Schelling e il problema del male

1- All’elaborazione del tema del male, strettamente legato al tema della libertà, Schelling dedica soprattutto le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana del 1809, che segna l’inizio di quella seconda fase del suo pensiero, che condurrà alla filosofia positiva della sua ultima fase, con la quale possiamo dire, correggendo la prospettiva storiografica hegeliana divenuta dominante, che avviene il superamento dell’idealismo all’interno dell’idealismo stesso.

In realtà il tema del male è da sempre presente nella riflessione schellinghiana, anche se non così centrale come nella seconda fase del suo pensiero. Già la sua dissertazione del 1792 aveva come titolo De prima malorum origine. Nei successivi scritti filosofici del giovane Schelling prevale una prospettiva panteistica (nella quale il male ha posto solo come punto di vista inadeguato), che incomincia a incrinarsi nello scritto Filosofia e religione del 1804 proprio in rapporto al tema del male, più precisamente della caduta, sia pure intesa qui come l’evento che determina il distacco del finito dall’assoluto. Il male è questo distacco, una definizione che varrà sempre per Schelling, solo che qui è intesa come spiegazione dell’origine della finitezza: «l’origine del mondo sensibile può essere pensata soltanto come un completo distacco dall’assolutezza mediante un salto» o, con un esplicito richiamo a Platone, «una caduta dall’assoluto» (in Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, p. 53). Senza entrare nei dettagli, di questa concezione del male vanno sottolineate due cose: che della sua origine, e cioè della caduta, non c’è spiegazione e che il suo risultato è «il nulla delle cose sensibili» (Ivi, p. 55), in quanto separate dall’assoluto. Dunque in questo scritto, che possiamo intendere come l’ultimo della prima fase del pensiero di Schelling, il male viene pensato come causa della finitezza e questa come nulla, come non essere. Il male ha qui perciò una prevalente dimensione ontologica.

2- La trattazione più importante del tema del male in Schelling è però, come dicevo, quella delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). La prospettiva di questa trattazione è molto diversa da quella degli scritti precedenti, anche perché al centro dell’attenzione è la libertà umana. Infatti ora Schelling, collegandosi esplicitamente a Kant (e su Kant dovremo tornare), insiste più sulla libertà umana come inizio reale del male che non sulla funzione del male nella storia dell’essere, come avveniva in Filosofia e religione. L’attenzione rivolta anzitutto alla questione della libertà umana mostra la preoccupazione di recupe­rarne il carattere etico come opzione tra il bene e il male, ma altrettanto importante è qui per Schelling mostrare il carattere di realtà effettuale del male in polemica con le concezioni che lo riducevano a non essere e ad apparenza.

La nuova prospettiva si fonda su una reinterpretazione della dottrina dei principi (reale, ideale e unità dei due) definendo il primo come fondamento oscuro, mentre il principio ideale viene definito come intelletto e anche come esistenza (in quanto facendo uscire dal caos indistinto del fondamento, fa sì che vi possano essere cose determinate); il terzo principio poi è definito come spirito. Tutto ciò che esiste ha un fondamento della sua esistenza, ha cioè una natura (altro termine per definire il fondamento), una realtà oscura, una materia, nella quale sorge una forma, un ordine intelligibile, un principio di unità: «Ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce: il seme deve essere nasco­sto nella terra e morire nelle tenebre affinché una più bella e luminosa forma si innalzi e si dispieghi ai raggi del sole» (Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 97). Un essere a cui mancasse il fondamento non sarebbe qualcosa di reale; se invece gli mancasse la forma intelligi­bile, non sarebbe nulla di determinato, ma oscurità e caos.

Anche Dio ha un fondamento (altrimenti non sarebbe reale), e però in lui – diversamente da quel che avviene in tutti gli altri esseri – tutta l’oscurità del fondamento è portata alla luce: in lui lo spirito realizza la perfetta unità dei due primi principi. Anche l’uomo è identità dei due principi, mentre negli altri esseri l’identità non è compiuta. Perciò l’uomo è immagine di Dio, è la ma­nifestazione di Dio. Ma in lui l’identità, lo spirito, si pone dopo che è stata posta la distinzione e attraverso di essa. Qui sta la differenza tra Dio e l’uomo: in Dio vi è un’unità inse­parabile, mentre nell’uomo l’unità è separabile in quanto è un risul­tato e cioè un’unità non originaria. Se l’unità dei due principi nell’uomo fosse così indissolubile come lo è in Dio, allora l’uomo si identificherebbe con Dio. Ora, proprio la possibi­lità della separazione dei due principi è per Schelling la possibilità del male. Poiché per lo spirito umano i due principi non hanno un’unità indissolubile, l’uomo può svincolare il principio oscuro dalla luce. Che cosa significa questo in concreto? Significa che il suo volere particolare, anziché sottomettersi all’universale, si può porre al primo posto, sovvertendo così l’ordine dei principi (l’unità dei principi è infatti un’unità gerarchica, che prevede la sottomissione del principio oscuro all’intelletto). In questo sovvertimento sta la specificità del male, la sua realtà effettiva, che peraltro non può essere considerata vera realtà ed è piuttosto un essere negativo nel senso che è essere intimamente contraddittorio che come tale tende a dissolversi: vero essere si ha solo quando il principio oscuro è sottomesso all’intelletto.

Nell’avere pensato questa duplice natura del male (per cui è realtà ma non vero essere) sta forse il maggiore contributo di Schelling alla storia del problema, che si è per lo più divisa tra coloro che hanno configurato il male come non essere (apparenza o difetto) e coloro che l’hanno configurato come essere opposto al bene (dualismo manicheo). Della difficoltà di tenere insieme queste due configurazioni (che sembrano avere ambedue delle buone ragioni) Schelling è perfettamente consapevole e mostra come sia in­soddisfacente tanto il tentativo di affermare la piena realtà del male quanto quello di dissolverlo in non essere o in apparenza (Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, cit., pp. 92-94, 102-104). Di qui la complessità della sua soluzione che tiene conto delle ragioni che vi sono nelle opposte posizioni offrendo un’interpretazione del male, nella quale ne sono riconosciute, allo stesso tempo, la realtà e il non essere, la sua origine dall’essere divino e l’indipendenza da Dio, la libertà e la necessità.

3- Qual è dunque la natura del male? A questo proposito Schelling si rifà esplicitamente al Kant della Religione nei limiti della semplice ragione (1794), un’opera di straordinaria potenza e novità, che spesso le interpretazioni di Kant hanno trascurato. La sua novità consiste soprattutto nel riconoscimento della realtà effettuale del male e della sua inspiegabilità in linea di princi­pio. Quanto al primo aspetto è vero che per Kant bene e male non sono forze di eguale livello ontolo­gico, e quindi per Kant bene e male non hanno lo stesso valore di realtà e ancor più egli esclude un principio metafisico cat­tivo. E però d’altra parte nega che il male si possa ridurre a non essere o ad apparenza.

A questa interpretazione del male Kant giunge a partire dalla distinzione fra tre livelli di libertà. Anzitutto la libertà consiste nell’operare singole scelte (buone o cattive). Ma più fonda­mentalmente la libertà si esercita nell’adottare il principio che presiede alle sin­gole scelte (v. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989, pp. 86-87). La libertà, se è veramente tale, se è radicalmente libertà, esige che anche i principi sulla base dei quali essa si esercita siano liberamente assunti. La libertà deve poter scegliere non soltanto fra possi­bilità opposte, ma deve scegliere anche il criterio sulla base del quale opera le sue scelte. D’altra parte però – e questo è il terzo livello – per Kant la libertà definisce una sfera della realtà, che ha come legge la legge morale (per Kant ogni sfera della realtà è definita dalla sua legge). È solo a partire dalla presenza in noi di questa legge che possiamo riconoscere l’esistenza della libertà: da essa possiamo concludere direttamente al concetto della libertà, cioè a una sfera della realtà che si sottrae alla natura. La libertà non è dunque intesa semplicemente come facoltà di scelta, conforme o contraria alla legge della ragion pratica. Pensare a questo modo significherebbe, secondo Kant, presumere che quella della libertà sia una sfera di realtà priva di legge propria. Se è vero che si può scegliere in modo contrario alla legge morale, si deve però dire che solo la libertà sottoposta alla legge morale esercita un potere; la possibilità di allontanarsi da essa è piuttosto un’impotenza.

Come si accorda questa concezione della libertà con quella del secondo livello, quella che abbiamo definito sopra come il più fondamentale livello della libertà? Come cioè si accorda la tesi che la libertà non può essere definita se non dalla sua legge, una legge che perciò la costituisce, con l’affermazione che vi è un «uso della libertà per il quale è accolta nel libero arbitrio la massima suprema (conforme o contraria alla legge)» (La religione nei limiti della semplice ragione, cit., p. 86)? Le due tesi si possono accordare, se si riconosce che la scelta di una massima suprema contraria alla legge è sì un libero atto, ma un atto di negazione della libertà, perché se si sceglie contro la legge morale, allora si sceglie di sottomettersi agli impulsi sensibili. Dunque c’è libertà soltanto seguendo la legge morale. Resta comunque la difficoltà di pensare come sia mai possibile una scelta libera contraria alla legge. Ma Kant, con una profonda intui­zione, non recede qui di fronte al rischio di un’antinomia e riconosce che la libertà non sarebbe libertà se non includesse in sé la libera assunzione di se stessa, sì che la legge della libertà (la legge morale) è una legge che costituisce la libertà, ma che tuttavia essa deve liberamente assumere.

Vi può essere male morale, secondo Kant, solo se si riconosce che colui che lo compie ha adottato una massima, un principio contrario alla legge morale, perché se invece la trasgressione della legge dipendesse soltanto da un impulso sensibile, allora non sarebbe più compiuta da lui come da un essere li­bero e non potrebbe essergli imputata. Dunque o il male non è compiuto liberamente (dipende da esterni impulsi sensibili) oppure non si può limitare la definizione della libertà al potere di agire in conformità alla legge della ragione (come autonomia).

È dunque possibile all’uomo assumere una massima contraria alla legge morale, massima che però non può sopprimere questa legge (è la legge della libertà), ma le può resistere. Ecco allora che il male si configura come «resistenza reale» del libero arbitrio alla legge, e in questo senso come «male positivo» (La religione nei limiti della semplice ragione, pp.  79-80). Proprio perché è sottoposta alla legge morale, la volontà può trasgredire solo in quanto eserciti una positiva re­sistenza ad essa. Per questo il male, secondo Kant, non è un deficit, un’insufficienza e una debolezza, ma è piuttosto una forza contraria capace di contrastare o limitare la forza della legge. Ecco l’effettiva realtà del male: non di­fetto ontologico, ma opposizione reale. Proprio dalla sua concezione della libertà non come semplice libero arbitrio indifferente ma anche come volontà sottoposta alla legge morale Kant ricava l’affermazione dell’effettiva realtà del male, come forza di resistenza alla legge. E ricava però anche l’esclusione del demoniaco, e cioè che si possa violare la legge per puro spirito di rivolta, per negare in linea di principio la legge morale (Vedi Ivi, p. 90). Il male per Kant non consiste nel non riconoscere la legge morale (proprio perché non la si può eliminare), ma nel non attribuirle il primato assoluto nell’ordine dei motivi determinanti. La libertà umana quindi non si esercita nell’assenza di determinazioni, ma nel loro con­flitto. Quanto poi a spiegare la scelta del male Kant, come si è detto, non lo ritiene possibile.

4- Questa idea kantiana del male come realtà effettiva sia pure negativa viene assunta da Schelling e svolta secondo i principi del suo sistema. Abbiamo visto come il male si produca in quanto il principio oscuro, e cioè il volere particolare dell’uomo, pretenda di svincolarsi dalla luce, dall’universale. Ma proprio a causa di questa separazione il volere oscuro non è in grado (come invece fa l’intelletto) di dominare le forze (appetiti e desideri) che lo costituiscono; da questo disordine non si produce però una mera dispersione. Secondo Schelling infatti un principio di unità delle forze era già presente nello stesso fondamento e l’intelletto non faceva che trarlo fuori. Questo principio di unità agisce anche se si sottrae all’intelletto, e però l’unità che produce è una falsa unità. La più chiara immagine del male è la malattia, in quanto non può essere ri­dotta a semplice non essere o deficit di essere, ma è un disordine interno, un’unità disorganica delle forze vitali, non è semplice assenza di vita, ma vita falsa, vita che distrugge la vita, e quindi, allo stesso tempo, vita e negazione della vita, essere che è negazione dell’essere (e dunque positività che è però non essere: il tumore ne è la forma più evidente): «Vi è nel male una contraddizione che si consuma e si annichila in se stessa; esso tende a diventare creaturale, appunto mentre annulla il vincolo della creatura­lità e [..] cade nel nulla» (Ricerche filosofiche, cit., p. 118) (ciò fa intravvedere anche la possibilità del superamento del male, perché il male si autodistrugge, non può essere eterno – contro l’idea dell’inferno; il pericolo è che la distruzione potrebbe essere totale).

Questa concezione del male ne chiarisce e assicura, allo stesso tempo, la realtà e la nullità. La sua realtà dipende dal fatto che il male non è privazione, perché esso piuttosto contiene gli stessi elementi (lo stesso contenuto d’essere) del bene, ma in una forma completamente diversa, la quale a sua volta non è semplice assenza di forma, semplice separa­zione, ma falsa unità (e per questo il male non è non essere). Se venisse meno ogni unità, verrebbe meno il contrasto, la disarmonia, in cui consiste il male e che suppone un qualche rapporto (sia pure falso) tra gli elementi. Venendo meno l’unità, non vi è più nulla e quindi viene meno anche il male. La possibilità della falsa unità sta nel fatto che c’è un’indipendenza del fondamento, e cioè che esso, pur sottraendosi all’intelletto, ha in sé, in quanto contiene l’essenza divina, un principio di unità, principio che, peral­tro, solo in virtù dell’intelletto produce un’armonia di forze e quindi dà luogo a un vero essere. Il male trae dunque ori­gine dal fondamento, ma non si può propriamente dire che venga dal fondamento. Il male si produce soltanto quando il fondamento viene separato dall’intelletto; se invece avviene una sua subordinazione all’intelletto, al­lora si produce il bene. Perciò si può dire che il bene e il male hanno la stessa radice, cioè la forza del fondamento (energia della volontà, pulsioni) e che «chi non ha in sé elementi né forze per il male, è anche inca­pace di bene» (Ricerche filosofiche, cit., p. 125).

In questo modo Schelling si oppone fra l’altro, come già Kant, alla conce­zione, largamente diffusa, della libertà intesa soltanto come opposizione del principio intelligente alla sensibilità, concezione che impe­disce di riconoscere la realtà del male. Secondo questa concezione infatti il male nasce solo da debolezza dell’intelletto di fronte alla sensibilità, ma allora propriamente il male scom­pare, perché non c’è una volontà di male, ma piuttosto un’impotenza. L’errore qui sta nel porre soltanto nell’intelligenza il principio del bene e soltanto nella sensibi­lità quello del male; il male e il bene stanno invece nella volontà di far prevalere il fondamento sull’intelletto oppure di armonizzarli.

Possiamo allora sintetizzare la concezione schellinghiana del male nei seguenti due punti: 1) il male è reale, perché è un’unità, una forma, sia pure negativa, dell’essere e non una pura assenza di unità e di forma; 2) la causa del male non è una debolezza, ma una forza, che opera in modo distruttivo.

5- Fin qui si è spiegata la possibilità e la natura del male; per spiegare il suo effettivo prodursi nella realtà e anche il suo eventuale senso Schelling va oltre Kant e fa riferimento non solo alla li­bertà umana, ma anche alla necessità che Dio ha di rivelarsi. Ora pensare il male nell’economia della rivelazione sembra una correzione di quanto detto fin qui. Sembra cioè che Schelling, dopo aver difeso l’effettività e la negatività del male, torni a ridurne la consistenza e l’alterità ontologica pensandolo come necessario e come condi­zione della rivelazione di Dio. In effetti Schelling osserva che l’amore e il bene non si ma­nifestano come tali se non in rapporto al loro contrario. Schelling non dice che il male proviene da Dio, perché lo spiega come il sollevarsi, l’autonomizzarsi del principio del fondamento in quanto opera non più in Dio ma nella creazione; tuttavia per lui, se il bene deve essere, allora il male si deve manifestare, sia pure come indipendente da esso. Secondo Schelling, già nella natura sono chiaramente visibili i segni di un eccitamento del principio oscuro volto a escludere la luce. E cioè si deve supporre che, fin dalla creazione origina­ria, il fondamento si sia sollevato manifestando una tendenza al male di cui sono segni evidenti le forme irrazionali che si presentano in natura e il destino di morte di cui anche gli organismi sono affetti (e si osservi come qui si intendano degli esseri che in virtù della loro capacità di autoregolazione potrebbero durare sempre; la cosa è molto importante perché indica una non naturalità del male e della morte: è pensabile una finitezza non destinata alla malattia e alla morte). Qui Schelling parla di un «male generale», che però soltanto nell’uomo e attraverso il progresso storico si manifesta come intenzionale opposizione al bene. Il male generale si manifesta in ogni uomo come naturale tendenza al male, che più precisamente si definisce come incapacità di conciliare il volere particolare con quello universale.

Per quanto fondato nel male generale, per l’uomo il male «rimane sempre una scelta propria» (Ricerche filosofiche, cit., p. 112) e ciò in quanto quel male generale che attraversa la creazione viene originariamente assunto dall’uomo con un atto che sta fuori del tempo e che si configura come il peccato originale. Il male non è originariamente una necessità per l’uomo. Se però si guardano le cose dal punto di vista di Dio, sembra invece che il male abbia un carattere di necessità, sia pure solo come condizione della sua manifestazione. Effettivamente la rivelazione di Dio è, secondo Schelling, necessaria, sia pure di una necessità morale, nel senso cioè che Dio non può non volere il bene e l’amore, e quindi non può non volere la propria rivelazione, che è appunto realizzazione del bene e dell’amore. Questa idea della necessità morale vale come correttivo dello spinozismo, caduto nell’errore di pensare a una necessità meccanica; la necessità divina non è una necessità come costrizione esterna, e tuttavia è necessità, perché, in quanto è bene, Dio non può che fare il bene. Questa soluzione sembra tuttavia lasciare ancora aperta anche la questione che la teodicea risolveva in modo poco convincente: Dio non ha forse voluto il male, sia pure per realizzare il bene? Ma come può Dio volere il male? Secondo Schelling non è corretto dire che Dio ha voluto il male come mezzo e condizione del bene, perché ciò che Dio propriamente volle fu la nascita della luce e la vittoria sulle tenebre; e non si può obiettare che Dio, prevedendo il male, avrebbe dovuto non rivelarsi, perché sarebbe come dire che Dio non avrebbe dovuto volere la sua manifestazione, il bene: «Perché il male non fosse, non dovrebbe essere nemmeno Dio» (Ivi, p. 127). E Dio non può raggiungere la perfezione immediatamente, senza superare il male, altrimenti non sarebbe vita e movimento. Una soluzione, questa, che, come tutte le teodicee, non è convincente fino in fondo.

Il risultato di tutto il processo storico (di cui, peraltro, in quest’opera Schelling non spiega in modo compiuto l’origine) è la completa separazione del bene dal male. Ciò avviene in quanto il male, conformemente alla sua natura, si consuma, si distrugge da sé, restando pura potenzialità che non accede più all’esistenza; tutto quel che aveva di esistenza lo prendeva in certo senso a prestito dal bene (erano cioè le forze dell’essere e il principio di unità, che, destinati a produrre il bene, si ponevano falsamente); ora invece, alla conclusione del processo, il bene si separa completamente dal male ponendosi come bene. «Il termine della rivelazione è perciò il distaccarsi del male dal bene, la chiarificazione di quello come completa irrealtà» (Ivi, p. 128). Il bene è dunque la vittoria sul male, mentre il male come male vinto è soltanto la base di cui il bene ha bisogno per affermarsi. Il male può dissolversi, pur essendo reale, perché questa dissoluzione non è una sparizione del principio oscuro, il principio reale, ma solo una trasformazione dei rapporti fra i principi. Che il male sia vinto significa che il principio ideale si subordina allo spirito unificandosi al principio reale: il fondamento perde la sua indipendenza, perché viene tutto innalzato alla luce. In questo modo Schelling esclude del tutto la possibilità del dualismo: il male non solo non è un principio originario, ma nemmeno è destinato a durare eternamente, dal momento che nella sua essenza è inscritto un destino di autodistruzione, mentre l’elemento che lo costituisce, il principio oscuro, il fondamento, viene unificato con il principio ideale.

E questa è un’altra idea importante che Schelling ci consegna e che dà un notevole contributo alla concezione del male. Abbiamo detto come la tradizione avesse sempre oscillato tra le due opposte visioni del male o come inconsistenza ontologica e pura apparenza o come principio ontologico opposto, visioni ambedue insoddisfacenti perché conducono o a una sottovalutazione del male o a una sua sopravvalutazione, quella per cui l’essere sarebbe diviso tra l’essere buono e l’essere cattivo. In certo modo intermedia è la concezione, che abbiamo visto in Schelling, del male come condizione del bene, concezione che consente di riconoscere la consistenza ontologica del male senza che questa diventi una contraddizione, proprio perché il male è funzionale al bene. Ma Schelling aggiunge, come dicevo, un altro aspetto importante, il carattere parassitario del male, per cui la sua consistenza dipende dall’utilizzo delle forze del bene o meglio dal disordine in cui queste vengono poste; e questo disordine produce una rovina di quell’essere a cui il male s’attacca, ma poi anche una rovina del male stesso che, distruggendo le forze che gli permettono di sussistere, distrugge anche se stesso. Questa concezione si oppone anche a quel residuo dualismo che è proprio della concezione dell’eternità del male sia pure nella sua configurazione come inferno eterno, ed è perciò aperta a pensare la fine della storia come apocatastasi.

6- Nell’ultimo Schelling e, più precisamente, nella Filosofia della rivelazione la questione del male è ripresa sulla falsariga delle Ricerche filosofiche, ma con alcune precisazioni importanti. Anche qui il male è spiegato a partire dalla dot­trina dei principi o delle potenze, come li chiama Schelling (potremmo dirla la sua ontologia), ma in modo più esclusivo è attribuito all’uomo. Dio è il soggetto che unifica le tre potenze dell’essere, mentre l’uomo è il soggetto delle potenze che sono state attuate da Dio dando luogo alla creazione; come Dio, l’uomo è esistenza e libertà, è colui al quale è affidato il mantenimento dell’equilibrio e del vincolo delle potenze. L’uomo può conservare l’equilibrio e l’unità della creazione divina oppure può pretendere di ricominciare il processo creativo con la conseguenza (non sto a spiegare i complicati passaggi) di produrre un mondo lacerato, privo di unità e di forma, non più divino. Il passo del Genesi sull’uomo che è diventato “come uno di noi” significa che l’uomo si è fatto Padre, si è messo al posto del Padre e con ciò ha prodotto la rovina della creazione.

È qui rilevante che la caduta sia pensata come un dato di fatto, il primo della storia, un fatto che può essere spiegato, ma non dimostrato. Esso è attestato dalla mancanza di un punto di unifica­zione della natura, anche se nella coscienza si manifesta l’impulso a questa unificazione, come dimostra, secondo Schelling, anche la filosofia, il cui sforzo mira alla totalità, a ricostituire l’integrità della coscienza. E se questo avviene e, prima ancora, se il mondo continua a sussistere e manifesta una tendenza all’unità, ciò dipende dalla volontà divina che continua ad operare anche dopo la caduta. Questo significa che il male potrebbe essere onnidistruttivo (e infine autodistruttivo). Se ciò non avviene, è in virtù di una volontà salvifica divina, che ha riattivato l’istanza unitiva. Sia questa volontà redentiva sia, prima ancora, il prodursi del male sono fatti indeducibili, che come tali fanno capo alla libertà e non a un principio necessitante. Il male resta dunque, anche nell’ultimo Schelling, segnato da un duplice carattere. Il suo prodursi è assolutamente libero e tuttavia, in quanto consente l’esplicarsi della volontà divina di salvezza, anch’essa assolutamente libera, risponde a un fine di autorivelazione divina.

Un’uguale considerazione si può fare a proposito della differenza tra protologia ed escatologia, di cui nella Filosofia della rivelazione si dice: «Luomo nel Paradiso era incontestabilmente nella verità, però questa verità non era una verità guadagnata da sé, e, dunque, non era neppure una verità sottoposta a esame e cimentata nella prova. Per questo doveva [musste] venire la prova e l’uomo poteva [konnte] ad essa soccombere, e cadere in questo modo fuori della verità, non per perderla per sempre, ma per riguadagnarla in modo stabile dopo aver percorso tutta la via dell’errore, come consolidata attraverso l’esperienza, e ora non più nuovamente perdibile. In questo modo l’errore è dunque di fatto presupposto della verità – non della verità in sé o dell’assoluta verità, ma di quella conosciuta in quanto tale, stabilita in quanto tale [dunque il male in funzione non della verità ma della sua rivelazione]» (F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, vol. xiii, p. 183). Il passo ha un mirabile equilibrio, in quanto assegna la necessità alla tentazione, ma la caduta è solo una possibilità (konnte). Resta che la caduta è di fatto il presupposto della verità conosciuta, della verità posta come tale, che rende la condizione escatologica superiore a quella protologica.

Possiamo concludere che qui c’è un nodo che Schelling non ha risolto e che peraltro appare difficilmente risolvibile. È esattamente lo stesso nodo che aveva proposto l’inno cristiano che parlava di una felix culpa a proposito del peccato originale. Senza quella colpa non si sarebbe manifestata la grandezza dell’amore divino, ma d’altra parte se quella colpa fosse necessaria, allora non sarebbe più colpa, e se producesse necessariamente quell’espressione dell’amore divino, allora quell’espressione, proprio in quanto necessaria, non sarebbe amore. Come sempre, di fronte alle questioni ultime l’unica via percorribile è quella del paradosso, che qui si esprime nell’esigenza di tenere insieme libertà e necessità del male.

NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.3.2018 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.