Weber e Jonas

Il concetto di responsabilità, nonostante la sua origine piuttosto recente, porta con sé una grande varietà di significati. Nel tentativo di enumerarne alcuni, H.L.A. Hart, nel suo libro Responsabilità e pena, racconta la storia di un capitano ubriaco che ha perso in mare la propria nave:

«Come capitano della nave, X era responsabile della sicurezza dei propri passeggeri e equipaggio. Ma durante il suo ultimo viaggio egli si ubriacò ogni sera, e fu responsabile della perdita della nave con tutto ciò che trasportava. Si disse che fosse pazzo, ma i medici ritennero che fosse responsabile delle proprie azioni. Per tutto il viaggio si comportò in modo del tutto irresponsabile, e vari incidenti nella sua carriera mostrano che egli non era una persona responsabile. Egli sostenne sempre che le eccezionali tempeste invernali erano responsabili per la perdita della nave, ma nelle azioni legali intraprese contro di lui egli fu dichiarato penalmente responsabile per il suo comportamento negligente e in azioni civili separate fu ritenuto legalmente responsabile per la perdita di vite e beni. Egli è tuttora vivo, ed è moralmente responsabile della morte di molte donne e bambini»[1].

Da questo breve racconto, Hart ritiene di poter individuare almeno quattro significati del termine “responsabile”: a) responsabile nel senso di persona che riveste un ruolo o svolge un incarico ufficiale (ad esempio il «responsabile» di un ufficio); b) responsabile nel senso di agente causale di un determinato avvenimento (in questo senso anche eventi naturali, quali le tempeste, possono essere responsabili di un naufragio); c) responsabile nel senso di “imputabile” (ossia soggetto morale o giuridico cui può essere imputata una determinata azione, l’eventuale colpa ad esso connessa o l’obbligo di risarcimento, come nel caso della responsabilità morale o giuridica sul piano civile o penale); d) responsabile nel senso di persona capace di agire con consapevolezza e giudizio.

 1. Un impegno reciproco di fronte all’incertezza

Di fronte a questa varietà di significati non è forse inutile ricostruire le radici di questo concetto. Il termine ‘responsabilità’ ha le sue radici nel latino respondeo a sua volta proveniente da spondeo[2]. Questo verbo è specializzato in senso giuridico e significa «portarsi garante in giustizia, dare la propria cauzione personale per qualcuno». Lo si trova consacrato nella terminologia del matrimonio (da cui appunto sponsus e sponsa): quando il pretendente domanda al padre della sposa: «Ti impegni a darmi tua figlia in sposa?» il padre risponde: Spondeo, ossia «mi impegno». È l’offerta di una garanzia di una sicurezza. Lo stesso tema si trova nel verbo greco spendo, che significa «offro una libagione» agli dèi, cosa che avviene, ad esempio, prima di cominciare un’impresa rischiosa nel tentativo di garantirsi la salvezza. Nell’evoluzione successiva della lingua greca il verbo non significherà più «chiamo gli dèi come garanti di un’impresa», ma «prendersi reciprocamente a garanti», «impegnarsi l’uno di fronte all’altro», nel momento in cui si stipula un patto. Il senso sociale del concetto si sviluppa dal senso religioso.

Il termine respondeo esprime la reciprocità di questo impegno: la sponsio è l’impegno di uno, la responsio è l’impegno dell’altro, la garanzia della sicurezza reciproca. Da questa garanzia scambiata (cfr. rispondere di …) nasce il senso del respondere latino. Respondere, responsum si dice degli interpreti degli dèi che, in cambio dell’offerta, danno la sicurezza: la risposta dell’oracolo. Una risposta che appare «garantita» dalla competenza di chi la dà: di qui il respondere de iure, ossia il «dare una consultazione di diritto» che è la prestazione tipica del giurista.

Nella lingua germanica c’è l’espressione corrispondente: answer (o antwort) è and-swaran, che deriva da swaran=swear, ossia giurare, dunque pronunciare parole solenni. Questo significato di «risposta solenne» in seguito ad una promessa, o ad una richiesta si trova non solo nell’originaria radice latina del termine, ma anche nei suoi derivati responsabile e responsabilità nelle lingue moderne. Il tedesco Verantwortung (costruito attraverso un calco sul respondeo) che, si trova attestato a partire dal XV secolo, significa precisamente «risposta», ma anche «apologia» ossia «giustificazione di fronte a un tribunale», sia questo un tribunale umano o divino. Da questo significato concreto si passa successivamente – verso il XVIII secolo – a un significato più astratto: Verantwortung non indica più la risposta concreta che si è tenuti a dare, ma la situazione del dover rispondere, del doversi giustificare di fronte a qualcuno[3]. Analogo significato lo si riscontra sul versante della lingua inglese e francese, con qualche elemento in più. Emerge prima l’aggettivo responsable o responsible già nel XIV secolo in francese e nel XVI in inglese, ad indicare «colui che deve rispondere», che è «ammissibile in giudizio», ma anche – e qui l’elemento ulteriore – colui che «può resistere», che è «capace di resistere». Il dovere di rispondere designa anche progressivamente una capacità, un requisito positivo: uomo responsabile significa anche uomo degno di fiducia, onesto, rispettabile.

Da questa breve ricognizione sulle radici linguistiche del termine è possibile enucleare alcuni elementi ricorrenti. Il luogo del sorgere della problematica della responsabilità è l’orizzonte delle relazioni interpersonali e in particolare della loro dimensione giuridica e sociale in connessione anche con la sfera del sacro. La situazione in cui la problematica emerge è una situazione di ‘incertezza’ dovuta alla presenza di un rischio; tale rischio può essere costituito anche e solo dal fattore tempo, ossia dal fatto che l’azione, che i soggetti decidono di intraprendere, giungerà a compimento in un futuro in cui, al di là delle volontà soggettive, anche le condizioni oggettive possono mutare. A questa incertezza si cerca di rispondere con un atto solenne, spesso con il richiamo alla sfera del sacro, in ogni caso sempre attraverso un impegno. Questo atto soggettivo di impegno – rafforzato da un sostegno divino o patrimoniale – elimina o per lo meno neutralizza l’incertezza. Nella situazione di incertezza, che, se lasciata a se stessa, inibirebbe l’azione, qualcuno si offre come garante, assumendo su di sé il rischio morale o materiale dell’agire.

  1. Il sorgere della responsabilità pubblica

Il sostantivo responsibility o responsabilité nella lingua inglese e francese compare invece piuttosto tardi: a parte qualche uso isolato, entra nell’uso comune nel XVIII secolo in contesti politici con riferimento soprattutto al problema della responsabilità dei ministri e dei funzionari che va a compensare la non responsabilità del re e viene a segnare un modo nuovo di concepire l’amministrazione[4]. La Fayette utilizza questo termine nel progetto di Dichiarazione dei diritti dell’uomo del luglio 1789: «Tutto il governo ha come unico fine il bene comune. Questo interesse esige che i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, siano distinti e definiti, e che la loro organizzazione assicuri la rappresentanza libera dei cittadini, la responsabilità dei funzionari e l’imparzialità dei giudici»[5]. Il termine entra così nel linguaggio ufficiale e il Dictionnaire de l’Académie française del 1798 ne dà la seguente definizione: «obbligazione legale di rispondere delle proprie azioni, di essere garante di qualche cosa […]. Si applica a Ministri, a uomini pubblici»[6]. Dal problema della responsabilità dei funzionari e di quella dei ministri nei confronti del Parlamento si passa così al problema della responsabilità del governo di fronte ai cittadini[7], problema strettamente intrecciato al problema della rappresentanza, delle sue forme di esercizio e di controllo.

È interessante notare come l’affermarsi del termine responsabilità nel linguaggio giuridico e politico avvenga tra Settecento e Ottocento passando attraverso il dibattito sulla rappresentanza e la temperie rivoluzionaria. Anche il linguaggio filosofico registra questo cambiamento nello stesso periodo: il termine non compare ancora in Kant, dove si parla invece, conformemente all’uso tradizionale, di imputazione ed appare invece immediatamente dopo in Hegel[8]. Il passaggio non è rilevante solo sul piano linguistico: come ha sottolineato Ricoeur[9], mentre nell‘imputabilità l’attenzione è posta sul momento dell’attribuzione di un’azione ad un soggetto e dunque sulla causa di un’azione e sulla colpa, la responsabilità pare invece più preoccupata di sottolineare il momento delle conseguenze, e dunque il problema della punizione e soprattutto della riparazione di un danno. Come si vede, il passaggio è rilevante sul piano morale: nel primo caso la preoccupazione è l’attribuzione di una colpa, ossia, per così dire il suo inizio, nel secondo caso la preoccupazione è il suo superamento, ossia il risarcimento. Nel primo caso si guarda al passato, nel secondo al futuro, con uno spostamento dalla centralità del soggetto a quella dell’oggetto.

  1. Tre grandi eredità

Ma accanto alle radici linguistiche, nel concetto di responsabilità pubblica, che emerge alla fine del ‘700, si sedimentano per così dire contenuti etico-giuridici e pratiche istituzionali provenienti da tradizioni diverse. Seguendo l’analisi che ne ha fatto Hans Maier, possiamo ritrovare nel concetto di responsabilità l’eredità di tre tradizioni, quella greco‑romana, quella cristiana, quella moderna:

«Detto in forma di tesi: l’età antica ha sviluppato la concezione della dedizione del cittadino alla polis; il cristianesimo ha posto all’agire politico l’obbligo di render conto a Dio e alla coscienza; l’età moderna ha operato una divisione del potere e ha creato degli ambiti di responsabilità controllabili. Tutti i sistemi attuali di responsabilità, tutte le forme di responsible government costituiscono degli intrecci complessi di questi elementi provenienti dalle tradizioni»[10].

La prima eredità che la responsabilità porta con sé è quella dell’antica virtù civica, che caratterizzava il mondo antico e che nell’età delle rivoluzioni conosce nuovamente una grande fortuna: la responsabilità pubblica è in primo luogo il vivere facendosi carico di ciò che è «generale», anzi identificandosi con esso tanto da vedere nell’orizzonte della città il senso stesso della propria esistenza storica. Questa dedizione al tutto, questa passione per la partecipazione si accompagna al rifiuto dell’orizzonte del «particolare» considerato come qualche cosa di negativo:

«Il bios politikós, la vita civile, come qui viene intesa, trae il suo pathos dalla de‑individualizzazione radicale: non a caso la controparte del polítês è l’idiótês, colui che è rinchiuso negli idía, nel privato, nel locale, nel particolare. De‑individualizzazione e identificazione con la comunità civile stanno all’inizio della politica occidentale. Questa origine è presente ancora per molti secoli dentro l’età moderna: così, per esempio, quando Carlo V definisce i suoi avversari come ‘particuliers’, o quando Hegel definisce l”agire arbitrario’ e la ‘singolarità’ come il polo negativo dello Stato, o quando Marx difende la cultura civile contro quella che egli chiama ‑ da buon ‘greco’ ‑ l”idiozia della vita di campagna’»[11].

La seconda eredità è quella ebraico-cristiana, ed è condensata nell’idea di un universale dover render conto delle proprie azioni, che tocca ogni uomo, dal più ricco al più povero, dal più debole al più potente. La responsabilità ha qui il senso di una risposta dovuta. La si vede analizzando il racconto di Adamo e di Caino. Il Dio ebraico e cristiano è un Dio che non domanda: «Che cosa hai fatto?», ma: «Dove sei? Dove è?», ossia: «Che cosa ne hai fatto?», della tua vita, di tuo fratello. Prima che delle proprie azioni si è responsabili dell’essere. È l’essere stesso la fonte di un’obbligazione: il mio essere e l’essere degli altri, così come si trova espresso da Jonas attraverso l’immagine del neonato «il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un ‘devi’ all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui»[12] o da Lévinas che riprende un analogo esempio parlando del «volto» del prossimo: «Nella prossimità, l’assolutamente altro, l’Estraneo che ‘non ho concepito né partorito’, l’ho già in braccio, già lo porto secondo la formula biblica, ‘al collo come una balia porta un bambino lattante’»[13]. La responsabilità non comincia con una mia decisione, con la mia libertà, ma piuttosto esige la decisione e suscita la libertà. In questo senso è, almeno in parte, vero, che «non si è responsabili, ma si è fatti responsabili e chi ci fa responsabili è la società»[14], ma solo se si intende ‘società’ nel senso più ampio e dunque quella trama di relazioni con l’altro e con tutti gli altri, in cui siamo da sempre immersi, e non nel senso di una concreta società storica[15].

È vero che questa concezione della responsabilità tende a dilatarne l’ambito quasi all’infinito: si è responsabili di sé, del fratello, del prossimo, del nemico, del lontano, di chi coloro che ancora non esistono ed esisteranno. Una tale responsabilità è certo un fardello ingombrante e per molti versi insopportabile al punto da spingere molti a tentar di liberarsene. A ragione Lévinas ha indicato la figura per eccellenza di questo tentativo umano – quanto umano – di scappare in Giona: Giona attesta al tempo stesso non solo l’intollerabile peso della responsabilità di fronte all’umano ragionare, ma anche l’impossibilità di sfuggirvi. Questa stessa impossibilità è stata messa in luce da Jean-Paul Sartre:

«Tutto accade dunque come se fossi obbligato ad essere responsabile. Sono abbandonato nel mondo, non nel senso in cui sarei abbandonato e passivo in un universo ostile, come l’asse che fluttua sulle onde, ma invece, nel senso in cui mi trovo improvvisamente solo e senza aiuto, impegnato in un mondo in cui porto completamente la responsabilità, senza potere, per quanto io faccia, strapparmi, fosse anche solo per un momento, a questa responsabilità, perché il desiderio stesso di fuggire la responsabilità mi fa responsabile; farmi passivo nel mondo, rifiutarmi di agire sulle cose e sugli altri vuol ancora dire scegliermi, ed il suicidio è un modo tra i tanti di essere-nel-mondo»[16].

Infine, la terza eredità presente nel moderno concetto di responsabilità pubblica è quella che il moderno Stato costituzionale ha ricavato dalla tradizione giuridica della responsabilità in campo civile e penale, ossia di quello sforzo secolare di individuare chiare e definite modalità di attribuzione di una colpa e di obbligazione alla riparazione di un danno, fissando precisi ambiti e tempi entro cui la responsabilità personale può essere individuata. Sul piano del diritto pubblico il moderno Stato costituzionale cerca di introdurre il senso di un agire responsabile attraverso il meccanismo della ‘rappresentanza’ che rende l’esercizio di un potere politico dipendente da un mandato ricevuto dai cittadini e quindi l’agire politico obbligato a render conto non solo a Dio, ma anche agli uomini. L’affermazione della sovranità popolare estende questa concezione del potere politico ad ogni titolare di esso: non solo i rappresentanti dei ceti, ma anche gli stessi supremi governanti sono responsabili. L’art. 2 della Dichiarazione dei diritti della Virginia (12 giugno 1776) ne è una chiara testimonianza: «Tutto il potere è nel popolo e in conseguenza emana da esso; i magistrati sono suoi mandatari, suoi servitori e sono responsabili in ogni tempo verso di esso». Inoltre il moderno Stato costituzionale definisce in modo evidente chi ha da rendersi responsabile, in quale arco di tempo ciò debba accadere, di fronte a quali istanze, con quali procedure di conferma o di rifiuto. Soprattutto: lo Stato costituzionale opera una divisione del potere e lo rende accessibile alla vista e ai controlli. Nella democrazia moderna queste responsabilità si estendono all’intero orizzonte della vita statale: responsible government significa ora che i governanti sono responsabili in tutto di fronte ai governati. L’atteggiamento che denota questa modalità di concepire il potere è la responsiveness, la «responsività»: non solo l’accountability, ossia il concreto rendere conto del proprio agire, ma la tensione continua a interpretare la volontà di colui che mi ha affidato un incarico:

«Con responsiveness si intende, semplificando un po’, la disponibilità e la sensibilità dei rappresentanti nei confronti dei desideri e degli interessi dei rappresentati in relazione alla corrispondente capacità di recezione. Ma tale responsiveness non si riduce alla dipendenza dagli interessi dei rappresentati e neanche al semplice ruolo esecutivo, ma conserva una propria iniziativa e la capacità di anticipare bisogni e interessi, così come mantiene la capacità di prendere decisioni oggettive in caso di interessi e richieste incompatibili e divergenti, decisioni che sono orientate all’idea o di un’equa compensazione o di interessi più generali e comuni a tutti»[17].

  1. La responsabilità nella riflessione contemporanea

Carico di queste grandi eredità, il concetto di responsabilità è entrato nella cultura contemporanea e, da concetto quasi derivato e marginale, è divenuto in alcune prospettive concetto cardine dell’agire sociale, dell’agire pubblico.

Nella sua famosa conferenza La politica come professione, Max Weber indica l’etica della responsabilità come l’etica che per eccellenza deve contraddistinguere l’uomo che «vuole mettere le mani negli ingranaggi della storia»[18]. E per senso di responsabilità egli intende la «disponibilità a rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni»[19]. Chi intraprende un’azione pubblica, un’azione che pretende di incidere non solo sul proprio destino ma anche sul destino degli altri, può ardire a ciò solo se è disposto a render conto delle conseguenze delle proprie scelte. Essere responsabili significa tenere conto delle conseguenze delle proprie azioni ed essere disposti a pagare il conto delle proprie azioni.

L’ideale weberiano di azione responsabile si contrappone a due tipi ugualmente negativi di azione umana. La prima è quella tipica di chi agisce nella società e nella storia per pura smania di affermare il proprio potere sugli altri, per narcisismo, per «sfoggio pacchiano del potere». Questa è un’aberrazione e un «peccato mortale» per chi agisce nella storia. Il potere è strumento terribile che va usato non per se stessi, ma per una causa. La seconda forma di azione negativa è quella di chi, animato da forti convinzioni, non vede che tali principi e si preoccupa solo di rimanervi fedele senza curarsi di ciò che questo comporta nella realtà concreta, di come le proprie scelte incidano sull’esistenza altrui. Rispetto a queste forme l’azione responsabile è invece azione al servizio di qualche cosa che non è pura autoaffermazione, ma dedizione appassionata ad una causa, sguardo lungimirante, disponibilità a render conto delle conseguenze delle proprie azioni.

L’ideale di azione responsabile proposto da Weber è un ideale alto, segnato da una grandezza talvolta “tragica”, eroica, che può chiedere all’uomo, nei casi di necessità, anche il sacrificio delle proprie convinzioni personali.

Ma – dobbiamo chiederci – è sufficiente definire la responsabilità come responsabilità delle conseguenze o non è ancora troppo generico e vago, soprattutto quando il giudizio a cui l’uomo responsabile si sottopone non è il giudizio di concreti tribunali umani, ma il giudizio impalpabile della storia? Non c’è stato forse anche un uso retorico del concetto di responsabilità da parte dei dittatori del Novecento, quando di fronte a dei concreti delitti proclamavano nei parlamenti di assumersi tutta la responsabilità degli eventi e di sottomettersi al giudizio della storia? Rispetto a così vaghi riferimenti, la responsabilità finisce per dissolversi.

La responsabilità, allora, non può essere solo responsabilità delle conseguenze genericamente intese. Che cosa significa «conseguenze prevedibili» in un’età in cui l’agire umano può avere come conseguenza umana l’autoannientamento nucleare o l’automanipolazione della propria specie? Sono questi gli interrogativi che ha posto alla riflessione contemporanea Hans Jonas nel suo Il principio responsabilità.

Oggi l’azione umana può decidere se in futuro ci sarà o meno ancora un’azione umana, se ci sarà vita umana sulla terra. Per questo il principio di responsabilità è primario: senza uno sguardo orientato al futuro, alle conseguenze possibili delle nostre azioni, la stessa sopravvivenza dell’umanità potrebbe essere a rischio. Ma in questo caso la responsabilità delle nostre azioni nasce da una responsabilità per l’essere che ci sta davanti che se non fosse amministrato, accudito, curato finirebbe per non poter essere.

L’agire responsabile non nasce da un atto nobile dell’uomo che si sottopone al giudizio sulle conseguenze delle proprie azioni, ma nasce invece dal dover essere dell’essere stesso. «In primo luogo viene il ‘dover essere’ dell’oggetto, in secondo luogo il ‘dover fare’ del soggetto chiamato ad averne cura […]. Questo tipo di responsabilità e di senso della responsabilità, non la ‘vuota’ responsabilità formale di ogni agente per la sua azione noi intendiamo quando oggi parliamo della necessità di un’etica della responsabilità nei confronti del futuro»[20]. E il primo dovere è quello di non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra.

Con Jonas il richiamo alle conseguenze si definisce, ma non ancora abbastanza. Si parla infatti di sopravvivenza dell’umanità, della natura, dell’essere, ma che ne è dell’uomo concreto? La responsabilità nei confronti della storia, della società , dell’umanità ha anche legittimato in passato il sacrificio di singole persone, di singoli popoli, di singoli diritti.

Di qui l’attualità del richiamo di Dietrich Bonhoeffer ad una concezione della responsabilità che ponga la persona al centro delle proprie preoccupazioni. Contro ogni concezione della responsabilità che la restringe a determinati ruoli sociali (responsabile è chi ha un ufficio particolare: il genitore, l’uomo di Stato, il dirigente, l’insegnante …) Bonhoeffer la estende ad ogni uomo. Ciò non significa affatto negare la specificità delle responsabilità particolari derivanti dai ruoli, ma collocarle sullo sfondo di una responsabilità più allargata. In secondo luogo la responsabilità non è da esercitarsi nei confronti di una “causa” (pur nobile) o di una cosa, ma è sempre un rapporto da persona a persona: «Al di fuori di questi limiti la responsabilità produce una pericolosa distorsione della vita che consiste nel predominio delle cose sulle persone»[21]. Quindi la responsabilità è sempre responsabilità per le persone concrete. Infine il concetto di responsabilità non può essere un concetto paternalistico. Un prendersi cura degli altri, un decidere per gli altri, un sostituirsi agli altri che sottragga gli altri al compito delle loro decisioni e alla loro stessa responsabilità. È chiaro che nelle situazioni concrete le relazioni umane sono spesso asimmetriche e la responsabilità non ha immediatamente la struttura di una relazione reciproca: il caso del genitore, dell’insegnante, dell’uomo di Stato, del dirigente sono esempi di responsabilità asimmetriche. E tuttavia questa assunzione della responsabilità per l’altro non può sfuggire alla logica della responsabilizzazione dell’altro, del riconoscimento del suo essere radicalmente posto in un uguale dovere di agire responsabile. Con ciò la riflessione contemporanea sulla responsabilità ci rimanda alla struttura originaria da cui abbiamo preso le mosse, ossia la struttura dell’impegno reciproco.

L’azione responsabile è l’azione che, consapevole del proprio limite e al tempo stesso del proprio poter incidere sulla vita umana, si sottopone al giudizio di un altro, anzi lo esige. In ciò compie un doppio movimento: esce dalla passività per rispondere creativamente a un bisogno dell’uomo, insomma decide di esercitare al meglio delle proprie capacità un potere a favore di qualcuno – e in ciò si oppone all’irresponsabilità di quanti non fanno nulla, si crogiolano nell’indifferenza o si nascondono dietro la mera esecuzione di ordini da altri impartiti – ma al tempo stesso non si arroga il diritto di giudicare dell’esercizio del proprio potere, non pretende di sottrarsi all’obbligo del render conto, ma si piega al giudizio dell’altro, lo evoca, come ne evoca l’impegno – e in ciò si oppone all’irresponsabilità di quanti pretendono di esercitare il potere (politico, culturale, economico che sia) in modo assoluto e arbitrario, senza alcun vincolo e legame. In questo doppio movimento di azione e sottomissione sta il senso e la grandezza della responsabilità umana, sul piano personale come su quello sociale.

[1] H.L.A. Hart, Punishment and Responsibility, Oxford 1968; tr.it. di Mario Jori, Responsabilità e pena. Saggi di filosofia del diritto, Milano 1981, p. 240.

[2] Cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969; tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., Torino 1976, vol. II, pp. 442ss.; S. Schipani, Schede sull’origine del termine responsabilità (Contributo per una riflessione su problemi dell’elaborazione del concetto sistematico generale designato da tale termine), in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano 1995, vol. I, pp. 884-918.

[3]Cfr. le voci verantworten, verantwortlich, verantwortlichkeit, verantwortung, in Deutsches Wörterbuch, von J. und W. Grimm, Leipzig 1956.

[4]Cfr. G. v. Proschwitz, Responsabilité: l’idée et le mot dans le débat politique du XVIIIe siècle, in Actes du Xe Congrès international de linguistique et philologie romanes. Strasbourg 1962, I, Paris 1965, pp. 385ss.; Note sur la date et le sens de l’apparition du mot “responsabilité”, in “Archives de philosophie du droit”, 22 (1977), La responsabilité, pp. 59-62.

[5] Citato in G.v. Proschwitz, Responsabilité, cit., p. 393.

[6] Riportato in S. Schipani, Origine del termine responsabilità, cit., p. 904.

[7] In questo senso si trova usato anche da Alexander Hamilton: «I add, as a sixth defect, the want, in some important cases, of a due responsibility in the government to the people, arising from that frequency of elections which in other cases produces this responsibility […]. Responsability, in order to be reasonable, must be limited to objects within the power of the responsible party» (The Federalist, n. 63; tr. it. Il Federalista, Torino 1997).

[8] Cfr. ad esempio Lineamenti di filosofia del diritto, §§ 115-118.

[9] Cfr. P. Ricoeur, Le Juste, Paris 1995; tr. it. Il giusto, Torino 1998 (in particolare il capitolo Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica, pp. 31-56). Sulla nascita e lo sviluppo del concetto filosofico nell”800, cfr. anche R. McKeon, The Development and the Significance of the Concept of Responsibility, in “Revue Internationale de Philosophie” (1956), pp. 3-32.

[10] H. Maier, Bürger und res publica. Die Zukunft der Verantwortung, in Id., Verteidigung der Politik. Recht-Moral-Verantwortung, Zürich 1990, pp. 72-90; tr. it. Cittadino e res publica. Il futuro della responsabilità, in “Humanitas” 51(1996), pp. 854-866, qui pp. 854-855.

[11] Ivi, p. 855.

[12] H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für technologische Zivilisation, Frankfurt a. M. 1969; tr. it. Il principio responsabilità, Torino 1991, cit., p. 163.

[13] E. Lévinas, Autrement qu’etre ou au-delà de l’essence, La Haye 1978; tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino, Milano 1983, p. 114.

[14] B. Croce, Responsabilità, in Id., Etica e politica, Bari 1945³, p. 127.

[15] In quest’ultimo caso ha ragione Del Noce nel dire che «nello storicismo il principio della responsabilità attribuita è il vero fondamento ideale del totalitarismo che si distingue appunto per tale fondazione da ogni altra forma autoritaria e dittatoriale» (Il problema dell’ateismo, cit., p. 331).

[16] J.P. Sartre, L’etre et le néant: essai d’ontologie phenoménologique, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla, a cura di G. Del Bo, Milano 1958, p. 667.

[17] E. W. Böckenförde, Demokratie und Repräsentation. Zur Kritik der heutigen Demokratiediskussion, in Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur Verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, Frankfurt a.M. 1991, p. 396.

[18] M. Weber, Politik als Beruf, in Gesammelte politische Schriften, hrsg. von J. Winckelmann, Tübingen 1980, pp. 505-560; tr. it. La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, a cura di A. Giolitti, Torino 1969, p. 101.

[19] Ivi, p. 109.

[20] H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 118.

[21] D. Bonhoeffer, Ethik, München 1992; tr. it. Etica, a cura di A. Gallas, Brescia 1996, p. 226.

NOTA: testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 25.2.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.