Plotino e il male

Autori: Magris Aldo

1.

Personalmente reputo Plotino (205-270 d.C.) un vertice assoluto della filosofia antica, che pure ebbe tanti altri rappresentanti di ottimo livello. Lui stesso però sembra non avesse un’analoga autostima e semmai dichiarava di non esser altro che un epigono, un semplice interprete e ripetitore della filosofia di Platone[1]. Certo che non era vero; anzi, proprio rispetto a Platone il suo pensiero denota differenze de­cisive: per esempio Platone parte da una visione dualistica in cui ci sono due princìpi (l’intelligibile e il sensibile, l’Uno e la Diade), mentre in Plotino il punto di partenza è monistico perché il principio è uno solo, l’Uno appunto. Tuttavia resta il fatto che la filosofia di Platone e dei platonici è il retroterra cultura­le e il riferimento primario del pensiero plotiniano, e questo vale anche per il problema del male.

Platone impostò il problema del male in una forma che, adottata pure dal cristianesimo, è rimasta canonica fino in età moderna. Essa distingue: (1) il male come imperfezione intrinseca del mondo; (2) il male come danno provocato da fenomeni della natura o da eventi storico-sociali; (3) il male derivante dalle cattive scelte e dai comportamenti dell’uomo.

Come spiega Platone nel dialogo Timeo, il cosmo è stato fabbricato da un anonimo “Dio” (un’invenzione filosofica, non uno dei tanti Dei del culto popolare ellenico) che viene chiamato “demiurgo”: ma non è il suo nome proprio bensì una qualifica “professionale”, quasi una specie di ingegnere[2]. Infatti questo Dio “lavora”, e lo fa non per bisogno ma perché è “buono”. Essendo buono, vuol fare del bene, diffondere il bene senza tenerselo per sé e pertanto si dedica a un “lavoro” che sarà di pubblica utilità più di qualsiasi altro: la formazione di un mondo fisico che rifletta la bontà, la bellezza e la perfe­zione del mondo delle idee. Ma ogni lavoratore opera su un materiale che trova già a disposizione e lo trasforma. Anche Platone parla di un generico materiale e non di “materia” perché non conosce questo concetto (introdotto appena da Aristotele): si tratta di un ammasso “sensibile”, cioè “qualcosa di visibile e toccabile” (anche se non esiste ancora un soggetto umano che veda e tocchi) in uno stato di completo disordine e agitato da forze meccaniche rappresentanti la “necessità”. A questo materiale sensibile il demiurgo si propone di applicare le strutture regolari, razionali, della dimensione intelligibile (le idee, le forme) e il risultato sarà la cosiddetta “Anima del mondo”; tuttavia l’estrema eterogeneità delle due componenti rende il suo lavoro in qualche misura deficitario. Il mondo fisico, con la sua “Anima” (non un soggetto pensante ma un complesso di formule logico-matematiche), per quanto fatto a regola d’arte non sarà mai un clone del mondo intelligibile. Sarà solo una copia limitata e imperfetta, esito di un compromesso tra le buone intenzioni della “provvidenza” divina e i meccanismi della “necessità” intrinseca al materiale, ovvero una copia eseguita bene soltanto “nella misura del possibile”[3]. Ciò spiega che i processi della natura, pur regolari nel loro insieme, diano luogo talvolta a effetti negativi per i singoli che vi sono coinvolti: questa è una conseguenza inevitabile, un danno collaterale implicito nell’ordine comples­sivamente “buono” del mondo. Certo, il demiurgo provvede non solo all’insieme ma anche i singoli, e però lo fa pensando non tanto alla loro utilità immediata quanto piuttosto ad uno scopo di miglioramento morale[4]. Ora, se il male subìto dall’uomo a seguito dell’imperfezione del mondo è solo un danno col­laterale, la forma più grave del male è senz’altro quello che l’uomo medesimo compie e del quale è responsabile. Nel quadro della fondamentale finalità politica che Platone assegna alla sua filosofia, l’autonomia e conse­guente imputabilità della scelta è un dogma intangibile. Le anime, residenti nel mondo divino, quando scendono nel mondo per assumere un corpo sono libere, e vengono giudicate e retribuite in base ai loro comportamenti sui quali il demiurgo non interviene in nessun modo, ma ne prende atto[5]. Quello che nel Timeo è il cosiddet­to demiurgo, nella Repubblica e nelle Leggi è chiamato “Dio”, “Padre”, “Re”, o sempli­cemente il “Bene”, il quale non è principio di tutte le cose, ma solo di quelle buone; delle cose cattive “la colpa è di chi sceglie, Dio non ha colpa”[6]. Detto questo, tuttavia, Platone riconosce che le scelte cattive dell’uomo non si veri­ficherebbero se l’anima non si incarnasse, e venendo a contatto con la corporeità non assumesse anche connotati e funzioni della sensibilità, dell’irrazionalità, che determinano una natura­le inclinazione alle passioni, quindi anche ad azioni malvage. In tali condizioni l’eventualità di fare il male è, per l’anima in­carnata, qualcosa di statisticamente inevitabile. Pertanto la presenza del male in questo mondo corporeo, dice Platone, non si potrà mai cancellare del tutto; l’unica soluzione adeguata sarà allo­ra “andarsene via da qui al più presto, verso il Dio”[7].

Nella filosofia dei “platonici” fra I e III secolo d.C. (la storiografia moderna li definisce “mediopla­tonici”) che oltre tutto conoscono e utilizzano il concetto aristotelico di “materia”[8], era per lo più questa (sia in senso generale sia in quello specifico di corporeità) la causa del male, in quanto essa esercita un con­dizionamento e una pressione determinante sull’attività dell’anima inducendola a optare per l’irrazionale, quantunque la parte superiore dell’anima (l’intelletto) sia normalmente ritenuto capace di libero arbitrio[9]. Altri però riconoscevano una certa incongruenza nel definire causa del male morale una realtà inanimata quale la materia e perciò affermavano che ad essa inerirebbe un’altra Anima (cattiva) del mondo che fa­rebbe da antitesi all’Anima del mondo buona prodotta dal demiurgo[10]. Basterà qui accennare al fatto che l’identificazione della causa del male con la materia (dotata o meno di una sua propria “anima” malvagia), e/o con la corporeità quale prigione delle anime, è ricorrente in molte dottrine religiose tardo-antiche, dai culti greco-orientali allo gnosticismo, al manicheismo e a forme più o meno devianti del cristianesimo dei primi secoli.

2.

Essenzialmente diversa da quella platonica era la posizione della scuola stoica, e dobbiamo parlar­ne perché essa non rimase senza influenza su Plotino.

Secondo gli stoici, Dio non se ne sta al di fuori dell’universo (come per Platone e Aristotele) lavo­rando un materiale eterogeneo e migliorandolo solo “per quanto possibile”; è invece il logos, la “logica” stessa del processo cosmico, lo “spirito” che plasma dall’interno la materia, il “piano” programmato del suo sviluppo, la “provvidenza” che ne guida il corso, il “destino” che ne determina i rapporti di causa-ef­fetto. Ne risulta una universale perfetta “armonia” o, come anche dicono, l’oikonomia, per cui il perfetto ordine universale viene espresso con la metafora della regolare ed efficiente gestione di una casa o di un’azienda[11]. Succede che questa armonia generale generi spiacevoli conseguenze per i singoli esseri, ma tali aspetti negativi non si possono e non si devono eliminare perché, sotto un profilo che potremmo chiamare “ecologico” la loro eliminazione comporterebbe un generale squilibrio e un danno per l’intero sistema. D’altronde le avversità e i disagi della vita non sono affatto dei “mali”, anche se ci sembrano tali: dal punto di vista del valore sono indifferenti (per quanto, fra gli indifferenti è lecito distinguere fra “prefe­ribili” e “non preferibili”)[12]. Bene è soltanto la virtù, cioè il retto, decoroso stile di vita; male è soltanto il vizio, cioè il comportamento indegno e vergognoso. Inoltre le avversità hanno la funzione di temprare il saggio, di abituarlo ad affrontare l’esistenza con coraggio, a non dar peso alle cose meschine. La perfe­zione del sistema cosmico si riconosce non dall’utilità specifica di un singolo fenomeno, ma dall’ottimo legame interno della to­talità del mondo, in vista del quale ogni evento, quantunque spiacevole, deve esse­re riconosciuto e ap­prezzato “conformemente al logos” (homologouménōs)[13].

Così, mentre i platonici coltivavano ante litteram quella che Leibniz definirà coniando il termine pseudogreco “teodicea”, ossia si sforzavano di “giustificare Dio” dell’esistenza dei mali, e a tale scopo snocciolavano una ridicola casistica per dimostrare che il presunto male possiede anche dei lati vantag­giosi (“muor giovane colui che al cielo è caro”, giacché morendo ha evitato i tanti dispiaceri di una vita più lunga)[14], gli stoici non avevano nessun bisogno di una teodicea dal momento che i cosiddetti mali esteriori sono in­differenti e dunque non costituiscono una smentita e tanto meno una messa sotto accusa della provviden­za divina. Il saggio accetta di buon’animo le esperienze negative, convinto che sono co­munque al loro giusto posto “come i versi scurrili che accompagnano una divertente commedia”[15].

3.

Nel 245 Plotino aprì una sua scuola di filosofia a Roma, nella casa di una famiglia d’alto rango di cui era ospite. Colpito da una grave malattia (probabilmente tubercolosi), nel 268 abbandonò la città riti­randosi nella villa di un suo amico nelle vicinanze di Minturno, dove poco tempo dopo si spense. Lascia­va i manoscritti per le sue lezioni romane su diversi argomenti, piuttosto in disordine, che furono pub­blicati dall’allievo Porfirio dopo un faticoso lavoro di revisione durato quasi un quarto di secolo; i testi non furono messi in ordine cronologico di stesura ma raggruppati grossolanamente per argomento in sei sezioni di nove trattati ciascuna, e perciò l’opera venne intitolata Le (sei) Novene (Enneades).

Durante il primo periodo della sua attività didattica romana Plotino prevalentemente si richiama al­le tematiche del medioplatonismo nel quale lui stesso si era formato e, specificamente in merito all’origine del male, di­scute il rapporto fra la corporeità e la degradazione dell’anima. In particolare sono interessanti i trattati ottavo e terzo della seconda Enneade (rispettivamente nr. 6 e nr. 27 cronologico). Nel primo dei due so­stiene la tesi del Timeo che l’incarnazione è di per sé un fatto necessario e positivo, poi­ché è un bene che le anime, appartenenti al mondo divino “scendano” per diffondere l’intelligibile nel sensibile. Questo pe­rò espone a un grave rischio in quanto l’anima nella nuova ambivalente situazione in cui viene a trovarsi, rivolta da un lato alla sua origine superiore e dall’altro al mondo naturale, tende a vi­vere con troppa sol­lecitudine il suo rapporto col corpo e con le necessità materiali, diventa “apostata dal Tutto”, si isola, perde il contatto col mondo delle forme donde proviene e si disperde nel molteplice[16]. Più complessa la trattazione del secondo. Plotino comincia precisando che l’Anima universale è unica, onnipresente nell’intera pluralità delle anime individuali che non ne sono altrettante “parti” scomponibili bensì manifestazioni integrali: coesistono in esse dunque unità e molteplicità, identità e diversità. Però quando le anime individuali devono incarnarsi si “sporgono” per così dire sul margine del mondo intelli­gibile e perdono l’equilibro, cadendo in basso. La caduta le “appe­santisce” perché comporta l’assunzione di molto “altro” da loro (il corpo, i condizionamenti psicofisici, le in­fluenze astrali) e in conseguenza di­ventano più deboli, in qualche modo impedite ad esercitare la loro li­bertà. Si pongono così le premesse per il compiere cattive azioni, per restare irretite e prigioniere del mondo sensibile[17]. Una volta inserita in un corpo e sovraccaricata del suo “peso”, l’anima umana non è più quella di prima, e in certo senso nep­pure del tutto contro un suo nascosto desiderio: infatti non sarà più l’uomo ideale che era nell’eternità ma un “altro uomo bramoso di essere”, bramoso di vivere per sé come individuo sin­golo nel tempo[18].

Per il secondo periodo è significativo fra gli altri il grande trattato sulla provvidenza (che Porfirio divise in due come secondo e terzo della III Enneade; sono il nr. 47 e 48 cronologico), dove si manifesta una decisa svolta del pensiero di Plotino dal medioplatonismo verso lo stoicismo. Non a caso qui impie­ga con un ruolo importante il concetto stoico, e non platonico né medioplatonico, di logos.

Il logos è un disegno complessivo che provvede al cosmo intero avendolo già programmato. Ciò si­gnifica che il suo “provvedere” non è una semplice opera di beneficienza. Suo compito non è di calcola­re caso per caso quanto sarebbe bene per i singoli esseri e fornirglielo con generosità, evitando che si trovino a mal partito. I viventi sono già spontaneamente forniti di determinati strumenti naturali non af­fin­ché possano svolgere una determinata funzione (per esempio gli occhi per vedere, gli artigli per cac­ciare) ma perché tali organi già appartengono da sempre alla forma o idea di cui sono esempi concreti e quindi riflettono nella loro struttura fisica. Il “bene” di una cosa, infatti, non è visto da Plotino in senso utilitaristico ma onto­logico: bene per una cosa è essere sé stessa, cioè coerente con la propria forma[19]. Inoltre il logos ovvero la provvidenza non favorisce (contrariamente a Platone)[20] i singoli esseri in quanto tali, ma gestisce l’unità e l’armonia nascosta delle differenze, che pur nel loro conflitto, rientrano ugualmente nell’unità del suo piano. In tal senso il mondo della provvidenza viene paragonato allo spettacolo di un teatro dove gli uomini sono attori che recitano la loro parte, buona o cattiva che sia, e contrastano fra lo­ro, ma sempre in ba­se all’unico spar­tito preparato dal divino regista, e comunque non senza quel margine di libertà concesso alla loro variamente peggiore o migliore performance[21].

Giudicare quali esempi del “male” le avversità, le malattie, le disgrazie, dipende da fatto che ci si basa su valori inconsistenti (per gli stoici: indifferenti) e si ragiona in conformità alle effimere esigenze dell’esistenza corporea. Il saggio si eleva a una visione della totalità dove ogni cosa ha il suo senso (anche il fenomeno o l’evento che ci urta) e pertanto è sempre sereno osservando l’accadere da un punto di vi­sta più alto. Il che è possibile poiché l’anima ha una sua parte superiore ancora radicata nel mondo intel­ligibile, incapace di soffrire dolore, mentre la parte inferiore è soggetta a sentimenti e passioni a causa della vicinanza al corpo, che la assorbe e le fa perdere la coscienza di sé stessa[22].

In questa seconda fase Plotino matura la sua concezione definitiva sull’origine del male, che viene decisamente identificata con la materia. Infatti l’anima che soffre o che commette il male, del quale subi­sce ovviamente la pena che merita, è sempre solo quella che già si trova legata alla materia. Ma nel bino­mio anima-materia la causa del male può inerire esclusivamente al secondo membro, non al primo, giac­ché l’anima è per natura sua buona, divina, per quanto appesantita, offuscata, deformata dall’incarnazione[23]. Però a questo punto sorge un problema non da poco: come mai possiamo attribuire re­sponsabilità d’essere origine e causa del male alla materia, tenuto conto che secondo Plotino la mate­ria strettamente intesa non esiste? Per rispondere è necessario esaminare più in dettaglio il cuore della filo­sofia plotiniana: la dottrina dei princìpi.

4.

Abbiamo detto che Plotino elabora il suo sistema filosofico a partire da un unico principio e non ne propone due antitetici, a differenza di pensatori come Platone, Cartesio, Kant, Schopenhauer ed altri. Che il principio sia l’“Uno” non vuol dire che sia “una” cosa messa a capo di una serie di cose, né il nu­mero 1 cui seguono tutti i numeri né un ente primo, un ente supremo, quindi in nessun caso un Dio “unico”, anche se poi l’Uno neoplatonico verrà falsamente interpretato dalla filosofia araba come una prova dell’unicità aritmetica di Dio, del tawhīd islamico. Certo, l’Uno come principio è alla base di tutte le cose in quanto qualsiasi singola cosa non è tale perché è cosa ma anzitutto perché è una cosa, una con sé stessa, quella certa cosa distinta dalle altre e pertanto riconoscibile, identificabile. Come dunque ogni co­sa dapprima è “una” (cosa) e poi “è” (una cosa), così secondo Plotino la pura unicità dell’Uno, non la sua entità, viene prima o metaforicamente sta al di sopra dell’“essere” in generale. La differenza è che la cosa, l’ente qualsiasi, oltre alla pura unità con stesso possiede anche molto altro da ciò, vale a dire qualità, proprietà, relazioni di vario tipo con molteplici altre cose. L’Uno invece non è correlato a nient’altro, è “sciolto” da ogni alterità: absolutus in latino, apólytos in greco, e Plotino preferisce chiamarlo il “Semplice” (haploûs)[24] per eccellenza. Insomma il Principio, l’Uno, è solo ed esclusivamente unità, solo assolutamente Sé stesso e per questo anche il Sé (relativo) di tutto il resto. L’unità con sé dell’Uno è però l’unica autentica “realtà”, per così dire, per la quale Plotino usa il termine hypóstasis: il sostegno, il supporto, la base, il principio[25].

Ma perché mai l’Uno non è rimasto solo Sé stesso e invece ne è derivato anche altro, cioè il molte­plice? È l’immenso problema filosofico cui allude Nietzsche nella poesia Sils-Maria: “E d’improvviso, amica!, l’Uno divenne Due – e Zarathustra mi passò vicino…”. Plotino risponde che il Sé assoluto è massima pienezza e sovrabbondanza (giacché l’“altro” non sarebbe un acquisto costruttivo bensì solo un peso, una deformazione, come il corpo per l’anima) e quindi deborda, si comunica, si espande, e tale espansione è nel linguaggio plotiniano la “processione” lungo la quale dal Principio si dipana progressi­vamente il principiato. Siccome però l’Uno non è una cosa, un ente, una sostanza spirituale in qualche modo estesa, non bisogna imma­ginare che esso esponga fuori di sé un pezzo ritagliato dal suo contenu­to, o che si sparpagli frammen­tandosi. Non c’è nulla di “sostanziale” nel senso fisico-oggettivo del ter­mine nell’Uno o fuori dall’Uno, e neppure un “luogo” dove questa sostanza possa depositarsi. Oltre all’Uno non può “esserci” niente se non un’immagine dell’Uno generata dall’Uno stesso[26]. Immagine vuol di­re forma, e appunto ciò che l’Uno “genera”, cioè il “Due” (la seconda hypóstasis derivata dalla prima ma non per creazione, o emana­zione, o partizione,) sono le forme, le idee, che sono appunto altrettante im­magini rifratte dell’unità origi­naria poiché ognuna di esse ne presenta una miniatura settoriale, essendo l’idea il modello unificante di una specifica classe di copie. Le forme sono – platonicamente – “ciò che veramente è”, dunque la se­conda ipostasi è l’essere intelligibile. Terza ipostasi è l’Anima universale, anch’essa a suo modo un suppor­to e un principio derivato, però è mobile, perché incaricata di trasmettere le forme nella dimensione infe­riore e di promuovere qui la vita.

Fino a questo punto la “realtà” è esclusivamente forma ossia immagine (dell’Uno) a diversi livelli, non cosa­lità e tanto meno materialità. Ma questa forma deve pur apparire perché un’immagine è ciò che di qualcosa appare in altro o come altro. Per apparire, la forma si deve riflettere su uno sfondo e di qui rimbalzare verso colui che la deve percepire, come in uno specchio. Lo specchio che, facendo rimbalzare la forma, la fa apparire come immagine è la metafora con cui Plotino descrive la materia[27].

Occorre precisare che la materia non è il livello conclusivo della “processione” delle forme a partire dall’Uno. Ultimo livello è l’Anima universale e le anime individuali ch’essa contiene, nelle quali l’Anima si rifrange allo stesso modo in cui l’Uno si rifrange nella pluralità delle idee. Non si procede ulteriormente. Allora, siccome l’essere è solo quello delle forme (anche l’Anima deriva originariamente dalla sfera della forma costituendone l’appendice mobile, dinamica), la materia non essendo per definizione forma non c’è, non “esiste” in quanto tale; vale soltanto come limite oscuro dove la “luce” proiettata dall’espansione dell’Uno (metafora spesso usata da Plotino) si arresta. Ma perché ci dev’essere un limite? Perché l’Uno bensì è abissale, non ha limiti, mentre la sua immagine è finita; le immagini si estendono fino a un certo punto, poi non c’è niente. Questo niente fa da sfondo e da specchio. Proprio qui si vede come parados­salmen­te questa materia, pur priva di forma e pertanto non identificabile, afferrabile, pensabile, pur ri­sultando un non-essere sotto ogni aspetto, abbia tuttavia una funzione necessaria entro la logica della processione. Come la luce è fatta per illuminare la tenebra, e rimbalzando su di essa fornirci di rimando l’aspetto delle cose altrimenti impercettibili, così la forma rimbalza sullo specchio in sé vuoto della mate­ria certo senza attaccarvisi, senza restarvi inghiottita e senza lasciarvi niente di sé: però se ciò non avve­nisse la forma stessa non apparirebbe e resterebbe inutile. Ma il rapporto forma/materia, per quanto estrinseco, è pur sempre un rapporto che consente alla materia di passare dall’assoluta non-esistenza a una qualche appa­renza. La materia pura e semplice non appare né potrebbe apparire perché non ha for­ma, non ha imma­gine; la forma, che sola appare, si porta dietro però anche il lembo di oscurità che ha illuminato, cioè la materia strutturata sotto specie del (suo) corpo.

5.

Del bene e del male Plotino ha una concezione ontologica, non etica. Bene fondamentalmente è l’essere, male il non-essere. Però non è proprio così. Il Bene secondo lui è l’Uno, ma l’Uno non è l’essere, perché l’essere sono le forme e l’Uno non è una forma fra le tante ma l’origine e fonte di tutte le forme, sue immagini rifratte. Il non-essere (la pura materia) non è forma, non si vede e non si pensa, poiché noi possiamo percepire e pensare solo una materia già collegata a una forma come corporeità di un ente fisico[28]. Tuttavia questo non-essere della pura materia non è tanto astratto come in Parmenide: è un non-essere per così dire “dinamico”, anzi “aggressivo”, perché nella sua assoluta povertà (di forma) cerca disperatamente di riempirsi di forma per poter apparire e tuttavia, a differenza della forma, non appare mai di per sé[29]. Appare solo la forma riflessa dallo specchio costituito dalla pura materia, mentre lo specchio a ciò servito resta vuoto né più né meno di prima, avendo avuto esclusivamente la funzione di far apparire qualcos’altro da sé, cioè la forma, che però trascina con sé quella dose di materia di cui si è servita per apparire. D’altronde la pura materia non ha un Sé, un’identità che, nuo­vamente, solo la forma quale immagine dell’Uno (Sé assoluto e identità assoluta) le potrebbe conferire.

Il non-essere della materia non è da intendere come un polo opposto all’Uno, al quale sembre­rebbe assomigliare, al contrario, poiché pure l’Uno si direbbe non-essere in quanto al di là dell’essere. Ma le cose sono diverse. La materia come non-essere è opposta non all’Uno ma all’essere che consiste nella dimensione delle idee, le forma realmente essenti, cioè la seconda ipostasi, non la prima.[30]

Il non-essere materiale è solo uno sfondo (uno specchio) che di per sé non è niente, essendo privo di forma. Perciò ha in sé qualcosa di illusorio, di mancante[31]. Sa solo non esisterebbe mai se non ci fosse una forma che in qualche modo ne partecipa, ne viene a contatto. E tuttavia la forma non è mai mescolata alla materia: restano fra loro impenetrabili, estrinseche l’una all’altra, tanto quanto la mia faccia e lo spec­chio nella quale la vedo riflessa. Ciò spiega che il male, derivante dal rapporto sia pure estrinseco di forma e materia in questo mondo, non possa mai esser tale in assoluto, a differenza della materia pura e semplice.

Plotino distingue un “primo” e un “secondo” male[32]. Il primo male è la materia prima, che non esiste di per sé ma soltanto in funzione dell’apparire della forma, come condizione necessaria di questo apparire. Il secondo male inerisce alla corporeità in quanto materia apparentemente rivestita dalla forma. Ma a questo secondo livello il male è anche già coinvolto nello spazio nel quale agisce e domina il logos, sottoposto quindi al suo disegno, e appare di conseguenza ambivalente, misto, parziale. Non c’è un male che non si riveli per altri versi anche un bene, perché la negatività assoluta della materia viene alterata dal fatto di comparire (per il suo rapporto con le forme, con le anime) all’interno del piano della provvidenza. Allora anche le manifestazioni concrete del male devono essere viste con altri occhi, e in ciò trova senso anche la dottrina dei platonici secondo cui la provvidenza trasforma il male, almeno parzialmente o per certi aspetti, in bene. Plotino però insiste piuttosto su un tema tipicamente stoico: il saggio si pone da un punto di vista superiore dove il male (il secondo) è ambivalente o non veramente tale.

L’uomo subisce o addirittura commette il male, in questo caso non senza imputabilità, ma anche perché si trova in una situazione complessa. Non si tratta di deresponsabilizzarlo, né di dire che il male commesso non esiste, ma di avere una certa “comprensione”[33] per la sua debolezza e comunque consi­derare sempre i singoli fatti nel quadro dell’insieme: un atto in sé malvagio può avere altri significati, altri nessi e altre conseguenze. Resta il principio però che il male non si esaurisce in ciò che di male fanno o subiscono gli esseri viventi. Il male (il primo) c’era già prima nella tenebra della pura materia come limite esterno della processione partita dall’Uno, ben prima delle scelte colpevoli degli uomini che vogliono vi­vere secondo le tenebre. Il male, ontologicamente, è un elemento interno alla logica della processione, non un fenomeno esclusivamente etico[34].

NOTE

[1]  Enneadi, VI, 1.8.

[2] In greco dēmiuourgós, “colui che lavora per il popolo”, vuol dire uno che non vive di rendita, come i possidenti, e nep­pure si alimenta con i prodotti della propria campagna, come i contadini, ma si mantiene con i proventi del suo mestiere, mes­so a disposizione del pubblico: quindi un “professionista”, diremmo noi, ad esempio medico, artigiano, avvocato ecc.

[3] Timeo, 29e-30d.

[4] Un esempio è la scatola cranica umana, che risulta fragile e si sarebbe potuto meglio proteggerla con un adeguato ri­vestimento muscolare; però questo secondo Platone avrebbe appesantito il cervello e quindi indebolito la facoltà di pensare che è la cosa più importante per la formazione etica dell’uomo (Timeo, 75c).

[5] Timeo, 41e.

[6] Repubblica, II, 377a e sgg.; X, 617e, leggi, X, 904c.

[7] Teeteto, 176a.

[8] Hýlē che peraltro in greco voleva dire in origine “bosco” (ted. Wal-d), e quindi “legname” da costruzione, materiale.

[9] Numenio, fr. 52 Des Places; Cronio, fr. D6 Leemans; Arpocrazione, fr. 16 Gioè.

[10] Plutarco, La procreazione dell’Anima nel Timeo, 6; Attico, frr. 23 e 26 Des Places.

[11] Frammenti degli stoici antichi (tr. it. Rusconi, Milano 1998), II, frr. 13; 913; 925; 937 Arnim

[12] Frammenti degli stoici antichi, III, frr. 70; 117-123; 127-136 Arnim.

[13] Frammenti degli stoici antichi, I, fr. 179 Arnim.

[14] Era un verso di Menandro, ripreso da Leopardi; l’argomento viene commentato nel senso della teodicea mediopla­tonica da Plutarco, Consolazione ad Apollonio, 38.

[15][15][15] Frammenti degli stoici antichi, II, fr. 1181 Arnim; Marco Aurelio, A sé stesso, VI, 42.

[16] IV, 8.22.

[17] IV, 3.15.

[18] IV, 4.14 (nr. 22 cronologico). Questa metafora del personaggio divino che mosso da curiosità, quasi da “desiderio” di altro, esce dal suo mondo per andare a vivere nei livelli inferiori è di origine gnostica.

[19] III, 2.2; VI, 7.3; VI, 5.1.

[20] Cfr. Leggi, X, 900c-901c: la provvidenza si occupa anche delle “minime” cose, però in funzione del Tutto.

[21] III, 2.16-18. Traduco con performance il greco hypókrisis. Lo hypokritēs è l’“attore”.

[22] Tema frequente negli ultimi trattati I, 4 (nr. 46 cronologico) e I, 1 (nr. 53).

[23] II, 4; III, 6.82.

[24] Il vocabolo greco viene dalla rad. PEL, “piegare”, come it. “com-plesso”, “im-plicito”, e ted. Falte, fr. pli; tuttavia non vuol dire “senza-pieghe” perché davanti non c’è un alfa privativo ma uno ha– abbreviazione di hama, “insieme”, di cui l’aspirata in altre lingue indoeuropee diventa s (lat. sim-plex, ted. sam- di säm-tlich, zu-sam-men). Ciò significa che la “semplicità” non è il fatto di non avere “pieghe” ma che il soggetto in questione fa piega insieme con sé medesimo, è lui stesso una sola piega – la sua – e basta: difatti in ted. “semplice” si dice ein-fach. Non si può non ricordare qui le penetranti considerazioni sul modello ontologico della “piega” di Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque (1988).

[25] Hypóstasis, lo “star-sotto”, si potrebbe rendere con “so-stanza” ma senza il minimo nesso con il concetto metafisico di sostanza in senso aristotelico, tanto più che Aristotele per definire la sua nozione “sostanza” individuale (oggetto, vivente o Dio) non impiega mai hypóstasis bensì ousía, letteralmente “ent-ità”.

[26] V, 4.1 [7 cronol.]; V, 1.6 [10]; V, 2.1[11]; VI, 8.19 [39].

[27] III, 6.7-17 [26 cronol.].

[28] III, 8.7 [30 cronol.]; V, 8.7 [31]

[29] Anche questa metafora dell’aggressività inutile della materia, o delle “tenebre”, o del male, è di origine gnostica.

[30] Proclo cercherà di rigorizzare il sistema dicendo che il male è al di sotto del non-essere, come il Bene (cioè l’Uno) è al di sopra dell’essere intelligibìbile. Ma questo è più un gusto di simmetria che non una spiegazione teoretica.

[31] In questo senso il male è “mancanza” (èlleipsis).

[32] I, 8.21.

[33] III; 2.17.

[34] Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’8.3.2018 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.