Seneca, il terapeuta dello spirito umano

Seneca è uno dei pensatori più umani della classicità. In lui si percepisce ancora, qua e là, il titanismo solitario del “saggio” stoico; ma non è affatto questo aspetto a colpirci e a farci simpatizzare con lui. A destare in noi una risonanza non facilmente cancellabile è qualcosa d’altro: l’appassionata richiesta, ad esempio, di un giudizio critico su se stesso e sui moventi del nostro agire; la consapevolezza delle ambivalenze della vita e del mistero umano; oppure la tensione eroica dell’uomo, che si sa fallibile ad ogni passo ed esposto allo scacco e, tuttavia, non desiste dall’emendare e dal trasfigurare se stesso, né si stanca di giovare agli altri. Fine, penetrante nell’analizzare il gioco e la logica delle passioni, egli è forse il primo di quegli spiriti – della cui schiera fanno parte Agostino, Montaigne e Pascal – profondi nell’esplorazione dell’animo umano e implacabili nel denunciare quegli alibi e quelle maschere dietro cui l’io tenta di nascondersi a se stesso prima ancora di mentire agli altri.
La biografia critica più rigorosa che vi sia sul pensatore romano, che era nativo di Cordova, in Spagna, è il “Seneca” di Pierre Grimal, tradotto in italiano dalla Garzanti. Quello studio occorre leggerlo per poter capire sia il quadro storico in cui si situano le vicende di Seneca, sia l’effettivo valore delle sue scelte e i rischi gravissimi che affrontò per serbare fedeltà ad esse. La sua vita fu intensamente drammatica perché si svolse tra situazioni estreme. Seneca disponeva di enormi ricchezze e nello stesso tempo aspirava al più ascetico distacco interiore; godeva di un grande prestigio e possedeva un’eloquenza di rara efficacia, ma ciò non lo mise al riparo da odi tenaci, dall’esilio e da una morte violenta. Aristocratico di grande raffinatezza, comprese meglio di ogni altro tra i precristiani l’ingiustizia e gli orrori della schiavitù. Denunciò come nessun altro l’alienazione dell’uomo, la “vitae iactura” (“De brevitate vitae” 9, 1), il continuo spreco che facciamo dell’esistenza e giudicò la possibilità di riuscire a non muoversi e a stare con se stessi (“posse consistere et secum morari”, “Ad Lucilium Epistulae morales” 2, 1) come il primo indizio di una volontà che intenda sottrarsi alla dispersione e al conformismo. Nello stesso tempo avvertì la responsabilità del potere e accettò il rischio di fare politica, impegnandosi a servire il bene comune finché gli fu possibile, e poi, a risparmiare il peggio alla città; e quelle scelte pagò con la vita.
Seneca è filosofo nel senso pieno della parola perché la sua ricerca affronta tutti i grandi temi che specificano ogni autentica interrogazione sul senso della vita. L’orizzonte da esplorare è dunque ampio e Seneca pensava, con ragione, che l’uomo, il quale vietasse a se stesso di porsi quelle domande e di cercarne le risposte più razionali, o meno inadeguate, nello stesso istante rinuncerebbe ad essere uomo; allora, sì, verrebbe voglia di dire: “Non valeva la pena di venire al mondo” (“Nisi ad haec admittere non tanti fuerat nasci”, “Naturalium quaestionum” praef. 4). Tuttavia il punto di vista a cui la ricerca è finalizzata, ciò che meglio caratterizza l’opera di Seneca sta nel primato che egli di fatto conferisce alla vita morale, in piena sintonia con Socrate con Zenone, prima di lui, e dopo con Immanuel Kant e Antonio Rosmini. Dante, dunque, vide giusto e non espresse affatto un giudizio limitativo quando, nel consacrare la grandezza del pensatore di Cordova, lo pose nell’anti-inferno tra gli “spiriti magni”, dei quali diceva “del vedere in me stesso n’esalto”, e ne segnò per sempre la fisionomia e la funzione storica in due sole parole, chiamandolo “Seneca morale” (“Inferno” IV, 141).
In un tempo come il nostro, in cui la descrizione dei moti dell’animo umano mette tra parentesi il bisogno che l’uomo ha di capire se stesso e di orientarsi nella vita, grande è il successo che sta ottenendo il filosofo romano presso i suoi lettori. Egli, infatti, non è per nulla asettico, o indifferente; anzi, non ha altro desiderio che di essere utile, indicando nelle sue opere una vera e propria terapia per le malattie dello spirito. Le sue osservazioni e i suoi consigli sono preziosi per riscoprire la dimensione interiore e la qualità morale della vita, ed anche per la formazione personale del carattere. Provate a leggere l’uno o l’altro dei suoi sette dialoghi – “La provvidenza”, “La fermezza del sapiente”, “La collera”, “La vita felice”, “La vita ritirata”, “La tranquillità dell’anima”, “La brevità della vita” – e ve ne accorgerete. Di essi, peraltro, esistono ottime traduzioni in italiano, come ad esempio, quelle pubblicate da Mursia, Einaudi, Laterza, Mondatori, Utet.
Chi voglia, però, cogliere la “imago vitae” di Seneca deve mettere al primo posto tra i suoi scritti le “Lettere a Lucilio”, che rimane uno dei grandi libri dell’umanità, uno dei più ricchi di verità e bellezza. Anche delle “Lettere” vi sono traduzioni maneggevoli e ben fatte, con o senza il testo latino. Per la Rusconi, Giovanni Reale ha curato in un unico volume “Tutti gli scritti in prosa” di Seneca. Il libro, però, che introduce nel modo più intelligente alla lettura diretta del capolavoro senecano, unendo felicemente acribia filologica e passione umanistica, è “Lettere a Lucilio – Libro primo”, con la traduzione di Giuseppe Scarpat per le edizioni Paideia. Le lettere di cui Scarpat si occupa sono solo dodici, ma il suo commento, che rimane fino ad oggi insuperato, è tale da farci entrare davvero nel cuore e nella mente del grande romano.
Le “Lettere a Lucilio” sono tali da sollecitare il lettore attento a proseguire per proprio conto il movimento a cui l’autore ha dato la spinta iniziale, come capita per i “Pensieri” di Pascal. Seneca giunse a scrivere all’amico Lucilio: “Io mi occupo ormai dell’interesse dei posteri” (“Posterorum negotia ago”, Ad Luc. 8, 2) e “parlo con i posteri” (“cum posteris loquor”, Ad Luc. 8, 6). Egli confidava con tutta l’anima nel dialogo a distanza, nella libera comunicazione degli spiriti attraverso il libro, nella potenzialità maieutica dei suoi scritti per il risveglio delle coscienze all’amore “contumace” della verità e del bene. “Habebo apud posteros gratiam”. “Troverò accoglienza presso i posteri!” (Ad Luc. 21, 5). Fu questa la speranza che illuminò l’intensa fatica degli ultimi anni, quando ormai era da attendersi qualsiasi infamia da un potere divenuto dispotico e sanguinario. L’umanità finora gli ha dato ragione. Seneca merita quanto ebbe a sperare. Anche oggi egli può diventare per ognuno di noi un incomparabile compagno di viaggio, un amico con cui conversare, un maestro. Pochi come lui, infatti, possono aiutarci a ritrovare la coscienza dell’universalmente umano, cioè di quei valori senza i quali il vivere non è più un vivere da uomini.

 

Giornale di Brescia, 9.4.1997.