"S.Agostino e la fine della cultura antica" di Henry I. Marrou

In un paese come il nostro, in cui il francese sta diventando appannaggio di pochi, si deve salutare con piacere la traduzione di un’opera come il “S. Agostino e la fine della cultura antica”, a cura di Costante Marabelli e Antonio Tombolini (Jaca Book, Milano 1987, pp. 574). L’autore, Henri Irenée Marrou, prima di “S. Agostino e la fine della cultura antica”, sotto lo pseudonimo di Henri Davenson, aveva pubblicato nel 1932 “Fondamenti d’una cultura cristiana”; nel 1948, un anno prima della seconda edizione del saggio che stiamo recensendo, appariva la mirabile “Storia della educazione nell’antichità”, l’opera sua di più vasto respiro e di più geniale impianto, tempestivamente tradotta in italiano dall’editrice Studium, che di recente ha curato la ristampa della seconda edizione. Il Marrou – che ha commentato con ampiezza ed acume l’“A Diogneto” e il “Pedagogo” di Clemente Alessandrino – ha continuato a tracciare in modo magistrale la storia dei christiana tempora con il suo decisivo contributo al primo volume della “Nuova storia della Chiesa”, diretta da Roger Aubert, e ancora con due preziosi contributi su sant’Agostino: “Sant’Agostino e l’agostinismo” (1952; trad. it. Mondadori, 1960), un vero gioiello, e “Teologia della storia” nel 1968 (tradotto l’anno successivo da Jaca Book), agile e alta meditazione del capolavoro che Agostino consacrò alla ricerca sul senso del cammino umano. Mi sia consentito, infine, ricordare l’assai noto e fortunato volume del 1954, “La conoscenza storica”, tradotto dal Mulino di Bologna. L’anno stesso della sua morte, avvenuta nell’aprile del 1977, Marrou tornava a condensare le sue riflessioni proprio sull’età che vede al suo centro Agostino, l’età compresa appunto fra il III e il VI secolo, nel bel volumetto “Decadenza romana o tarda antichità?”, apparsa in edizione italiana per i tipi della Jaca Book nel 1979. Ed è forse proprio quest’ultimo contributo del grande agostinologo e storico della cultura che più direttamente riprende le questioni affrontate in “S. Agostino e la fine della cultura antica” in prospettiva di raffinata consapevolezza critica e di pieno dominio intellettuale degli eventi più significativi colti nella loro essenzialità.
Lo scopo dichiarato dal Marrou è di interrogare Agostino come testimone del suo tempo, cercando di mettere in luce tutto ciò che, nella sua struttura mentale e nel suo comportamento intellettuale, proveniva dall’ambiente culturale in cui il suo pensiero e la sua arte erano immersi «come in un liquido nutritivo». In questa tesi di dottorato, che la critica ben presto rese celebre tributandole riconoscimenti che sorpresero lo stesso autore, Marrou prescinde programmaticamente dalla grandezza del genio di Agostino, di cui ha peraltro viva coscienza, perché l’angolazione con cui affronta il tema – che è duplice, come ben suggerisce il titolo del libro, che individua due problemi distinti per quanto reciprocamente subordinati – imponeva innanzi tutto di analizzare l’ambiente culturale, le fonti e il behaviour dell’Africano. Il Marrou, tuttavia, ci offre un contributo di prim’ordine per meglio situare storicamente e, quindi, per meglio comprendere Agostino. Leggendo tutto di seguito nella bella traduzione di Marabelli e Tombolini il volume, da me già conosciuto nella seconda edizione francese, è facile accertare quanto debbano a quell’opera gli studiosi del santo dottore dell’ultimo mezzo secolo, sebbene non siano mancate e non manchino buone ragioni per ridiscutere l’uno e l’altro punto. Ma anche le obiezioni che si possono muovere trovano cordiale accoglienza nelle pagine della Retractatio, in cui l’autore le passa in rassegna e le esamina con una franchezza ed una umiltà degne del grande modello, riuscendo così a porre nella giusta prospettiva i risultati positivi della sua ricerca e a eliminare gli equivoci a cui aveva dato luogo la prima edizione. Non è quindi un consiglio paradossale, come potrebbe sembrare, ma un’avvertenza filosofica ben precisa invitare il lettore italiano a leggersi prima la “Retractatio” e poi la parte che lo precede per evitare quelle sfasature e interpretazioni riduttive in cui sono incorsi non pochi critici. Com’è noto, alla prima edizione del libro nel 1938 era seguita una seconda nel 1949, aumentata di una “Retractatio”, che finì con il costituire la chiave di lettura dell’intero volume e la parte più bella di esso.
Il saggio, diventato ormai un classico della bibliografia agostiniana, si articola in tre sezioni. Nella prima si studia la cultura letteraria nella formazione di Agostino, vir eloquentissimus (pp. 23 – 145); nella seconda si analizza la conversione alla filosofia dell’Africano, delle arti liberali e l’agostiniana reductio artium ad philosophiam (pp. 146 – 276); la terza parte è dedicata al compito che Agostino si assunse di tracciare il quadro generale, il progetto di una cultura cristiana, che si sviluppa dalla presa di coscienza delle esigenze della fede e mediante il dialogo con le culture pre-cristiane che costituiscono il mondo della prima classicità (pp. 277 – 440). Seguono quattro note sull’dea di cultura nel vocabolario latino, su scientia e sapientia nella lingua di S. Agostino, su ciò che rimane dei “Disciplinarum libri” a cui il neo-convertito aveva messo mano ed infine sul libro VI del “De musica”” (pp. 441 – 472). La “Retractatio” è un serrato contributo dell’autore alla critica di se stesso ed è una circonstanziata risposta ai molti critici che spesso si sono serviti del volume del Marrou per denigrare Agostino (pp. 473 – 532). L’indice bibliografico si ferma alle soglie del secondo conflitto mondiale, ma la “Retractatio” cita e discute quello che era uscito d’importante fra il 1939 e il 1949. Assai utile come sempre l’indice dei concetti.
Le osservazioni intelligenti, le piste di ricerche ulteriori per chi abbia gusto e coraggio, le notizie illuminanti abbondano in questo libro e sarebbe impossibile tentarne un bilancio, senza incorrere in lacune e arbitrii. Mi permetto però di segnalare come particolarmente riuscito nella prima sezione il capitolo sulla retorica, in cui si discorre dello stile di Agostino. «Il metodo dell’amplificazione progressiva – nota il Marrou – impedisce all’autore di avere un tema nettamente delimitato e lo porta a trattare successivamente una catena di temi gerarchizzati da rapporti ben stretti, eppure distinti» (p. 75). Di qui il carattere complesso delle grandi opere agostiniane e anche la ragione per cui Agostino, una volta raggiunta una posizione nello sviluppo della ricerca, ama tornare indietro ed «evidenziare, in un riassunto il più possibile netto e spoglio, le grandi linee, il disegno di quello che abbiamo appena letto, sottolineandone bene il movimento e il progresso». Dopo la ricapitolazione fatta dallo stesso Agostino, il lettore si stupisce della chiarezza di questa, perché «scopre molte cose che gli erano sfuggite». Agostino ha e va esprimendo molte idee, le quali non sono già belle e fatte, ma acquistano determinatezza e profondità mano a mano che procede la sua inquisitio. Spiace che in questo stesso capitolo Marrou abbia ripetutamente scritto: «Sant’Agostino compone male perché…». Un decennio dopo la ritrattazione di Marrou su questo punto è appassionata e totale. Non è lecito, infatti, confondere l’esuberante vigore e la finezza con cui si padroneggiano i mezzi espressivi di una lingua con la… «sclerosi senile»! «Una familiarità prolungata con l’opera agostiniana insegna a poco a poco che lo stile del vescovo d’Ippona, come quello di tutti i grandi artisti della parola, è legato strettamente a quello che si deve chiamare il genio della sua lingua. Ogni lingua di cultura ha le sue caratteristiche, i suoi condizionamenti, le sue bellezze. E il latino predilige ed esige quei grandi sviluppi in cui si avanza come portati dall’onda di un grande fiume dalle acque lente, che pur non mancando di impetuosità, danno una meravigliosa impressione di potenza e di maestà» (p. 509). Lo schema secondo cui il Marrou distribuisce la sua analisi è molto persuasivo e ben giustificato: cultura letteraria, cultura filosofica, cultura propriamente cristiana (p. 486). Tuttavia l’insistenza con cui egli ha cercato il più possibile di limitare le fonti a cui l’Africano ha potuto attingere appare sempre meno condivisibile. Non si capisce, infatti, come mai i giudizi teoretici di Agostino risultino a più di sedici secoli di distanza, pienamente fondati, se la sua cultura filosofica si è formata non si sa come o comunque sempre o quasi sempre su scritti dossografici e di seconda mano.
Marrou insiste con profonda simpatia sul fatto che «Agostino non è nato nell’ambiente aristocratico, detentore normale della tradizione culturale». Agostino, infatti, non è stato iniziato alla cultura se non attraverso la scuola e i libri; «egli è, in parte, un autodidatta» (p. 497). In queste note a me pare di sentire una confidenza dell’uomo Marrou, anch’egli «borsista», parvenu della cultura, essendo suo padre tipografo e suo nonno maniscalco. Ma ciò non toglie che Agostino si sia data una solidissima cultura, così come se l’è data il suo illustre studioso francese. Agostino acquistò la cultura più elevata del suo tempo con sacrifici e non senza sforzi e fu la sua preparazione eccezionale a garantire a lui, africano non ancora trentenne, la prestigiosa cattedra di retorica nella sede imperiale di Milano.
Ci si deve chiedere: come mai un libro così ricco di spunti geniali, di apporti nuovi, di profonda ammirazione per il genio e la santità di Agostino abbia potuto spingere, praeter intentionem, alcuni critici a lodare l’autore e ad abbassare la statura del protagonista? È un problema su cui sono spesso tornato. La risposta, a mio avviso, ce la dà lo stesso Marrou in una addolorata pagina della “Retractatio”, nel breve paragrafo XII, che meriterebbe di essere citato per intero. «Volevo, credevo – scrive Marrou – di reagire contro l’ottica sfavorevole che i pregiudizi neo-classici hanno imposto così a lungo allo studio di quello che il francese continua a designare col termine, vagamente peggiorativo, di “Basso Impero”. Ma non mi accorgevo che affrontavo questo studio con nozioni ricevute senza controllo da quella tradizione stessa con cui pretendevo di rompere. Era il caso, per cominciare, della nozione di Decadenza… È un luogo comune che si trascina nella cultura francese almeno da un secolo e che tutti accettano come naturale. È tempo di sottoporlo a una critica seria» (pp. 504 – 505).
Servendoci anche delle sollecitazioni dell’ultimo Marrou, autore dello studio agile e chiarificatore “Decadenza romana o tarda antichità?”, vorremmo in un certo senso tirare le fila del discorso fin qui svolto, formulando alcune conclusioni che sono esse stesse piste di ricerca.
In primo luogo si deve richiamare un fatto non confutabile: il passaggio dalla Grecia classica e dalla civiltà latina all’Europa moderna è avvenuto attraverso una serie di mediazioni e non per filiazione diretta. Le mediazioni dell’umanesimo rinascimentale e, precedentemente, degli umanesimi medievali (anglo-irlandese, carolingio, del XII secolo e del XIII) sono note; quella operata nella tarda antichità è invece riconosciuta solo da una ristretta cerchia di specialisti. Individuare il ruolo e l’importanza di quell’epoca nella storia della cultura è una delle premesse necessarie per potersi accostare alla grande personalità e all’opera di Agostino. Ci si può chiedere se la tradizionale svalutazione della tarda antichità non sia stata in fondo ispirata da un aprioristico disprezzo nei confronti del Cristianesimo e quasi da un’irritazione di fronte al dispiegarsi delle sue enormi potenzialità nella elaborazione culturale e nel porsi risolutamente al servizio di una società travolta dall’alluvione barbarica. Non era Edward Gibbon, il discepolo di Voltaire, che compendiava la tesi del suo lavoro sulla decadenza e la caduta dell’impero romano con le parole: «Abbiamo così assistito al trionfo della religione e della barbarie», come se i due termini fossero sinonimi. E da chi allora, se così fosse, sarebbe partito l’incessante impulso a civilizzare i barbari, evangelizzandoli, in un processo storico di secoli, attraverso i quali sono nate le nazioni d’Europa ed è avvenuta l’incorporazione dei popoli germanici , slavi e nordici a una comune matrice culturale e religiosa?
L’età compresa tra Origene e Plotino, da un lato, e Boezio, dall’altro, segna contemporaneamente l’ultima stagione della civiltà ellenistico-romana e la prima splendida fioritura della civiltà dei «tempi cristiani» e perciò sta a sé nelle sue mirabili diversità, nella sua originalità e va una buona volta considerata, giudicata in se stessa. È un’altra antichità, quella appunto tardo-antica, ed è insieme l’aprile della nuova cultura e della Weltanschauung originate dall’impatto del Vangelo con gli uomini e le società di quei secoli. È un periodo che non è più lecito né designare, né liquidare come età della decadenza e della disintegrazione. Nell’epoca fra il III e il IV secolo, al cui centro si pone l’azione storica svolta da Agostino e la sua immensa eredità storica, ha visto l’umanesimo del Golgota e della Resurrezione non solo coronare l’umanesimo dell’Acropoli, ma rigenerarlo. Salvaguardando ciò che in esso era universalmente umano, la luce del Vangelo lo ha liberato dai disvalori che ne costituivano la controfigura e il negativo. Il pensatore in cui più chiaramente la cultura ellenistico-romana è stata superata e nello stesso tempo conservata, entrando così nel futuro dell’umanità, è stato Agostino ed è solo con lui che la Chiesa latina diventa a sua volta pienamente padrona del suo pensiero. Chi oserà ancora parlare di lui come di «un letterato della decadenza», ascoltandolo affrontare i problemi della memoria, del linguaggio, del tempo vissuto, del peccato, della grazia e della libertà?

 Non è stato possibile rintracciare la pubblicazione e la relativa data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.