiva planetaria. Ciò è assolutamente chiaro nella prospettiva di Habermas e Apel, ma lo è altrettanto in quella di Hans Jonas e, in forma diversa, in quella di Lévinas. La crisi dell’etica tradizionale è stata in un certo senso la crisi di una visione eurocentrica e logocentrica del mondo, che ha comportate una chiusura dell’Io su se stesso e l’impossibilità di far spazio all’altro, nel senso forte del termine. Habermas ha parlato dell’illuminismo come di un “progetto incompiuto”, altri ne parlano come di “progetto mancato”. In ogni caso, se la risposta non può essere trovata fuori della ragione, si tratta tuttavia di una ragione radicalmente trasformata, capace di comprendere in sé – sono ancora parole di Mancini – “le evidenze antropologiche della convivenza e della trascendenza degli esseri umani”.

Credo pertanto che non sia possibile né particolarmente fecondo distinguere nettamente ciò che è proprio di una fede religiosa da ciò che appartiene esclusivamente ad una visione filosofica del mondo. Nella misura in cui la fede si alimenta essa stessa di profonde ragioni (e in ogni visione filosofica si cela un nucleo che, secondo un’espressione kantiana, può definirsi una ”fede razionale”), essa è capace di dare un contributo determinante alla costruzione di un’etica universalistica della responsabilità. Da questo punto di vista mi pare che la prospettiva cristiana, nonché contraddire, è capace di assumere e integrare profondamente la prospettiva filosofica. E’ in questa ottica che si muove il contributo della riflessione teologica più recente, di cui Hans Küng ci dato un saggio con il suo Progetto per un’etica mondiale. Per lui un’etica mondiale, qual è ormai prescritta dalla situazione storica, non può che avere un fondamento religioso, e tale fondamento non può che trovarsi nella pace e nella comprensione delle grandi religioni mondiali. Una prospettiva etica tutta incentrata sul singolo e sul presente appare assolutamente incapace di fronteggiare la complessità delle crisi attuali. “L’etica – scrive Küng – che nella modernità veniva considerata in misura crescente come un affare privato, nel postmoderno – per il bene dell’uomo e la sopravvivenza dell’umanità – deve tornare ad essere di nuovo un’esigenza pubblica di primaria importanza”. E’ possibile una costruzione su scala planetaria dell’etica, senza un fondamento di natura religiosa? No, secondo il teologo. Con il che non intende escludere da tale costruzione tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti, ma affermare semplicemente che solo la fede religiosa può dare un sicuro fondamento all’umano. Ciò perché, com’egli scrive, “L’uomo senza religione, anche se dovesse seguire norme morali incondizionate, non può fare una cosa: fondare l’incondizionatezza e l’universalità dell’obbligazione etica“.

Il vero fondamento della pace mondiale è costituito dalla pace religiosa, e questa non può esserci se non si afferma lo spirito di dialogo; dialogo tra le grandi religioni mondiali, dialogo tra chi crede e chi non crede. Le religioni, come la storia c’insegna, possono essere non meno pericolose delle ideologie, quando, da principio di comprensione e di affratellamento, diventano strumento di divisione e di sopraffazione. Ma vero dialogo può esserci solo a partire dalla propria identità; nessuno deve rinunciare ad essere quello che è, ma ciò è possibile solo all’interno di un processo in cui l’Io e l’Altro, l’identità e la differenza possano essere salvaguardati, in una visione etica che sia – scrive ancora W. Schulz – non “un lusso estraneo alla vita, come in parte si pensa oggi, ma una dura necessità”.

Nota: trascrizione della conferenza rivista dall’Autore.