Scienza e mito dello scientismo

Uno degli aspetti del nostro tempo è l’accettazione senza resistenza di un sistema di pensiero e di abitudini mentali che esclude la possibilità di ogni altro tipo di sapere che non sia quello di cui noi siamo debitori alle scienze positive. Non è solo una dottrina: è anche, e forse soprattutto, uno stato d’animo, lo stato d’animo originato dallo “scientismo”. Occorre subito non alimentare equivoci e dire ad alta voce che se la scienza autentica è sempre un valore, ed un gran valore, l’esclusivismo scientista è una miseria, ed una grande mutilazione dell’uomo. Lo scientismo è la deformazione parassitaria della scienza, la sua controfigura, così come l’estetismo è l’ipertrofia e in ultima analisi la morte del valore estetico. Le formulazioni della esorbitanza scientista, ormai di larga circolazione, sono essenzialmente due: “non dir nulla, eccetto ciò che può essere detto, e cioè le proposizioni della scienza della natura” è la prima, e la seconda è “l’intero campo della conoscenza appartiene alla scienza e non sussistono problemi fuori dall’ambito della scienza”. La storia del pensiero registra in ogni epoca esemplificazioni di quella tendenza imperialistica, dal pitagorismo al matematismo universale di Cartesio, dal positivismo dell’800 al neopositivismo del ‘900. E tuttavia quella tendenza è costantemente corretta, integrata, confutata nel suo arrogante esclusivismo da chi non ha mai cessato di cercare una risposta ai tre interrogativi in cui Kant riassumeva il senso della vita: “Che cosa debbo conoscere? Come debbo agire? Che cosa posso sperare?”

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Per lo scientista tutto ciò che non rientra nel quadro di riferimento che egli si è dato, è insignificante, insensato, magico, puerile, da abbandonare al non precisato dominio della poesia o della fede. E nondimeno anche lo scientismo si inventa la sua “fede”. E così, su di un radicale agnosticismo metafisico e morale si innesta una “missione”, quella della scienza assurta a religione secolarizzata che celebra l’indefettibilità del progresso scientifico, la tecnocrazia che pianifica le sorti dell’umanità, la società perfetta in cui si è felici e virtuosi senza saperlo e senza volerlo come si conviene ad animali robotizzati. Tuttavia a zittire l’euforia e la retorica degli scientismi già in altre epoche di raffinata civiltà si levò la protesta che denuncia un punto di saturazione, un’infelicità nascosta sotto l’apparente splendore dei “lumi”, il tragico dislivello fra progresso scientifico e progresso morale dell’umanità. Così l’Ellade in pieno fiore ascoltò la requisitoria dei cinici e degli stoici, il Rinascimento subì l’atto di accusa di Cornelio Agrippa di Nettesheim e dell’umanista italiano Giraldi. Il Settecento scientista fu smascherato nelle sue illusioni da Rousseau.
Oggi la protesta è cresciuta di intensità e di estensione. L’era atomica, l’era spaziale, tanto esaltata dai fanatici dello scientismo, è anche l’era dell’ansia cosmica, del terricidio ecologico, della schizofrenia e della suggestionabilità più diffusa, del conformismo più paradossale. “I problemi suscitati dall’incremento e dall’uso della potenza umana hanno ormai un interesse superiore a quello dei problemi scientifici”, scrive Max Born nelle sue Riflessioni di un uomo di scienze europeo, con una sensibilità morale e filosofica che mal si cercherebbe in certi filosofanti di professione. E un altro grande scienziato, Ervin Schroedinger, non esita ad affermare che il pensiero ha ben altri compiti che vengono prima e che vanno oltre la scienza stessa, additando nel problema della consapevolezza di sé e della qualità morale della vita la meta più alta.

Giornale di Brescia, 3.2.1978. Articolo scritto in occasione della conferenza di Mauro Laeng su “La scienza e il mito dello scientismo”.