Platone

«Da Platone ha origine tutto ciò che si scrive e si discute tuttora fra gli uomini di pensiero» (R. W. Emerson)

Personalità e opere

Aristocle, che passò alla storia con il nome di Platone («dalle larghe spalle»), vissuto tra il 427 e il 347 a. C., fu il più grande discepolo e continuatore di Socrate, il suo vero capolavoro.

Socrate è il protagonista di quasi tutti i dialoghi di Platone, che non si stancò mai di illustrare il significato vitale del messaggio, della personalità e del metodo del maestro, dall’opera prima, l’Apologia, alla commossa rievocazione del Teeteto, così che la più originale e la più bella filosofia del mondo greco è nata da un atto di rinnovata e profonda fedeltà, una fedeltà non di ripetizione parassitaria, ma di approfondimento e di sviluppo. Il platonismo è un costitutivo essenziale della civiltà occidentale.

La sua essenza sta nell’affermazione del Trascendente, o Verità in sé, come valore assoluto e oggettivo, come principio e causa finale della realtà naturale e della vita umana. La presenza dell’idea alla mente, comunque sia interpretata, è tesi essenziale al platonismo, ed è ciò che fa la profondità dell’uomo, la sua interiorità; essa fonda l’aspirazione dell’anima all’Assoluto, al Bene sommo, e l’intuizione intellettiva o noetica che rende possibile l’esperire e il conoscere universale oggettivo.

Platone non dissimula il pathos della ricerca, ma lo descrive con inarrivabile forza di penetrazione e lo comunica al lettore, in un sistema sempre aperto a ogni revisione. Platone scrive con slancio appassionato e con arte sovrana, rappresentando i conflitti fra le idee come un conflitto di caratteri ritratti dal vivo.

L’ispirazione orfico-pitagorica, la dottrina della preesistenza dell’anima e della metempsicosi, le oscillazioni della ricerca su alcuni temi di fondo, il dualismo anima-corpo reso celebre dal Fedone, il presupposto innatistico vanno richiamati, come aspetti caratterizzanti del platonismo, senza dimenticare, però, quegli apporti correttivi e integrativi che l’infaticabile Platone ci dà nei dialoghi della revisione del sistema (soprattutto nel Sofista, nel Politico, nel Timeo, nel Parmenide, nel Filebo).

Il fatto è che, quali che siano le difficoltà del platonismo come sistema, innumerevoli sono le suggestioni feconde e le verità in cui Platone ci fa da guida. E anche quando il suo genio sfiora problemi troppo ardui, egli non chiude la speculazione in schemi di illusoria chiarezza e non rinuncia a toccare i limiti dell’inesprimibile, proponendo la soluzione intravvista dalla ragione in forma di verosimiglianza e di mito, perché non ancora pienamente concettualizzate.

Molti dialoghi platonici si concludono con risultati negativi o dubitativi.

I dialoghi negativi non sottointendono conclusioni celate (Francesco Acri), non danno largo margine alla ricerca del lettore (Heinrich Gomperz), non costituiscono un lavoro di Sisifo; ma sono una chiara impostazione storica e dottrinale dei problemi e sgombrano il terreno da soluzioni false, quantunque la verità sia ancora colta parzialmente e in aenigmate.

Le opere di Platone sono state classificate in quattro gruppi: i dialoghi di illustrazione del pensiero socratico e di polemica antisofistica (Apologia, Eutífrone, Protagora, Gorgia, ecc.), i dialoghi del periodo centrale, (Cratilo, Simposio, Fedone, Clitofonte), i dialoghi della sintesi sistematica e del ritorno critico (Repubblica, Fedro, Teeteto, Parmenide), i dialoghi dialettici e della vecchiaia (Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi).

Invito alla lettura di Platone[1]

Ralph Waldo Emerson, il più affascinante pensatore statunitense del XIX secolo, nel 1845 – 1846, tenne una serie di conferenze su Uomini rappresentativi. Quelle conferenze furono raccolte in un volume che ebbe vasta risonanza e nelle pagine dedicate a Platone si legge: «Da lui ha origine tutto ciò che si scrive e si discute tuttora tra gli uomini di pensiero». È vero, la conoscenza di Platone è fondamentale, è qualcosa da cui non si può prescindere. Egli non è certamente la filosofia, come pure qualcuno ha scritto, perché nessun uomo potrà mai esaurire le conquiste dell’umana ricerca del vero, ma non è difficile consentire con il Reinach e il Reale che vedono in lui il filosofo per eccellenza, «il più grande filosofo in assoluto». La lettura dei suoi scritti è quindi un passaggio obbligatorio ed insieme un’esperienza esaltante, almeno per quanti hanno compreso che tutti in un certo senso debbono farsi filosofi nella misura in cui vogliono diventare veramente uomini. Occorrerebbe cominciare con i dialoghi di illustrazione e difesa di Socrate, come quelli interpretati da Romano Guardini in uno dei suoi scritti più belli, La morte di Socrate, tradotto in italiano dalla Morcelliana, e poi gradualmente risalire ai dialoghi della sintesi sistematica: Repubblica, Fedro, Fedone, Simposio, Teeteto. Coloro che vogliano infine esplorare il Platone dialettico e della revisione del sistema dovranno fare i conti con le ultime opere della sua vigorosa vecchiaia, che sono però di non facile lettura. Un’analisi chiarissima e organica di tutti gli scritti platonici ci viene data nello stupendo volume, Platone – L’uomo e l’opera, di Alfred Edward Taylor, pubblicato in italiano da La Nuova Italia di Firenze. Ed è un vero godimento starsene in compagnia dei due volumi, Studi platonici, di Hans Georg Gadamer, editi dalla Marietti, così come del Platone – Alla ricerca della sapienza segreta, di Giovanni Reale, pubblicato da Rizzoli.

Il suo nome vero sarebbe stato Aristocle, ma dai contemporanei e dai posteri fu chiamato Platone, che significa largo: largo per il suo grande volto e l’imponenza del suo aspetto, essendo un vero e proprio «fusto», o come altri dicono per l’eccezionale vastità del suo spirito. L’arco cronologico della sua vita è compreso tra il 427 e il 347 a. C. e quando Socrate fu messo a morte, nel 399, Platone aveva ventotto anni. Scrisse allora la sua opera prima, l’Apologia di Socrate. L’incontro tra i due – decisivo per i loro destini personali, ma anche per quelli della civiltà occidentale e del mondo intero – era avvenuto un decennio prima. Diogene Laerzio ne parla in questi termini: «Si racconta che Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, che mise subito le ali, volò via e cantò dolcemente, e che il giorno successivo si presentò a lui Platone, ed egli disse che quel piccolo cigno era proprio lui» (Vite dei filosofi, III, 5). Platone fu in effetti il più geniale discepolo e continuatore di Socrate, il suo più alto capolavoro; ed è inevitabile chiedersi che cosa mai sarebbe giunto a noi di Socrate senza la testimonianza appassionata di un discepolo come Platone.

L’insegnamento e la tragica morte di Socrate costituirono per Platone il più grande pungolo, ma anche il più alto dramma. Un padre è assassinato, non un padre secondo il sangue, ma un padre secondo lo spirito: un uomo che è stato incomparabile maestro di sapienza e padre della parte migliore dell’anima. Ma c’è di più: con Socrate viene ucciso il giusto, e non cade vittima di un delitto, o di un tradimento interessato, ma in forza di una solenne sentenza pubblica emanata da un potere legittimo, nella democrazia ateniese. Egli è stato ucciso non per delle colpe, ma proprio per la sua giustizia, per la sua indomita decisione nell’assolvere fino in fondo il proprio dovere. La tragedia sta nel fatto che la migliore società umana del tempo, Atene, non aveva potuto sopportare la testimonianza nuda e semplice di un giusto. La vita sociale si era, dunque, rivelata incompatibile con la coscienza personale e la morte era il risultato inevitabile per un uomo come Socrate. La tragica forza di questa situazione fu colta in tutto il suo significato da un’individualità elevata e ricca come quella di Platone.

LA DOTTRINA DELLE IDEE

La seconda navigazione

Nel Fedone platonico la «seconda navigazione» è la metafora a cui ricorre Socrate quando, abbozzando la sua autobiografia intellettuale, mette in forte risalto come evento decisivo della sua vita il passaggio da un tipo di spiegazione della realtà a un altro. Il primo livello è quello delle opinioni comuni, per cui non si dà causa che non sia fisica e meccanica. I primi filosofi, quelli che saranno designati appunto come «naturalisti», teorizzano quelle opinioni e sono prigionieri delle apparenze sensibili; Anassagora, però, orienta la filosofia greca verso una luce superiore, ponendo nell’Intelligenza divina il principio, la regola e il fine di tutti gli esseri. Al giovane Socrate pare che dal filosofo ionico gli sia venuta la risposta che attendeva, ma un esame più attento della dottrina di Anassagora lo porta a disilludersi: la teoria del Nous non ha mantenuto le promesse, perché anch’essa si affida alle cause meccaniche per spiegare la razionalità dell’universo.

Di qui la decisione di prendere una nuova via: occorre aprire la riflessione teoretica all’esperienza spirituale, inaugurando così quell’altro modo di filosofare, che nel Fedone è chiamato «seconda navigazione». La «prima navigazione» si fa con le vele al vento ed è più facile, perché si affida a ciò che appare reale in quanto dato a noi sensibilmente. Ma quando i venti calano, o cessano del tutto, cioè quando si diventa consapevoli delle insufficienze di quel tipo di spiegazione della realtà, allora bisogna riprendere la navigazione, ma questa volta con i remi, cioè con sforzo personale, con più fatica e impegno. È la «seconda navigazione», appunto, quella che non si lascia guidare dalle apparenze sensibili, ma fonda il nuovo metodo e le sue possibili conquiste sulla critica dell’esperienza sensibile, sul ragionamento e sull’uso consapevole dei principi primi.

Nel Fedone Socrate si serve di due esempi per chiarire in che cosa effettivamente consiste la «seconda navigazione». Il vecchio filosofo è in carcere, e discute con gli amici sul destino che di lì a poco gli sarà riservato; ma a chi verrà mai in mente di spiegare quelle conversazioni adducendo cause come la voce, l’aria, l’udito ed infinite altre dello stesso tipo? La volontà stessa di cercare insieme una qualche luce sul problema «se e quale vita c’è dopo la morte», il significato delle cose dette e l’eventuale grado di verità a cui si sarà pervenuti sono tutte cose che appartengono a un altro ordine: bisogna prendere atto che quest’ordine è distinto da quello in cui rientrano i mezzi che rendono possibile il parlare e l’ascoltare.

Chi poi si chiedesse – ed è il secondo esempio – perché mai Socrate sta in carcere, invece di fuggire a Mégara o in Beozia, come vorrebbero amici e nemici, pronuncerebbe ridicolaggini assurde se dicesse che il vecchio ateniese è lì dove si trova perché se ne sta seduto sopra una panca, perché il suo corpo è fatto di ossa e di nervi e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi, e via dicendo. «Chiamare causa cose come queste è del tutto fuori luogo. Se uno dicesse che, senza queste cose, cioè ossa nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio quello che faccio solo a causa di esse e che, così facendo, io agisco con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta di ciò che è meglio, costui ragionerebbe con grandissima superficialità. Una cosa, infatti, è la vera causa e un’altra è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa».

La vera causa, dunque, la causa reale della condotta di Socrate è per Platone la scelta di ciò che è giusto, del «meglio»: quella scelta egli l’ha compiuta con il suo logos, che comanda sempre di agire in obbedienza al valore più alto, il solo a cui l’intelligenza deve orientarsi. Per noi volere il bene è una conquista, per Dio è la sua stessa essenza.

Platone nelle pagine del Fedone (97 c – 99 d), che abbiamo cercato di rendere nei loro passaggi essenziali, mostra l’impossibilità di una spiegazione esclusivamente materialistica dell’agire di Socrate, e con ciò prova la duplice dimensione dell’io, anima spirituale e corpo; ma prospetta, altresì, la possibilità di concepire in modo analogo l’azione del Logos divino. Platone elabora la dottrina delle idee e dei primi principi per meglio garantire la svolta metafisica e metodologica del maestro; altri, nel corso dei secoli, percorreranno anch’essi le vie della «seconda navigazione», ma sviluppando dottrine diverse da quelle del geniale discepolo di Socrate.

Esistenza delle idee

Superare l’estremo mobilismo eracliteo e spiegare la possibilità di quel fatto indubitabile che è la conoscenza: questo è il compito che Platone intende risolvere con la dottrina delle idee. Platone, da giovane, prima di Socrate, frequentò Cratilo, seguace di Eraclito e studiò il filosofo di Efeso.

  1. Le cause non divenienti da divenire

Cratilo dice che nessuna affermazione è possibile, poiché, pronunciando un giudizio, consideriamo qualcosa come fisso; invece tutto si muove ed è impossibile la verità intorno a ciò che si muta senza posa. Eraclito ha errato dicendo che non si può immergere il piede due volte nello stesso fiume, poiché non è lecito neppure dir che vi si può immergerlo una volta sola. Non si deve proferir parola; «bisogna contentarsi di muovere il dito».

Platone sente che quanto afferma Cratilo è inammissibile. Ma come liberarsi dall’universale inconcludenza a cui conduce il mobilismo assoluto?

Senza dubbio il mondo sensibile è il regno del nascere e del perire, del cambiamento, del divenire, del passaggio dal non essere all’essere e la dottrina di Eraclito vale effettivamente a questo livello.

Ogni uomo (Simposio) si rinnova continuamente e va morendo: nei capelli, nella carne, nelle ossa, nel sangue e nel corpo tutto. Né egli muta solo nel corpo, ma anche nell’anima: infatti i modi, le consuetudini, le opinioni, i desideri, i piaceri e i dolori, i timori, i suoi stati tutti cambiano. Perpetuamente l’oblio cancella e la memoria poi richiama in vita i fatti di conoscenza.

Tale è la sorte di quanto è mortale.

Tutte le cose sono soggette a perpetua vicenda: cose non mai le stesse, né rispetto a se stesse, né rispetto ad altro.

Ma di contro a questo flusso incessante del divenire, bisogna affermare che vi è una scaturigine eterna del divenire stesso. Se tutto mutasse di continuo, nulla sarebbe conoscibile: la conoscenza sarebbe impossibile sia riguardo all’oggetto, sia riguardo al soggetto conoscente. Se tutto si muovesse e mutasse, ogni risposta su qualunque oggetto, sia quella che affermasse, sia quella che negasse che una realtà è in una data maniera piuttosto che in un’altra, sarebbe giusta: in altri termini, non varrebbe più il principio di non contraddizione, il che vorrebbe dire che sarebbe distrutta la razionalità stessa e saremmo entrati nel mondo della pazzia.

  1. Pensare il quid di ciò che è perito

In realtà quando noi pensiamo «uomo», ad esempio, concepiamo qualcosa che esiste, sì, ma che non appartiene a cose particolari, giacché il perire di queste non toglie che la nozione che noi ne abbiamo continui a essere e a esistere senza mutamento. Ma, se così è, è evidente che bisogna ammettere come realtà distinta dalle cose particolari e sensibili quel quid che noi possiamo pensare e quando tali cose sussistono e quando non sono più, giacché noi allora pensiamo la loro forma specifica o idea (Questo argomento è detto da Aristotele «il pensare un quid di ciò che è perito»).

  1. È necessario pensare l’unità del molteplice distinta dagli esseri come individui che ne partecipano

Un’altra prova riguarda l’unità del molteplice. Se ciascuno dei molti uomini è uomo, e ciascuno degli animali è animale e via di seguito, e se questo attributo è, in ciascun caso particolare, affermato non di se stesso, ma di tutti gli individui, pur non essendo identico a nessuno in particolare, bisognerà ammettere qualcosa che sia fuori di tutti questi esseri particolari, se ne distingue e sia eterno, cioè l’attributo sempre identico a se stesso di questi individui mutevoli.

Ora, l’idea è ciò che è l’unità d’una pluralità ed è separata da tale pluralità. Dunque vi sono idee.

  1. La natura della scienza e del suo oggetto

Un’altra prova è ricavata dalla natura della scienza e dal suo oggetto.

La scienza si riferisce ad un oggetto che esiste (ciò che non è, è infatti del tutto inconoscibile) ed ha tre precisi connotati:

– è universale, perché uno e identico, non confondibile con questo o quell’oggetto particolare (per es. il ragionamento geometrico riguarda l’essenza del triangolo, non questo o quel triangolo particolare);

– è determinato, proprio perché distinto dalle cose particolari innumerevoli e indeterminate e perché logicamente determinabile e distinguibile da ciò che è altro;

– è assoluto, qualcosa d’uno in sé, quali che siano le innumerevoli applicazioni o possibili partecipazioni (una cosa bella esiste non solo come cosa, ma come bellezza e la bellezza si aggiunge ad essa nell’essere medesimo e non fuori di esso; e, d’altra parte, quella cosa bella che sperimentiamo è una realizzazione finita di un valore infinito, assoluto, integrale).

Vi sono dunque verità, valori, realtà intelligibili distinte da ciò di cui sono causa e fine. Le idee sono gli intelligibili assoluti.

«Si intendono, ma non si vedono» (Repubblica, VI). Agiscono non imprimendo un urto ai corpi, come le cause-forza della fisica, ma solo come luci dell’intelletto e come fini del nostro operare. Sono eterne: «delle idee non si dà artefice» (Proclo). L’idea non è l’atto o il processo, ma l’oggetto del pensare secondo verità.

Rapporto tra idee e mondo sensibile

Platone concepì variamente il rapporto tra i due mondi, adoperando una serie di metafore, che tradiscono l’insoddisfazione e forse la frustrazione della sua aspirazione a precisare il rapporto stesso.

Ora egli parla di imitazione, nel senso che le cose imitano imperfettamente le idee, ora di partecipazione, in quanto le cose stesse parteciperebbero della realtà delle idee, ora di presenza, in quanto nelle cose sarebbero presenti in qualche modo le idee.

Il problema tormentò il genio speculativo di Platone fino alle ultime opere: egli stesso si pone nel Parmenide le difficoltà che furono avanzate da Aristotele e altri, contemporanei e posteriori. Nel Timeo cercherà di risolvere il problema con il mito del Dio artefice (Demiurgo), che modella sulle eterne idee la materia informe, substrato del mondo sensibile, plasmandola come lo scultore plasma l’argilla, guardando al modello vivente della statua che si propone di creare.

Ma se Platone non superò la difficoltà della sua concezione, questa resta il documento di una delle più profonde aspirazioni dell’animo umano.

La concezione del Demiurgo rinvia al supremo principio metafisico, a Dio, non un Dio creatore, ma certamente un Dio che plasma tutto ciò che è, l’ordina a un fine che è il bene stesso.

«Demiurgo è Dio che sempre è, artefice buono e senza invidia, che desidera comunicare il bene alle sue produzioni. È l’ordinatore provvidente, la mente suprema che ha potere di causa». «Egli è il vivente, venerabile e santo, in sé pienamente in atto» (Sofista, 35 – 49).

Il Demiurgo agisce «senza invidia»: è ciò che non è stato capito dall’ateismo postulatorio del nostro tempo, secondo il quale il rapporto tra l’uomo e Dio è mitologicamente raffigurato come quello tra Giove e Prometeo (mors tua vita mea; occorre proclamare la morte di Dio per celebrare la libertà dell’uomo). L’azione del Demiurgo ha un duplice limite:

– a parte ante dalle idee il cui esasperato oggettivismo fu corretto e criticato dallo stesso Platone, ma lasciando insoluti ancora troppi problemi (rapporto tra le idee e Dio come tra le idee ed il mondo e le idee e lo spirito);

– a parte post dalla materia, preesistente all’azione demiurgica e che concorre alla produzione degli esseri a titolo di concausa, causa errante.

La materia è l’assolutamente indeterminato, ma determinabile.

Secondo molti e autorevoli interpreti Platone ha elaborato una concezione rigidamente teistica (Antonio Rosmini); secondo altri (Luigi Stefanini) Platone non ha identificato esplicitamente Dio con il bene e le idee con i pensieri di Dio.

Rapporto tra le idee e la mente

Nel Fedro l’anima è raffigurata come una biga alata, condotta da un auriga (anima razionale) e trascinata da due cavalli, uno generoso e fiero (anima irascibile), l’altro che si imbizzarrisce facilmente e caparbiamente (anima concupiscibile).

Più che di tre anime, si tratta di facoltà o attività distinte, come chiarisce la Repubblica.

Nel mito del Fedro l’anima, come una biga, trascorre attraverso il cielo, contemplando le divine essenze, le idee, finché alata e perfetta; ma se si lascia trascinare dal cavallo più indocile, perde le ali, si appesantisce e si trasfonde in un corpo terreno.

Secondo la Repubblica sono le anime che scelgono il loro destino terreno (mito di Er). Er, morto in battaglia, risuscita dopo 12 giorni e racconta agli uomini la sorte che li attende dopo la morte. Le anime, al momento della reincarnazione, sono invitate alla scelta, tra i modelli di vita che hanno davanti a loro in gran numero.

Quali i motivi che suggeriscono all’anima la scelta decisiva?

La coscienza di ciò che l’uomo ha voluto essere ed è stato in questa vita. Sarà così che Ulisse sceglierà un modello di vita modesta e oscura, trascurata da tutti, ma cara a lui memore di tanti travagli.

Altre anime scelgono male perché «non sono state provate dalla sofferenza» e si lasciano abbagliare da paradigmi di vita che appaiono allettanti.

La Parca Làchesi, che bandisce la scelta, ne afferma la libertà: «Non è il demone che sceglierà la vostra sorte, ma siete voi che sceglierete il vostro demone. La virtù è libera a tutti; ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia. Ognuno è responsabile del proprio destino» (Repubblica, X, 617 e). Siamo chiusi nelle nostre impressioni immediate e nelle nostre credenze.

Come risalire al fondamento della verità, se questo è al di là di ciò che esperiamo?

Menone, un discepolo di Gorgia, osserva nel dialogo a lui intitolato che: o noi conosciamo già la cosa che cerchiamo, e allora non la «impareremo»; o non la conosciamo, e allora non sappiamo neppure che cosa cercare.

La soluzione di Platone consiste nel dire che, in un certo senso, noi possediamo già, fin dall’inizio, quei principi su cui si fonda la scienza, che perciò non ci vengono dall’esperienza, ma l’esperienza rendono possibile. Però non li possediamo subito chiari ed espliciti di fronte alla mente: per averli presenti, dobbiamo fare uno sforzo, come se fossero sepolti nella memoria, come se si trattasse di rammentarli. Le impressioni sensibili e l’esperienza ci aiutano, semplicemente, a compiere questo sforzo di riflessione.

Noi impariamo dunque per una specie di reminiscenza (anàmnesis), e apprendiamo verità che non derivano dalle sensazioni, ma che le sensazioni risvegliano in noi.

Per questo i principi possono essere immutabili ed esatti, mentre l’esperienza che ce li suggerisce è approssimativa e variabile.

L’apprendere, questo peculiare ed eterno miracolo dello spirito, è un reale sforzo per appropriarsi di una realtà intellegibile e obiettiva (conoscere significa non chiudersi nella prigione delle impressioni soggettive, ma convogliare tutte le energie al pensiero obiettivo), la cui visione si fa chiara a grado a grado nell’intimo e dal profondo dell’animo. Il sapere non può essere meramente mnemonico o meccanico, superficiale; quando sorge, viene alla luce dalle profondità dell’anima. «La ricerca e il sapere non sono altro che reminiscenza» (Menone, 81 d).

Il significato profondo della teoria dell’anàmnesis si può nucleare in due punti.

a) Ciò per cui quello che sperimentiamo fuori di noi ci risulta vero, lo deriviamo dall’intimo di noi stessi, da quel potere specifico che è in noi e che chiamiamo ragione. Non è dal di fuori che deriviamo il valore di verità dell’esperienza; da fuori deriva solo il contenuto delle sensazioni. Senza la ragione ed i principi su cui si fonda la conoscenza razionale e che sono la struttura stessa della ragione, l’esperienza sarebbe per noi muta di verità.

b) Le idee sono trascendenti, ma anche interiormente presenti alla mente (innatismo virtuale). Nel significato specifico di «principi regolatori del pensare» sono costitutive della mente.

Sempre nel Menone Platone distingue tra episteme e doxa. L’opinione non differisce dalla scienza quanto all’oggetto: entrambi hanno per oggetto tutte le cose (Menone, 81 c). Le opinioni, se lasciate a se stesse, fuggono dalla mente, come schiavi dalla casa del padrone o come le mitiche statue di Dedalo (Menone, 97 d – 98 a). La scienza, invece, lega insieme le opinioni giuste e ben fondate col loro vincolo naturale, cioè con un ragionamento di causalità (Gorgia, 465 a). Insomma la verità non si concede d’un tratto alla nostra contemplazione, ma si fa riconquistare a grado a grado da chi fa convergere tenacemente gli sforzi allo stesso fine.

I numeri-idee

Della dottrina platonica dei numeri-idee, dottrina non scritta, abbiamo la testimonianza di Aristotele, che però è bisognosa di integrazione e di esatta interpretazione.

Dalle opere della maturità risulta chiaro che Platone si ricollega a Pitagora per l’ascetismo morale e per alcune tesi di antropologia, soprattutto nel Fedone, ma non per la dottrina delle idee.

Contro l’assurda pretesa di John Burnet di attribuire ai pitagorici la dottrina delle idee si deve ricordare che Platone cerca nell’idea non l’unità matematica, ma l’essenza, l’unità filosofica.

Le idee non sono numeri, così come non sono potenze (Eduard Zeller, Gottfried Stallbaum): se le idee fossero potenze non costituirebbero più l’oggetto del conoscere.

Nella Repubblica si distingue la diànoia matematica e la nòesis filosofica.

Nel Teeteto si attacca il relativismo «razionale» di ogni conoscenza puramente matematica o quantitativa, pur essendo la matematica penultimo grado nella gerarchia delle scienze.

Nel Timeo il Demiurgo è un dio che fa sempre della geometria, ma non è un numero divinizzato. I numeri fino a dieci sono gli esemplari costitutivi di ogni altra quantità: numeri ideali; ma la natura ideale dei numeri non include la natura numerica di tutte le idee.

L’ETICA E LA POLITICA

Intellettualismo etico e coscienza di doverlo superare

Che cosa rende possibile insegnare e apprendere? Fino a che punto, in che senso la virtù è o non è insegnabile? I paradossi dell’intellettualismo etico, che rendono insolubili quei problemi, riaffiorano nei meandri del gioco dialettico nell’uno o nell’altro dialogo, ma per essere superati da Platone, quando afferma, in perfetta sintonia con l’esperienza, che la saggezza stessa può essere motivo di corruzione, perché le grandi colpe e la malvagità dipendono sempre da un cattivo impiego delle più alte virtù.

Non c’è solo l’errore, c’è il male, il rifiuto di un valore morale. E come il sapere in qualche caso è posto a servizio del male, così il male può essere conosciuto dal sapiente, senza che il suo conoscere importi necessariamente la pratica del male (Repubblica, VII, 519 a; III, 409 d; VI, 491 b – e). Alcibiade fu ammiratore convinto di Socrate, ma non per questo ne imitò l’esempio.

Platone ci ha dato una vera e propria metafisica dell’apprendere e dell’insegnare con la dottrina dell’anàmnesis e con quella dell’eros. Non c’è conoscenza, vero insegnamento che non promuova un effettivo apprendimento, un risveglio, un diventar desti, disponibili al vero. Il sapere non può essere meramente mnemonico e meccanico, superficiale; quando sorge, viene alla luce dalle profondità dell’anima.

«La ricerca e il sapere non sono altro che reminiscenza» (Menone, 81 d). Lo schiavo ignorante, guidato dalle interrogazioni di Socrate, ma senza che questi gli insegni nulla, porta a compimento una dimostrazione di geometria.

La didattica di tutti i tempi dovrà ormai prendere a norma l’esempio geniale del maestro che, senza sovrapporre o sostituire la propria attività a quella dell’allievo, porge lo stimolo alla fermentazione delle forze interiori.

L’inquadramento mitico del problema fondamentale ha forse fatto smarrire al lettore il senso del problema in discussione: «che cosa rende possibile la maieutica?».

L’educazione dell’uomo è un risveglio umano, inseparabile dal senso delle risorse interne di colui che apprende, dal senso delle profondità della sua anima; l’agente principale del processo educativo è colui che apprende.

Questi insegnamenti che Platone ci suggerisce, quali che siano i presupposti arbitrari o le conseguenze esagerate della dottrina dell’anàmnesis, sono sempre validi.

Non si può dare virtù se non si conosce veramente ciò che è bene, ciò che è male per l’uomo. La virtù morale è opera di intelligenza, non fa tutt’uno col temperamento o con le circostanze, traduce un valore assoluto nella vita.

Ma basta la scienza del bene a tradursi in azione morale, in saggezza pratica?

Nel Lachéte, il valoroso condottiero rileva che l’armonia tra il pensiero e la vita è bella, ma è una difficile e rara conquista. Capita spesso che proferisca bei discorsi sulla virtù chi opera male. In tal caso i suoi discorsi sono tanto più odiosi quanto più sono belli.

L’intellettualismo etico del maestro entra in crisi. «La dottrina nostra è inadeguata a giustificare le nostre virtù», confessa Socrate.

Se vi fosse identità tra virtù e scienza, le varie virtù si identificherebbero tra loro, identificandosi con la scienza. Sarebbe allora logico, contro ogni reale esperienza umana, sostenere che chi possiede una virtù le possiede tutte.

Ma non è bene immiserire la complessa vita interiore in una forma di eleatismo morale.

Nel Gorgia torna a prevalere la tesi socratica (attestata anche da Senofonte, Mem., IV, 6, 3 – 11), secondo la quale le varie virtù, pur avendo nella scienza la loro nota comune, si specificano secondo l’oggetto a cui la scienza stessa è applicata.

Nella Repubblica la specificazione delle virtù nella loro essenziale unità ha origine dal soggetto più che dall’oggetto. Nel Protagora Socrate mostra che è assurdo pensare che la giustizia possa essere empia e la pietà ingiusta: vi è correlazione, talora reciproca implicanza, tra le virtù.

Il Menone aveva ribadito che il sapere non basta alla virtù, così come non basta il magistero più amoroso e prudente: «Con una bella lezione non si cambierà mai un furfante in galantuomo».

Anche il logos può essere vinto dalle passioni.

La Repubblica apporta chiarimenti decisivi. Non è vero che si pecca sempre involontariamente: esiste come dato di fatto incontrovertibile la «menzogna volontaria» di chi, pur possedendo per sé la verità, vuole ingannare gli altri (II, 382; III, 389 b). Il fattore volontario entra in gioco perfino nel campo della ragione, poiché noi sperimentiamo che dall’errore, che è – questa sì – «menzogna involontaria», ci si possa liberare proprio con la tensione della volontà che rimuove gli ostacoli alla conquista di una verità più alta.

L’Alcibiade I tesse l’elogio appassionato di Socrate malgrado i risultati negativi della sua opera educativa su Alcibiade. L’educazione non sempre consegue i migliori risultati. L’intellettualismo etico è superato.

Nel Simposio ritorna lo stesso tema. L’esempio di Socrate, l’eloquenza della sua vita virtuosa commuove il degenere scolaro. Alcibiade non è certo ignaro delle sue colpe, ne sente il rimorso, ma non si pone certo alla sequela del Maestro.

Nelle Leggi la tesi dell’intellettualismo etico è di fatto messa in disparte nel momento in cui si pone il criterio che la colpa si deve punire e che la differenziazione dei reati, e dunque delle pene, si fonda eminentemente sul diverso grado di volontarietà e premeditazione che si riscontra in esse.

«Il giudizio di un uomo che conosce ciò che è veramente bene può venire, almeno temporaneamente, oscurato dalla passione e far sì che il bene apparente gli appaia come vero bene; ma anche in tal caso, egli è sempre responsabile di aver permesso alla passione di oscurare la ragione […] Se un uomo sceglie quello che è realmente male o dannoso, conoscendolo come tale, ciò può avvenire soltanto perché egli, a dispetto della sua conoscenza, fissa la sua attenzione su di un aspetto dell’oggetto che gli appare come buono» (F. Copleston, op.cit, I, p. 304).

Colui che compie un’azione delittuosa, la sceglie in quanto sotto qualche aspetto gli appare un bene. Chi sceglie, sceglie sempre sub ratione boni. Nessuno deliberatamente sceglie di fare ciò che sa essere, sotto tutti gli aspetti, dannoso a lui stesso.

La virtù è insegnabile?

Platone contrappone di continuo l’apprendimento socratico e la sofistica «fornitura di conoscenze», «ciò che fa diventare sapienti e ciò che fa diventare saputi» secondo una felice espressione del Fedro (275 b); ed è questa discussione che sta alla base della discussione sull’essenza della virtù e sulla possibilità di insegnarla.

La virtù si nutre di verità ed esige la verità su ciò che è bene e male, nel modo più consapevole possibile, ma non è formulabile e non può essere facilmente e successivamente comunicata agli altri come se si trattasse di un teorema di geometria.

Su questi due capi del problema, entrambi del resto individuati, ma non annodati dal Socrate storico, Platone ha impostato il suo discorso con un’ampiezza di motivi e con un intreccio di posizioni che sconcerta solo chi non riesce a cogliere la necessità rigorosa e insieme l’insufficienza della razionalità dell’agire umano.

Occorre agli uomini «la scienza del bene e del male e la conformità a questa sola scienza» (Carmide, 174 c); ma concludere che il bene è la scienza, come si sarebbe tentati di fare, è vano ed errato, e la «conformità» al valore da far nostro e da conoscere incessantemente è come una seconda nascita, un parto spirituale, il frutto di una tensione dinamica in cui convergono il risveglio dell’uomo a se stesso e alla visione del Bene, insieme appassionata e oggettiva, e la maieutica, la psicagogia, cioè l’arte di guadagnare le anime alla verità e al bene in un rapporto di reciproco consenso e accordo.

La risposta, sottintesa e adombrata nel giro tortuoso di mille discussioni, diventa esplicita e precisa nel Simposio: la virtù è insegnabile per mezzo di Eros, per mezzo dell’amore.

È escluso che l’insegnamento sia una semplice trasmissione di sapienza da chi ne è pervaso a chi ne è privo, per il contatto dell’uno con l’altro, come l’acqua che venga travasata dal recipiente pieno a quello vuoto (Simposio, 175 d).

Si tratta, invece, di fecondità spirituale di coloro che, pieni di energia diffusiva, vanno in cerca di altre anime belle e generose, e si congiungono ad esse per generare la saggezza, e con questa la prudenza, la giustizia e ogni altra virtù (Simposio, 209 a).

Non si tratta, dunque, dell’assenso che un’intelligenza presta alla dimostrazione inoppugnabile di un teorema, ma di una adesione che impegna due esseri con tutte le loro capacità affettive, morali e intellettuali. Più non vale l’esigenza espressa da Socrate nel Gorgia che chi possiede la virtù debba necessariamente renderne partecipi i figli, e chi non ottiene ottimi risultati nell’educazione della prole sia ritenuto privo di quella, e nemmeno vale l’antitesi del Protagora che contesta l’insegnabilità della virtù per i pessimi risultati ottenuti dai grandi uomini politici nell’educazione dei figli: ormai il rapporto educativo appare, quale è veramente, reciproco, sicché il maestro più saggio e virtuoso, ove manchi la corrispondenza dell’educando, fallisce al suo scopo, senza che per ciò debba essere contestata la sua virtù o l’insegnabilità della virtù.

Scompare tutto ciò che è rigido, meccanico, fatale nella concezione del rapporto educativo.

«La virtù non discende prodigiosamente dall’alto, lasciando l’anima inerte; né si propaga con necessità logica di coscienza in coscienza; né si risolve in un rapimento estatico che cancelli nell’anima l’alacrità e l’individualità, ma deriva da un processo interiore dell’anima che la partorisce e la genera» (Luigi Stefanini, Platone, Cedam, Padova 19492, vol. I, p. 249).

I risultati positivi a cui giunge il Platone maturo sono enunciati in una mirabile pagina della Repubblica (VII, 518 – 519 b) in cui i concetti possono essere così riassunti:

a) hanno torto coloro i quali sostengono che si possa infondere la scienza nell’anima che ne sia priva mediante l’insegnamento sic et simpliciter: hanno torto come chi pretendesse di dare la vista ai ciechi;

b) tutti hanno innata e perenne la capacità di vedere il bene, ma non tutti lo vedono, perché il loro sguardo è rivolto altrove ed intento ad oggetti di passione;

c) come l’occhio del corpo non può essere distolto dalle tenebre e guidato verso la luce, se tutta le persona non opera una diversione verso la luce, così l’occhio dell’anima non guarda il Bene, se l’anima tutta non si rivolge a questo, educando con l’esercizio le capacità inferiori.

Il Bene sommo fondamento dell’agire morale

Ogni altra conoscenza e abilità, anche la più celebrata, rappresenta una finalità secondaria rispetto a quella primaria ed essenziale di sospingere un essere umano a farsi, con ogni serio sforzo e zelo, «cercatore e apprendista» del Bene, capace di distinguere la buona e la cattiva vita e di scegliere sempre e dovunque, tra le forme di azioni possibili, quella migliore: la decisione di «rendere l’anima più giusta» è la più gravida di conseguenze per l’uomo, in vita e in morte. Bisogna conquistare per tempo, e rafforzarla sino alla fine dell’esistenza, una granitica sicurezza su questo punto, se si vuol veramente conseguire «la libera condizione della virtù», per non farsi abbagliare dalla ricchezza e dalla tirannide, per non preparare a sé stessi un dolore insanabile, l’angoscia di aver fallito sulla questione più importante, sul senso da dare alla vita stessa.

Bisogna che l’uomo impari a muovere con tutta l’anima incontro all’essenza che sempre è e non muta per nascita o per morte (Repubblica,VI, 485 a – b), causa ad un tempo per cui le cose esistono e causa per cui l’intelletto conosce e l’intelligibile è conosciuto (Fedone, 100 c; Repubblica, VI, 508 c).

La suprema utilità dell’uomo è disinteressata, perché sta nel Bene che è fine a se stesso e che è cercato e amato per sé, condizione ideale e ontologica di ogni bene terreno, non mezzo per realizzare la felicità, ma fine al quale la felicità è congiunta ed è subordinata. Il Bene voluto perché tale, per se stesso, è il primo movente, «il motivo necessariamente agente», l’ultimo fine di diritto dell’uomo e dunque della sua educazione, la prima «cosa cara» (philon) com’è detto nel Liside (219 d).

Se non ha fondamento sull’affermazione ontologica del Bene, ogni virtù si ridurrebbe ad un utilitarismo più o meno raffinato. Non vi è moralità che in rapporto ad un Bene sommo. Nel Fedone (79 d) è detto con chiarezza inequivocabile che «non è giusto baratto, a proposito delle virtù, quello di barattar piaceri a piaceri, dolori a dolori, paure a paure, i più grossi ai più piccoli, così come se fossero monete; mentre è moneta schietta la scienza, con la quale si ha a vendere e comprare fortezza e temperanza e giustizia, insomma, la virtù, ci sia o no la giunta di piaceri e dolori e altre cotali affezioni». La consapevolezza critica del Valore supremo trasforma il prezzo dei beni nella dignità di un valore intrinseco, perché afferma l’esistenza del Bene in sé e pone ogni atto umano, fuori del gioco del più e del meno, in relazione con un termine assoluto e definitivo.

Lo stabile dedicarsi del Bene, sempre accessibile e insieme inesauribile alla coscienza e al volere nella sua infinità, illumina ogni altro aspetto della vita, lo preserva dal degenerare, lo rende idoneo a una fecondità sempre più altamente positiva. Ogni singola virtù, come tutte le cose, diventa utile, e ha valore formativo solo attraverso il Bene. Chi sia ignaro del Bene non potrà mai essere veramente un educatore, così come non dovrebbe essere tra i reggitori della cosa pubblica.

La divinità, a cui si rivolge l’anelito del «più religioso degli animali» (Leggi, X, 902 b), non si risolve semplicemente nell’idea dell’ordine universale e di un fine da realizzare nella vita; bensì è la reale esistenza della divinità, operante nel cosmo, che rende possibile quell’ordine e concepibile quel fine delle azioni umane. È il primato del divino sul mondo che garantisce il primato dell’anima sul corpo nella vita morale.

Parimenti, in quanto esiste in Dio la misura perfetta di tutte le cose, la vita dell’uomo ha da essere misurata e temperante, quasi riproduzione al microcosmo dell’equilibrio e dell’armonia da Dio impressi nel macrocosmo (Leggi, IV, 716 c); e in quanto «Dio è principio, mezzo e fine di ogni cosa, e tutte le cose circuisce con la bontà della sua natura», è iniquo trarsi fuori, con impeti d’orgoglio dissennato, da questa egemonia, invece di vivere in modestia e umiltà (Leggi, IV, 716 a). E appunto dalla convinzione che la provvidenza divina investe tutte le cose, le più piccole come le più grandi, tutte egualmente indispensabili a realizzare la compiutezza del disegno unitario, da questa convinzione nasce la volontà combattiva del giusto che, particella minima del tutto, si sente necessario al valore universale e alleato di Dio nell’asprezza della lotta (Leggi, X, 901 d – 904 c; 906 a – b). L’etica platonica rivela nell’ispirazione religiosa il suo profondo significato, perché chi ignora il governo divino del mondo «non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità» (Leggi, X, 905 c).

Il Simposio, indagine sull’amore[2]

Il Simposio, che Platone compose sui quarant’anni, nel pieno vigore del suo genio, è un capolavoro non solo della filosofia greca, ma della letteratura universale. Qui noi tenteremo di presentare il Simposio nei suoi passaggi essenziali, trattandosi di un’opera di grande complessità, ma premettendovi un’avvertenza: che per capire la dottrina socratico-platonica dell’amore occorre toglierci dalla testa quella morbosa invenzione che vien detta «amore platonico», per la semplice ragione che di essa non v’è traccia alcuna né in questo né in altri dialoghi di Platone. Simposio in Grecia era il termine con cui si indicava propriamente la riunione di amici in occasione di eventi importanti della polis come la celebrazione di una vittoria poetica, sportiva o militare, di una festa cittadina o di una ricorrenza religiosa. Il Simposio platonico narra appunto della riunione degli amici di Agatone, in casa sua, per festeggiare la vittoria conseguita con la rappresentazione della sua prima tragedia, applaudita il giorno prima da trentamila elleni. Socrate, avviandosi alla casa di Agatone in un «insolito abbigliamento festivo», incontra Aristodemo, suo fervido ammiratore, e lo trascina con sé al banchetto. Ma, ad un certo punto lo manda innanzi, mentre lui si arresta nel vestibolo della casa dei vicini e si immerge in un silenzio abitato da una più alta presenza. Quando, però, a pranzo quasi finito, compare tra i convitati, il suo umore è di un’allegria sfavillante. Il medico Erissimaco invita a moderare le libagioni, per poter conversare rimanendo sobri, e propone di accogliere un antico desiderio di Fedro, secondo il quale occorreva colmare una lacuna, pronunciando per la prima volta in Grecia un discorso celebrativo in onore di Eros. Anzi ognuno dei sei convitati avrebbe pronunciato il suo elogio di Eros. Socrate ci sta: «Nessuno, o Erissimaco, respingerà la tua proposta. Non certo io che affermo di non conoscere altro che la scienza dell’amore» (177 d).

Il primo a tessere l’elogio di Eros è Fedro, che darà il nome ad un altro dialogo di Platone. Fedro è un esteta che idolatra la retorica, cioè l’arte di scrivere e di pronunciare discorsi. Fedro esalta nell’Eros la forza cosmica, a cui si deve la continuazione delle generazioni e il perpetuarsi della vita; ma, per una inavvertita contraddizione, secondo il nostro retore l’amore più alto non è quello tra un maschio e una femmina, il solo che possa presiedere alla generazione, bensì il rapporto tra due persone dello stesso sesso. Le classi alte di Atene erano filospartane e tra loro era di moda coltivare l’omosessualità, che era di casa proprio a Sparta, società per antonomasia maschilista e guerriera. L’Eros, com’è inteso da Fedro, infonde nell’amante la disposizione a compiere qualsiasi atto di valore, pur di meritare l’ammirazione dell’amato. Di qui la conclusione paradossale e involontariamente ironica: l’efficacia sociale della pederastia è tale che un esercito di pederasti, se potesse essercene uno, sarebbe invincibile.

Sulla stessa linea, ma con qualche elemento di significativa novità, si muove il secondo oratore, Pausania. Pausania ricorda che persino nella mitologia si contrappongono una «Afrodite celeste» e una «Afrodite volgare». E poiché Afrodite è la madre di Amore, noi dobbiamo distinguere fra un «Amore celeste» e un «Amore volgare». L’Amore volgare ha per unico oggetto il corpo; meglio se è il corpo di «una testa vuota», perché allora può essere meglio asservito ai propri scopi egoistici. L’altro Amore può condurre ad un’unione di spiriti ed essere posto al servizio della virtù. Ma la concezione che Pausania ha della virtù e dell’amore nobile rimane a un livello ancora troppo vago, ed è, a dir poco, ingiurioso verso le donne. L’amore di un uomo per una donna, infatti, agli occhi di Pausania appartiene pur sempre all’ordine più basso.

Il medico Erissimaco fa sua la contrapposizione fra i due Eros, celeste e volgare, e anzi ritiene che essa debba essere estesa a ogni ambito della realtà, dall’organismo umano all’universo. La natura è tutta intessuta di opposti; la scienza e la saggezza consistono nel temperare i contrari, l’uno con l’altro, in giusta proporzione. E ciò, a suo parere, vale anche per l’Eros.

Il discorso di Aristofane ha una sorta di prologo buffo, perché arriva dopo un attacco di singhiozzo, ma il suo contenuto ha un fondo di verità, che sarà messo a profitto da Socrate nella parte finale del Simposio. Secondo la favola raccontata da Aristofane, in origine vi erano tre sessi: il doppio maschio, la doppia femmina e il maschio-femmina o androgino. Questi esseri – ciascuno dei quali aveva quattro gambe, quattro braccia e una testa – erano così forti e superbi da minacciare il Cielo. Zeus allora spaccò ognuno di essi dall’alto in basso. Da quel momento ogni creatura umana va appassionatamente alla ricerca dell’altra sua metà. Si cercano gli ex-androgini, ora divenuti maschi e femmine, dalla cui unione nascono altri maschi e femmine; ma si cercano pure i due uomini separati del doppio maschio e le due donne separate del doppio femmina. L’Eros, dunque, è coscienza dolorosa di ciò che manca a ognuno ed è aspirazione dei due a farsi uno solo. L’amore è, pertanto, essenzialmente nostalgia dell’uno. Tuttavia non è il congiungimento sessuale lo scopo vero dell’unione sessuale e il suo orizzonte ultimo. «Non sembra – dice testualmente Aristofane – che il piacere d’amore sia la causa che fa stare insieme gli amanti con così grande attaccamento. È, invece, evidente che l’anima di ciascuno di noi desidera qualche altra cosa che non sa dire, oppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi» (192 c 4). Purtroppo, come Pausania, anche Aristofane relega all’ultimo posto l’amore dell’uomo per la donna, giudicando la donna «l’essere più debole». Socrate e Platone, però, non la pensavano così, perché per essi «la virtù dell’uomo e della donna è la medesima». Ci vorrà, tuttavia, il Vangelo perché cominciasse ad entrare nella storia – pur tra infinite resistenze, ancora oggi dure a morire – il principio dell’uguaglianza di dignità tra le persone dei due sessi.

Penultimo nel tessere l’elogio di Eros è il padrone di casa, Agatone. Il suo discorso è di raffinata fattura, piacevole ad udirsi, impreziosito da immagini delicate. È un brano di prosa poetica degno di Gorgia. E poiché il personaggio lo declama, alla fine scrosciano gli applausi. Sotto tante belle parole, però, c’è il vuoto del pensiero. Ma dopo Agatone la parola passa a Socrate.

A Socrate, ultimo arrivato al banchetto, toccherà prender la parola per ultimo. Egli non intende per nulla gareggiare in oratoria con quanti l’hanno preceduto; ma dopo le cose dette da loro gli pare che ci sia ancora bisogno di «un discorso che faccia udire la verità su Eros» (199 b). Socrate parte, come al solito, da un’osservazione apparentemente marginale, che però serve a porre la ricerca in una diversa prospettiva. Agatone ha detto che Eros porta in dono l’amore delle cose belle perché è, per sua natura, «desiderio di bellezza»; ma se Eros desidera la bellezza, ciò significa che lui non la possiede. Eros desidera, sì, le cose belle, ma proprio perché ne avverte dolorosamente la mancanza. Eros, quindi, non è affatto il più bello tra gli dei e non è lui oggetto d’amore; è ben lui, però, che ama e spinge ad amare. Con molta lealtà il padrone di casa riconosce che già questa battuta d’inizio basta a confutare la sua litania di lodi a Eros. «C’è pericolo – confessa candidamente – che io non avessi conoscenza alcuna di ciò di cui parlavo» (201 b). Socrate con signorile delicatezza rassicura l’amico: anch’egli qualche tempo addietro pensava e diceva su quell’argomento le stesse cose di Agatone, fino a quando non ebbe la grazia di incontrare Diotima, la sacerdotessa di Mantinea, la quale – nell’intrecciarsi di domande e risposte, e in più colloqui – gli aprì gli occhi alla comprensione dei veri misteri di Eros. Ciò che Socrate dirà sull’amore è solo l’eco imperfetta di quanto Diotima gli fece capire e intravedere.

Una volta stabilito che Eros non è «bello e buono», ma affascina potentemente perché tale vorrebbe essere, occorre descrivere la sua condizione. Eros risulta, dunque, essere qualcosa di mezzo tra il sensibile e l’intelligibile, tra i mortali e gli dei immortali, uno spirito, un dèmone mediatore tra l’umanità e la divinità. La sua nascita, del resto, risponde alla sua funzione. E qui l’arte somma di Platone ci regala il mito più significativo tra i molti che ebbe a creare. Figlio di Poros e di Penìa, Eros è povero e bisognoso come la madre, ma ha in sé, strutturalmente, la capacità del padre di acquisire bellezza e bontà; e per raggiungere ciò che desidera sa armarsi di coraggio, tenacia e inventiva. Allo stesso modo Eros non possiede la verità, ma muove alla sua ricerca con entusiasmo, senza posa. Dio solo ha il possesso pieno e integrale della verità e lui solo è, dunque, sapiente; al lato opposto v’è l’ignoranza bruta, l’ignoranza inconsapevole di chi non avverte neppure l’esigenza della verità. Eros è «filosofo», nel senso più proprio del termine, perché non ha la sapienza, la scienza del vero nella sua totalità, la visione dell’Uno a cui tutto va ricondotto, ma è lì che tende con tutta l’anima. A differenza dell’ignorante inconsapevole, egli però sa di non sapere e proprio per questo muove alla ricerca della verità. Eros qui simboleggia scopertamente l’ideale della filosofia così come storicamente s’incarnò nella figura e nel metodo di Socrate.

Un altro passaggio decisivo del discorso di Socrate-Diotima è quello in cui si afferma che gli amanti, nel senso corrente e ristretto della parola, non solo sono desiderosi di un altro essere, a causa della bellezza che in esso risplende, ma, sempre per la stessa ragione, aspirano ardentemente a fecondarlo, a «procreare nel bello». Infatti, soltanto generando un nuovo individuo, e facendogli prendere il posto che noi lasceremo, noi mortali pensiamo di «partecipare all’immortalità» (208 b). La paternità fisica è il nostro modo di sfuggire alla morte e ogni amore è desiderio – tacito, inconscio, o mascherato che sia – di paternità, e dunque di immortalità perlomeno terrena. La «procreazione nel bello» è tendenza universale, cosmica, ma nel mondo umano non è tutto. Esiste anche «una procreazione nel bello nell’ordine della paternità spirituale». Si pensi al rapporto tra l’artista e la sua opera, o alla dedizione eroica di quanti fanno progredire l’umanità nelle diverse scienze, o all’eros filosofico che ci spinge e cercare la verità con tutta l’anima, costi quello che costi. Ma su una forma di procreazione nel bello Platone insiste con particolare forza: avendo avuto un maestro come Socrate, egli sapeva quanto fosse feconda di verità e di bene quella «procreazione nel bello» che si realizza nel mistero d’amore del rapporto educativo. Infatti, la comunione tra il maestro e i discepoli, nella ricerca associata della verità e nella conquista di una vita saggia e buona, crea un «casto legame d’amore» spesso più forte di quello della famiglia naturale.

La nobile fecondità del rapporto educativo nasce innanzitutto dal fatto che il maestro dispone coloro che a lui si affidano a salire per proprio conto, al di là della sua persona, quella scala d’amore, in cui l’Occidente ha ravvisato la più alta concezione dell’Eros e il programma del suo umanesimo perenne. L’illustrazione di quella «scala d’amore» è affidata da Platone alla sacerdotessa Diotima in un sublime assolo introdotto dalle solenni parole: «Parlerò io e vi metterò tutto il mio impegno, e tu cerca di seguirmi se ne sei capace» (201 b). Il primo gradino è senza dubbio costituito dalla sensibilità alla bellezza corporea. Quel momento segna nella vita dell’adolescente il primo commosso risveglio dello spirito, stupendamente descritto anche da Agostino e da Rousseau. Scegliersi e ascendere in due verso il bello è via di umanizzazione, inizio di una vita più alta. In fondo nei loro discorsi Pausania e Aristofane lo avevano intuito. Le parole poste sulla bocca di Aristofane sono tra le più belle e le più vere del dialogo. Le abbiamo già citate, ma non possono non essere richiamate: «Non sembra che il piacere d’amore sia la causa che fa stare insieme gli amanti con così grande attaccamento. È, invece, evidente che l’anima di ognuno desidera qualche altra cosa che non sa dire, eppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi» (192 c – d). L’Eros dei due che si cercano in vista di diventare uno è già un mirabile inizio, ma non è che il primo gradino della scala d’amore. Nel secondo si passa a riconoscere la bellezza ovunque essa risplenda, amandola per il suo intrinseco valore e per ciò a cui allude e rinvia. E abbiamo già ricordato che vi è una bellezza dell’anima, anche là dove non vi sia segno alcuno di piacevolezza esteriore. Socrate aveva fattezze tutt’altro che belle – aveva una brutta «faccia da Sileno», dice Alcibiade – ma nell’anima serbava beni di incomparabile bellezza, che metteva con umiltà a disposizione di tutti. Due gradini più in su nella scala d’amore vanno riservati alla passione intellettuale per la verità, cercata per se stessa, e alla passione politica per il bene comune e, dunque, per le leggi e le istituzioni che concorrono a far si che la giustizia abiti negli Stati e cammini tra gli uomini. È la valenza teoretica e politica dell’Eros.

Quando un uomo sarà avanzato fin qui, la sua anima sarà disposta all’incontro con l’unica e assoluta Bellezza – la Bellezza sostanziale ed eterna – in confronto della quale ogni altra, che pure ad essa rinvia e da essa deriva, appare un’ombra, o un pallido riflesso (211 b). E la Bellezza in sé e per sé è per Platone il Bene in sé e per sé, l’Uno. Occorre non fermarsi a metà del tragitto e giungere al culmine della «scala d’amore»: è quello, in realtà, il momento che più di ogni altro merita di essere vissuto, il nostro fine ultimo. La nostalgia dell’Uno e la sete di immortalità, di cui l’amore umano in qualche modo è il simbolo, trova qui l’approdo, nonché l’esplicitazione metafisica e religiosa. Platone nel Simposio ci rappresenta chiaramente Socrate come un uomo cui è stata concessa la «visione» dell’Uno-Bene, cioè della Bellezza suprema. L’estasi silenziosa di Socrate, a cui si accenna all’inizio del dialogo, trova conferma alla fine, e nel modo più sorprendente, attraverso la testimonianza del più infedele dei discepoli, Alcibiade, il quale ci invita a vedere nel memorabile rapimento di Socrate a Potidea – rapimento che durò ventiquattr’ore – non un episodio fra i tanti, ma l’evento che cambiò l’esistenza del filosofo. Qualcosa di analogo, per intenderci, alla conversione di Agostino.

I testi fondamentali della politica platonica

Lettera VII la vocazione politica, le ragioni della mancata partecipazione, la necessità di far convergere politica e filosofia: «fui ineluttabilmente addotto ad apprezzare la buona filosofia e a concludere che solo dall’opera di lei è possibile sperar di vedere un giorno giusta la politica degli Stati e giusta la vita dei cittadini. Oh! Certo le sciagure e le sventure non avranno termine per il genere umano se non nel giorno in cui i veri e puri filosofi potranno pervenire a reggere il potere» (cfr. G. Reale, op.cit, II, pp. 285-288).

Gorgia l’animazione etica della politica, la critica del politicismo assoluto e del superomismo.

La Repubblica o disegno dello «Stato ideale» senza leggi perché governato da «virtù e scienza».

Il Politico o disegno dello «Stato secondo», che tenga conto cioè della necessità e della realtà effettiva dell’uomo e delle condizioni in cui storicamente egli opera:

– la politica come misura assiologica del giusto mezzo;

– le possibili forme di costituzione e le loro degenerazioni;

– specificità della politica e sua superiorità rispetto all’arte militare, alla retorica, alla magistratura.

Le Leggi dello «Stato secondo»: la somma di ciò che è realizzabile.

1) Senza certezza del diritto non c’è giustizia in politica.

2) Primato a una costituzione mista e moderata («nello Stato vi sia libertà e concordia accompagnate da saggezza»).

3) Eguaglianza proporzionale e critica dell’egualitarismo (occorre avere di mira «non già l’interesse di pochi o d’uno solo, ma sempre la giustizia, ossia, come dianzi abbiamo detto, stabilire fra ineguali l’uguaglianza che ha fondamento nella natura»).

La democrazia garantisce uguale punto di partenza, la demagogia vorrebbe garantire l’uguaglianza anche all’arrivo.

 La diagnosi platonica della demagogia[3]

La libertà è un vino forte e generoso che nuoce agli immaturi e si trasforma in veleno, ossia in penosa schiavitù, prima ancora che essi sappiano che cosa sia e imparino a servirsene correttamente. Questa è la conclusione alla quale era pervenuto Platone, che ci ha dato nella Repubblica un’altissima concezione etico-politica, ma anche una diagnosi assai acuta delle forme corrotte di governo, dalla tirannide alla demagogia; diagnosi che, nelle sue linee essenziali, è tuttora valida.

Nella critica dei regimi politici Platone non risparmia la democrazia, o quella che è piuttosto la sua degenerazione e che noi preferiamo chiamare demagogia. Nella sua profonda coscienza di filosofo e di educatore, Platone aveva combattuto i sofisti, ma nella Repubblica si accorge che corruttori del costume pubblico e privato non sono solo i mercenari della cultura, che interpretano i gusti e i desideri della folla e li distillano nella loro presunta sapienza, ma soprattutto coloro che, seduti in gran numero nei parlamenti, o nei tribunali, o in altra pubblica assemblea, con molto chiasso biasimano alcuni discorsi e azioni, ed altri lodano – eccedendo nell’un caso e nell’altro – con grida e applausi. «Con siffatti modelli, in un ambiente del genere – si chiede Platone – il giovane quale cuore, come si dice, credi che avrà? E quale educazione individuale potrà mai resistere e non essere travolta dal diluvio di biasimo o di lode dei politici corruttori? E come riuscirà il singolo a non essere trascinato dove lo porti la corrente? Senza una salda visione di ciò che sia bello o brutto, il giovane finirà col fare ciò che essi fanno e per essere simile ad essi!» (Rep., VI, 492 b – c).

Il destino dei popoli è inseparabilmente legato alla qualità morale della loro po­litica e all’educazione dei giovani: di ciò Platone era profondamente convinto e questa sua intuizione diverrà comune a tutti coloro che hanno onorato la storia della pedagogia, da Erasmo a Comenio, da Pestalozzi alla Montessori. Il grande ateniese ha illustrato in profondità la duplice e correlata influenza della politica sull’educazione e dell’educazione sulla politica, con un’attenzione particolare ai pericoli a cui sono esposti i più giovani. Il quadro che egli traccia è di una straordinaria vivezza, avendo felicemente individuato quegli aspetti dell’adolescenza – dal facile entusiasmo all’intempestiva generosità, al gusto dell’avventura – che offrono ai demagoghi e ai tiranni la possibilità di conquistare senza sforzo l’animo dei giovani e dei giovanissimi. «Quando costoro cominciano a gustare i ragionamenti – annota Platone – li trattano come materia di gioco e se ne servono continuamente per contraddire; imitando quelli che confutano loro, essi medesimi confutano gli altri, godendosela come cagnolini a tirare e lacerare coi ragionamenti chi di volta in volta li avvicini. Il risultato, però, è che dopo aver confutato molti ed essere stati confutati da molti, assai presto si riducono a non credere più a nulla di quanto credevano prima; e perciò essi e tutto quanto riguarda la filosofia sono messi in cattiva luce presso gli altri» (Rep., VII, 539 b -c).

L’attualità di Platone diventa ancora più palpitante laddove descrive l’ubriacatura della libertà, che trascende in insaziabile licenza e colpisce anche i cattivi cop­pieri, ossia i governanti che, per smania di una malintesa popolarità, sono più prodighi di concessioni demagogiche ora all’una ora all’altra fazione. Là dove la demagogia trionfa, i cittadini che obbediscono alle leggi sono insultati come schiavi volontari e uomini da nulla, mentre si lodano in pubblico e in privato quegli uomini politici che quanto più spacciano promesse menzognere tanto più mietono consensi. Il disordine si insinua allora anche nelle famiglie e nelle istituzioni educative. Il padre fa di tutto per apparire simile al figlio e dei figli teme il giudizio; il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri. In ogni cosa i giovani si mettono con arroganza allo stesso livello degli anziani, verso i quali non hanno alcun rispetto; e a loro volta gli anziani si mostrano pieni di arrendevolezza verso i giovani, arrivando persino ad imitarne gli atteggiamenti più discutibili pur di non sembrare ai loro occhi sgradevoli e autoritari (Rep., VIII, 562 b – e; 563 a – b).

Platone visse sulla sua pelle l’esperienza della tirannide e della demagogia e ne studiò la derivazione reciproca dell’una dall’altra. La cancellazione progressiva di ogni libertà spinge inesorabilmente la tirannide ad eccessi di ogni tipo che, violando sistematicamente la legalità, prima o poi spingono alla ribellione i cittadini, ormai ridotti a sudditi o a scherani. Ma insorgere contro la tirannia non significa di per sé approdare a un assetto politico più libero e giusto. L’operazione è tutt’altro che indolore e l’esito positivo non è affatto scontato. Purtroppo si passa spesso non dal dispotismo a un’autentica democrazia, ma da una forma all’altra di negazione dello Stato di diritto. La demagogia sfrenata dei nuovi detentori del potere, scatenando la corsa all’arricchimento e agli onori, corrompe nell’intimo le coscienze e consuma a danno del popolo nuove ingiustizie, ancora più gravi di quelle che intendevano combattere. I demagoghi tradiscono i nobili ideali che esibiscono, coprendo così le loro malefatte con l’illusione di un’accresciuta libertà. In realtà la demagogia moltiplica all’infinito le pretese, ma fa sparire il senso del dovere e l’idea stessa di bene comune; ma, così facendo, mina alle radici la possibilità della convivenza civile. A un certo punto l’esigenza dell’ordine sociale, giuridico e politico diventa improcrastinabile, proprio perché la sua continua violazione manda in rovina lo Stato e la società. Sono travolti, allora, i governi dell’anarchia demagogica; ma ciò accade sempre o per lo più in una situazione così confusa e pericolosa da offrire fin troppi pretesti ai fautori di quell’altro male, uguale e contrario, che si chiama dittatura. In tal modo si evita Scilla, ma si rischia di incappare in Cariddi.

Il circolo si spezza solo se i cittadini più coraggiosi e responsabili si uniscono tra loro e decidono di non abdicare alle loro prerogative e ai loro doveri, facendosi realmente carico del bene comune. Solo allora la politica può tornare ad essere ricerca del bene comune e sforzo associato per la sua attuazione. Una buona politica, d’altra parte, ha sempre con sé una valenza formativa sui cittadini, della cui libertà costituisce la salvaguardia più diretta e immediata.

L’ESTETICA

Gli acquisti positivi dell’estetica platonica

1) Il carattere sensibile e spirituale della bellezza (Fedro, 250 d – 251 e).

La bellezza è l’unica tra le idee che ebbe in sorte il privilegio di rendersi visibile ai mortali per poter essere da loro ardentemente amata. Il carattere distintivo del bello è la sua intelligibilità nel sensibile. Legata alle cose visibili e sensibili, la bellezza lascia intravvedere per loro mezzo e in esse la luce dell’idea.

2) L’innocenza del piacere estetico.

Le Muse non sono tutte uguali fra loro (c’è anche una Musa volgare che miete non pochi successi), ma le accomuna tutte una certa piacevolezza e dolcezza che non manca in nessuna (Leggi, VII, 802 c). Il piacere estetico, nella sua forma più bassa, è sollievo psicologico e divertimento, nelle forme più nobili è «innocenza» e «incanto», distacco da ciò che ci lega alla vita di relazione, presentimento di ciò che è superiore, aspirazione inconscia al Sommo Bene, che è la bellezza più alta.

Il piacere estetico innocente, puro, limpido, libero dall’avidità del possedere e dell’asservire, così come dalla «invidiosa compiacenza del male altrui» (Filebo, 48 c – 50 b), converte l’alogicità dell’arte in letizia veggente, è preannuncio sensibile dell’intelligibile; spinge l’anima ad elevarsi ai valori più profondi dello spirito. Il piacere estetico innocente è intrinseco alle autentiche opere d’arte, ma non lo scorge e non lo prova certo il primo venuto (Leggi, II, 658 e). Il livello del gusto è il livello del progresso spirituale. «La più bella delle Muse è press’a poco quella che diletta i migliori e meglio educati cittadini» (Leggi, II, 658 e – 659 a).

Al contrario, la teatrocrazia, cioè la pretesa del volgo di essere giudice inappellabile in fatto di arte, è una delle dimostrazioni della falsa democrazia, sovvertitrice dei valori, che mette l’arbitrio e l’impudenza degli incompetenti al posto del giudizio dei migliori (Leggi, III, 700 e – 701 a).

3) L’arte ha un valore pre-logico o meta-logico.

L’arte esorbita dai limiti della scienza ed è pertanto manifestazione più che umana, frutto di un intervento divino. Il poeta ha il dono di annunciare all’uomo ciò che l’uomo non saprebbe annunciare e cogliere. Egli è colui che trasmette agli altri una forza magica, un incanto che si propaga nei loro cuori, commovendoli di divino entusiasmo. L’ispirazione, l’estro poetico non è solo oltre la ragione, ma anche oltre l’umanità. È un dono divino. Così nell’Ione e nel Menone.

4) L’arte imitatrice della poiesis divina.

Nel Sofista l’arte umana viene posta sullo stesso piano dell’arte divina, in quanto imitazione della poiesis del Demiurgo. La potenza divina è ben presente nel cosmo, in cui rifluisce, di parte in parte, fino all’uomo.

La svalutazione dell’arte nella Repubblica

Il motivo centrale della svalutazione dell’arte nel libro X della Repubblica non si intende se non in rapporto alle esigenze intrinseche dell’educazione. A forza di pascere l’anima dei giovani con «vere immagini del male» (401 b), con «lo sfrenato, l’ignobile, l’indecente», giorno per giorno, a forza di dar loro «cattivo cibo» non si può, si voglia o no, non provocare un gran male nelle loro anime.

La persona ha bisogno di sanità spirituale (sophrosyne) così come di sanità corporea (hygieia).

«Dovremo invece cercare quegli artisti che hanno il felice dono di perseguire ovunque la natura di ciò che è bello e decente, affinché i nostri giovani, come abitando una sana contrada, vengano da ogni lato corroborati; possa ivi un’aura dolce, spirante sanità come da una regione salutare, addurre al loro occhio e al loro orecchio percezioni di opere belle; e guidarli così insensibilmente sin dalla puerizia alla somiglianza, confidenza e concordanza col senso del bello. In questo modo si raggiungerebbe di gran lunga la più bella loro educazione».

Platone rifiuta inoltre «la più grande menzogna intorno alle cose più grandi» che viene consumata con i miti immorali, con le favole mostruose della theologia fabulosa politeistica, resa efficace dal magistero dell’arte nei poemi di Omero e di Esiodo.

Qualcuno ha scritto che è davvero strano che un filosofo come Platone, che lega strettamente il mito alla filosofia, pronunci in sede pedagogica una così perentoria condanna dei miti. In realtà il punto di vista di Platone è assai più profondo e ricco di sfumature. Per Platone i miti del politeismo antropomorfico sono falsi e diseducativi non perché miti, cioè racconti, narrazioni che nascono dalla fantasia, non perché privi di realtà storica, ma perché moralmente e metafisicamente aberranti, incoerenti, illogici, assurdi. Un mito può benissimo rappresentare qualcosa che non è mai accaduto e la sua «falsità nel discorso» è ammissibile e anzi utile soprattutto se serve ad esprimere artisticamente un elemento di verità, e ancor più le verità più alte nelle forme più appropriate o meno inadeguate.

Platone non ignora il valore della fantasia e del sentimento, ma rifiuta l’impressionante indifferenza, propria della democrazia, di fronte ai fini e ai contenuti di quanto si propone soprattutto all’infante e all’adolescente.

Interpretazioni di Platone

Le costanti del platonismo

«L’influsso di Platone è stato immenso e costante: la sua filosofia è uno dei costitutivi essenziali della civiltà» (Michele Federico Sciacca). Quell’atteggiamento speculativo che si rifà a Platone nei suoi motivi essenziali come a dottrina ispiratrice dicesi platonismo.

Quali sono le costanti del platonismo così inteso?

a) La distinzione dei piani ontologici fra mondo sensibile e mondo intelligibile.

b) Il primato della spiritualità oggettiva: è essenzialmente reale ciò che è spirituale.

c) Il conoscere è inspiegabile nella sua universalità e oggettività senza la distinzione gnoseologica noesis-sensazione e senza l’intuizione intellettiva, principio di verità che trascende l’esperienza e ogni esperibile rende possibile. La «presenza dell’Idea alla mente» è stata variamente interpretata da Agostino, a Bonaventura, a Malebranche, da Rosmini a Blondel, ma è tesi essenziale al platonismo. E ciò fa la «profondità dell’uomo», la sua interiorità, e fonda la sua capacità di filosofare e, a un tempo, l’aspirazione all’infinito.

d) L’affermazione del Trascendente, della Verità in sé, del Valore assoluto e oggettivo. Filosofare è itinerario a Dio, Eros, consapevole indigenza e a un tempo appassionato anelito alla Verità.

e) L’anima è intesa come realtà spirituale, la cui attività essenziale non è quella biologica – destinata a finire con la dissoluzione dell’organismo – ma quella intellettiva e volitiva che la rende affine all’Essere intelligibile e, di conseguenza, immortale.

Platone e Aristotele

Non vi è solo somiglianza, ma identità fra la dottrina aristotelica della materia come soggetto delle mutazioni e la dottrina platonica della materia come luogo della forma. Perciò Aristotele negli otto libri della Fisica cita assai spesso il Timeo. Vi è identità tra le considerazioni aristoteliche e quelle platoniche intorno alla finalità della natura. Aristotele è piuttosto un continuatore che un oppositore di Platone, se si guarda ai due sistemi filosofici nel loro complesso, non riducendo tutti i problemi a quello delle idee.

Platone fu un pioniere: non è da meravigliarsi che abbia proceduto tra incertezze notevoli.

Platone, prima di Aristotele, aveva individuato tutte e quattro le cause necessarie per spiegare il divenire, pur non avendone mai data una esposizione sistematica.

La metafisica dell’Assoluto di fronte al relativo, del perfetto di fronte all’imperfetto è tutta di Platone; quando Aristotele vedrà nell’Assoluto la prima Causa non farà che applicarla. Nell’Inno al Bello che Platone mette in bocca a Diotima nel Simposio sono presenti tutte le caratteristiche proprie dell’Assoluto.

Giunse Platone ad affermare l’unicità dell’Assoluto? Secondo Carlo Giacon sì, senza però darne la dimostrazione; è certo comunque che non si trova in Platone l’idea dell’essere.

Principali interpretazioni del pensiero platonico

Georg Wilhelm Friedrich Hegel: il platonismo è monismo panteistico; l’idea è l’universale concreto in sé.

Edward Caird: monismo spiritualistico e non naturalistico.

Alessandro Chiappelli respinse queste interpretazioni immanentistiche.

Paul Natorp e la Scuola di Marburgo riconducono la reminiscenza platonica all’apriori kantiano come condizione dell’esperienza; le idee sono «ipotesi» interpretative dell’esperienza; l’idea del bene è la legge dell’imperativo categorico.

Alfred Edward Taylor: la dottrina delle idee è di stampo socratico e ha le sue origini in Pitagora. Solo dopo il Parmenide Platone esprime il proprio pensiero.

George Grote: il genio ama rilevare i contrasti.

Cicerone: incostantia Platonis.

Alessandro Chiappelli, Maurice Croiset, Luigi Stefanini: Platone è il poeta della filosofia nel suo svolgimento dialettico e nel suo aspirare al sovrarazionale. Non è vero che vi sia un Platone dommatico e un Platone critico.

Witold Lutoslawsky: lo spirito critico di Platone non nasce nella vecchiaia e la trascendenza delle idee, nota Marie-Dominique Brichard, non scompare nemmeno dalle Leggi.

Eduard Zeller: Platone è troppo poeta per poter essere filosofo compiuto.

Kurt Hildebrandt (Platone. La lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino 1947): interpretazione politicista; esalta il valore umanistico del pensiero platonico e la sua intima connessione con il dramma dell’esistenza umana. Contraddizione fondamentale: «l’idea del bene è la norma mitica senza la quale ogni accadere sarebbe privo di significato». Ma se l’idea del bene è norma mitica, come può conferire all’accadere un significato razionale?

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.

[1] In Giornale di Brescia, 30.1.2002.

[2] In Giornale di Brescia, 19.4.1997 e 21.4.1997.

[3] In Giornale di Brescia, 29.1.1999.