Potenza e impotenza della ragione

Karl Jaspers, in un’opera della fase più matura del suo pensiero, “Ragione e antiragione” (trad. it. Sansoni), ha rinunciato a caratterizzare il suo atteggiamento come filosofia dell’esistenza per presentarlo piuttosto come filosofia della ragione, perché «se la ragione va perduta, va perduta anche la filosofia» e, noi aggiungiamo, vanno perduti tutti i valori di cui si alimenta la civiltà. L’avversario della ragione – scrive Jaspers – è lo spirito dell’antiragione. Questa assai spesso avanza e domina le intelligenze, servendosi proprio del linguaggio della ragione, padroneggiato talora con somma maestria, pur essendo intimamente estraneo allo spirito di verità, che è la prima e fondamentale espressione della libertà interiore. «Col sacrificio della libertà della ragione la non filosofia prepara l’uomo alla illibertà politica». Il filosofo, nella sua lotta per la ragione e per la libertà dell’uomo, si trova dinanzi alla necessità di un’opzione fondamentale: la ricerca della verità, per ostica, impopolare, pericolosa che possa essere, o l’adulazione di potenti e di folle mediante la giustificazione e il consolidamento di idee correnti e dominanti. Insomma, o ci si pone e si cammina nello spirito di ricerca disinteressata della verità o si è fuori della filosofia; o si è uomini e filosofi con Socrate, o si è sofisti con i Sofisti. Certo, chi si guarda intorno può essere tentato di vedere in questo nostro tempo il trionfo dell’irrazionale, tanto grande è la babilonia delle idee e tanto incessanti sono la produzione e la diffusione di vere e proprie «mitologie dell’anti-ragione», che non si conoscono e non si danno a conoscere per tali. Tuttavia non si deve affatto indulgere a un pessimismo fatale, che sarebbe più assurdo delle assurdità scaturienti da un corrotto modo di pensare e di vivere. L’inautentico, infatti, suppone l’autentico, altrimenti non si potrebbe riconoscerlo, né se ne potrebbe parlare. Oggi il compito più urgente è quello di riscoprire l’autenticità dei valori attraverso la ricognizione e la critica dei disvalori nei vari aspetti che essi assumono nelle attività fondamentali dell’uomo.

L’inautentico, dicevamo, suppone l’autentico e i disvalori logicamente rinviano a quei valori di cui sono la caricatura o la negazione. Tuttavia la filosofia contemporanea è per tanta parte caratterizzata dal tentativo – ripetuto, sistematico, ossessionante come un leit-motiv – di prescindere dal problema dei valori, di espugnare i valori dalla realtà e di negare, come per tanti anni fece Benedetto Croce, la possibilità stessa del giudizio di valore arbitrariamente contratto nel giudizio storico. Su questo punto, che è di decisiva importanza, si deve però ricordare che le grandi ragioni dell’umanità e la delineazione dei fini del processo formativo dei figli degli uomini, in ultima analisi, hanno avuto partita vinta sull’agnosticismo nei confronti dei valori, almeno negli spiriti più nobilmente pensosi. In essi, infatti, una contraddizione estremamente significativa è venuta alla luce, quasi a testimoniare il livello superiore della loro personale umanità sulle loro stesse teorie. Particolarmente interessante è, in proposito, non solo l’evoluzione della filosofia del Croce, a partire almeno dal 1938, l’anno dell’opera sua più drammatica, “La storia come pensiero e come azione”, ma anche l’apertura ai valori dell’ultimo John Dewey e il tormentoso oscillare di Jean Piaget, fra l’inconoscibilità dei valori e l’energica affermazione di essi come meta dell’educazione, nel suo libro teoreticamente più impegnativo, “Saggezza e illusione della filosofia” (trad. it. Einaudi). Nel maggiore dei filosofi americani l’esigenza dei valori si è fatta più viva ed ansiosa specialmente negli anni del secondo conflitto mondiale. Il Borghi ebbe a notare come il pensiero dell’ultimo Dewey sia ispirato ad «una sete inappagata di valore» e si sforzi di «scavare il terreno sotto i dati del suo naturalismo» (“J. Dewey e il pensiero pedagogico contemporaneo degli Usa”, Firenze, p. 241). Dewey ha voluto scavare sotto il suo naturalismo, analogamente a quanto, nello stesso tempo, ha fatto Croce nei confronti del suo idealismo, per farne scaturire quei valori che possono dare un fondamento alle aspirazioni più profonde dell’umanità: aspirazioni che assumono in certi periodi storici una più tragica intensità.

La posizione del Piaget sul tema fondamentale del senso della vita e dell’educazione ai valori non è meno aporetica. Il pensatore svizzero avanza riserve sul positivismo e sul neo-positivismo logico. Il primo «ignora o sottovaluta l’attività del soggetto a profitto della semplice constatazione o della generalizzazione delle leggi costanti»; il secondo riduce la totalità del reale e lo stesso linguaggio al fisicismo, prospettando così una visione limitativa dei problemi ed un metodo che vorrebbe essere scientifico ed è aprioristico. Tuttavia la critica del Piaget, pur prendendo le distanze dalle unilateralità più gravi dello scientismo otto e novecentesco, è inficiata da un consenso di fondo. Il Piaget avverte come problema centrale della vita e dell’educazione l’opzione per valori che impegnino tutto l’essere; nello stesso tempo, però, dichiara illusorio l’oggetto stesso della scelta perché nega lo statuto ontologico dei valori e giudica, da buon positivista, «senza significato dal punto di vista cognitivo» il problema del senso della vita o della finalità. Quindi, per un verso ci si inchina ai valori, che danno significato alla vita dei singoli e dei popoli; per l’altro verso, però, si sostiene, come Gorgia, che quei valori non ci sono e, quand’anche ci fossero, non li potremmo conoscere. Ma allora come potremo suscitare negli altri, attraverso l’educazione, la coscienza e l’amore per quei valori che rendono degna la vita? Francamente non si riescono a spiegare contraddizioni così grandi in menti che pure hanno dato, in campi diversi, contributi geniali.

Un’ultima osservazione. Trattandosi di filosofi, non è affatto sufficiente una dichiarazione di fede morale per porre rimedio ai guasti prodotti da dottrine alla cui diffusione essi stessi hanno contribuito, grazie anche alla loro superiore capacità dialettica. In fondo essi tornano a riproporci, in maniera appena sottaciuta, il dualismo fra la presunta impotenza della ragione, in quanto teoretica, e la compensazione che la stessa ragione è autorizzata a concedersi, in quanto pratica. Ma là dove non riuscì il genio speculativo di Kant è ben difficile che altri faccia intendere come si possa e si debba credere a ciò cui si rifiuta ogni effettiva giustificazione logica.

Giornale di Brescia, 24 luglio 1990.