Riflessioni sul libro di Claudio Ciancio “Del Male e di Dio”

Il pensiero vulgato ha contrapposto e contrappone Dio e il male, facendo di questo una provocazione all’esistenza di Dio: fin da Epicuro male e Dio non possono stare insieme; ed è noto che i vari tentativi della teodicea di giustificare Dio a fronte del male sono sempre stati ritenuti insoddisfacenti. Anche perché la giustificazione teorica non ha presa esistenziale: basti ricordare la protesta di Ivan Karamazov, citata alcune volte anche nel libro di Ciancio, di rifiutare qualsiasi prospettiva di un ordine superiore che servirebbe a riscattare il dolore innocente. Ciancio, sulla scorta del suo maestro Pareyson, ritenendo inadeguato ogni percorso intrapreso dalla teodicea, indica una via originale per cogliere il rapporto tra Dio e il male: Dio e male si richiamano al punto che solo attraversando la frattura posta dal male si può giungere a Dio e solo a partire da Dio si può cogliere la serietà del male

Questa è la tesi che il libro vuole illustrare, a partire dalla critica dei tentativi di occultare la serietà del male attuati dall’arte, dalla religione, dalla filosofia. In ultima analisi, non si può costruire alcuna visione che per via estetica (la sublimazione del male, mediante rappresentazione, nell’arte pittorica e nella tragedia), religiosa (consolatoria, non assente neppure dal cristianesimo, sebbene questo abbia operato una radicalizzazione del male: p. 13), sistematica (razionalizzazione: il male come ‘necessario’), tolga al male la sua dimensione tragica.

Tesi audace, che osa superare i grandi pensatori del passato: da Agostino a Tommaso, a Leibniz, Kant, Schelling, Hegel, e affidarsi piuttosto agli assertori del paradosso (cui il cristianesimo aprirebbe: p. 13), in particolare Pascal, Kirkegaard e, sul fronte letterario, Dostojevski.

E la filosofia (visto che si tratta di un testo filosofico), se non può in alcun modo rimuovere o giustificare il male, come si pone nell’intricato rapporto tra Dio e male? Non può fare altro che dichiarare la circolarità tra i due, senza la pretesa di dimostrare alcunché: ogni dimostrazione sarebbe pretesa di risolvere il paradosso, cosa che comporterebbe negazione dell’uno e dell’altro punto di avvio del circolo. Merita di essere letta la conclusione del libro: “Come può entrare la filosofia in questo circolo chiuso di Dio e male? Poiché non vi è altro accesso se non attraverso un salto, essa non può, ancora una volta, provare nulla né convincere di nulla, e tuttavia può, mostrando il circolo, far vedere qual è la posta in gioco: nella negazione di Dio sono messi in gioco il riconoscimento del male e la resistenza ad esso, nella negazione del male sono messi in gioco il riconoscimento di Dio e la fede in lui” (p. 131). Negare e affermare Dio e il male vanno insieme.

Come giunge l’Autore a sostenere tale tesi ‘paradossale’? Punto di avvio è l’estraneità e l’infinità del male: questo si presenta con una potenza tale che può stare solo di fronte all’onnipotenza, ed esso stesso è trascendente, pur in forma negativa, come Dio; esso è, infatti, “ciò che non doveva essere, che non può essere giustificato né tollerato né mediato”; ed è tale perché è negazione di Dio.

Posta questa constatazione, si presenta però la duplice domanda circa l’origine del male e la possibilità di un suo superamento.

Per quanto attiene alla prima, Ciancio sembra andare nella linea della libertà: facendo eco alla visione biblica, vede infatti il vertice del male nel peccato; e ciò coerentemente con la concezione del male prima ricordata: “nella colpa come peccato il male raggiunge la sua forma più alta” (p. 38) perché lì vi è negazione dell’essere. “Chi sente il male come qualcosa di inaccettabile e di ingiustificabile, allora presuppone, almeno implicitamente, che alla sua origine vi sia una colpa (magari persino di Dio), in quanto è ma poteva non essere e non doveva essere” (p. 39).

Per quanto attiene alla seconda, la via di uscita è quella della redenzione. Ma se il male ha un carattere di infinità solo Dio può redimere da esso, pur mettendo in conto che il male lascia una traccia indelebile nell’essere e quindi non ci sarà mai una redenzione compiuta: “Solo un intervento di Dio, del bene assoluto, sembra poter fermare la catena del male; ma è importante sottolineare che questo rovesciamento non ne è una pura e semplice cancellazione: il male non è infatti un episodio trascurabile o un errore rimediabile che non lascia tracce, esso è un evento decisivo della storia dell’essere, che ne determina una profonda trasformazione, le cui tracce sono incancellabili” (p. 43).

La ‘liberazione’ dal male comporta però che Dio assuma in se stesso la sofferenza (in alcuni passaggi è questo il termine che Ciancio utilizza), come appare nella croce di Cristo. Vale la visione biblica secondo la quale chi assume la sofferenza “arresta il processo di diffusione del male, perché ne scarica su di sé le conseguenze e impedisce che si trasmetta ad altri” (p. 72). Ma se il male ha la sua radice nella colpa, l’assunzione della sofferenza da parte di Dio implica che Dio si renda colpevole del male (p. 73). Audace affermazione che Ciancio giustifica ricorrendo a 2Cor 5,21, in verità citato in modo non preciso (il testo greco ha: Dio uper emon amartian epoiesen, lo rese peccato e come tale lo trattò), e a un passo di Pareyson: p. 73, chiosato poi a p. 74: “Perciò Dio stesso può riparare il male solo facendosene responsabile: senza questa assunzione di responsabilità la sofferenza divina sarebbe gratuita, del tutto ingiustificata, incapace di redimere. La sofferenza vicaria di Cristo non è soltanto sostituzione nella sofferenza, ma anzitutto sostituzione nella responsabilità per il male”. Solo la sofferenza divina può essere efficace, fino a rendere efficace ogni sofferenza vicaria (cfr. p. 75).

Si giunge così al vertice del paradosso, che non manca di suscitare qualche perplessità. Ed è su queste che vorrei soffermarmi.

Ciancio non teme di scrivere che l’idea della sofferenza di Dio sarebbe propria delle fede cristiana (p. 75). Non si può chiedere a un libro di 133 pp. di giustificare tutte le affermazioni che pone. Pare però che questa sia un po’ audace: tutta la tradizione classica si è preoccupata di togliere la sofferenza da Dio, sebbene abbia messo al centro della redenzione la croce di Cristo.

Si evidenzia qui il problema cristologico che tanto ha tormentato i primi secoli del cristianesimo e con Calcedonia ha voluto mantenere alle due nature di Cristo le rispettive caratteristiche. Certo la riflessione teologica della seconda metà del ‘900, con capofila Moltmann dopo le tesi di Kitamori, ha ripetuto spesso che la sofferenza di Dio sarebbe un dato originale del cristianesimo, fino a porre la sofferenza in Dio (a p. 101 si parla perfino della morte della divinità).

Ma a questo riguardo l’appello al paradosso rischia di apparire una proiezione in Dio di quanto si riscontra sul versante della storia. Ciancio sembra avvedersi dell’aporia (che egli a p. 82 preferisce chiamare paradosso) cui va incontro, quando a p. 79-80 pone il problema della sofferenza redentrice che non sembra redimere se stessa. Che via di uscita si può sperare dal male se questo è – anche nella forma della colpa – fatto proprio da Dio stesso? Provocatoriamente si potrebbe domandare: chi libererà Dio dal male? E il mondo stesso, meglio: l’essere, da chi potrà essere sanato della ferita infertagli radicalmente dal male?

Ciancio (p. 79) sembra fondare la sua concezione del permanere delle tracce del male nella figura dell’Agnello dell’Apocalisse, che porta ancora i segni delle ferite, o del Regno come luogo di consolazione (la quale implica un permanere del legame con la precedente sofferenza). Il riferimento non è più di un’allusione. Ma si potrebbe mostrare la sintonia tra il passo di Ap 5,6 (vidi un agnello ritto in piedi come immolato) e i racconti pasquali delle apparizioni di Gesù che porta i segni della passione. Non si può dimenticare che tali racconti vogliono sottolineare la continuità tra il crocifisso e il risorto, ma mostrando che la morte non ha potuto trattenere Gesù, che ora è in atto di sottomettere a sé tutte le cose (1Cor 15; Ef; Col; Eb 2,5-9). La riflessione di Ciancio sulla redenzione sembra attardarsi sul versante della croce, come faceva la tradizione occidentale, dimenticando il versante della risurrezione.

Certo resta il problema del possibile rifiuto della redenzione, e quindi del permanere del male che la libertà continuerebbe a produrre. E qui si pone l’acuta questione che già gli origenisti nel VI secolo avevano posto, quella dell’apocatastasi. Ciancio su di essa non si espone; lascia piuttosto aperto il varco a un permanere del male, perfino nel regno, che egli descrive a p. 82: “Il regno di Dio, la salvezza compiuta, appare dunque allo stesso tempo come il luogo della più intensa sofferenza, di modo che la salvezza può essere pensata soltanto come una salvezza povera, una consolazione che non cancella le perdite che il male ha prodotto”.

Male e Dio continuano così a stare l’uno di fronte all’altro e non pare ci sia una via di uscita sicura e definitiva. Ma allora la dedica del libro (A Benedetta, che il Signore la liberi dal male) è solo un desiderio?

Quel che dal libro appare con tutta evidenza è che il male non può essere frettolosamente dichiarato vinto: è una realtà incombente, che va presa sul serio, di fronte alla quale le facili consolazioni appaiono illusorie; anche quelle religiose. Va anzi detto che nel cristianesimo il male viene percepito con tutta la sua tragicità: il tragico è precisamente questo: “che l’opera della redenzione esiga un aggravio spaventoso del male dell’universo” (p. 101). Ciò porta a dire che la fede non è soluzione, ma paradosso, nel quale “positivo e negativo si alimentano della loro reciproca inconciliabilità” (ibid.). Se però la fede è solo paradosso che afferma in una maniera radicale l’assenza di soluzione (per la ragione), in che modo l’uomo può attendere una via di uscita dal tragico cui è sottoposto? Al pensiero di Ciancio sembra mancare il riferimento all’analogia, che è il ponte tra finito e infinito, ma permette di non imbrigliare l’infinito nel finito, poiché – come scrive il concilio Lateranense IV – ogni somiglianza va affermata in una ancor maggiore dissomiglianza. Coerentemente, se si vuole affermare una sofferenza di Dio o in Dio, questa non potrà essere intesa allo stesso modo in cui la si intende negli umani, e soprattutto non si potrà attribuire a Dio la colpa, qualora si ammetta in lui la sofferenza.

Ciò che vale per la sofferenza vale anche per la libertà: sembra che Ciancio non conosca altra concezione di libertà che quella di possibilità di scelta (libero arbitrio). Da qui sembra derivare l’attribuzione della responsabilità del male anche a Dio: se il male viene dalla colpa e Dio si è assunto la sofferenza (una delle forme di male), si dovrà attribuire a Dio anche la colpa. Eccessiva forza della deduzione, sulla quale si potrà notevolmente eccepire: se può essere vero che Dio si è assunto la sofferenza umana, non si può dire che ha fatto propria la colpa degli umani in termini di responsabilità per essa.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 4.10.2006 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.