Seneca – La filosofia come esercizio di umanità

Fonte: Seneca. L’immagine della vita a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998.

LA FILOSOFIA COME ESERCIZIO DI UMANITÀ

  1. Dio nel mondo e nell’uomo

Secondo una lapidaria espressione di Diogene Laerzio, per gli stoici due sono i principi di tutte le cose, l’uno attivo e l’altro passivo: il primo è la sostanza priva di qualità, la materia; il secondo è la Ragione, il Logos, ossia Dio. A questo presupposto rinvia ogni dottrina stoica del cosmo e di Dio e ad essa dette un’espressione poetica estremamente precisa Virgilio, mettendo sulle labbra di Anchise i celebri versi: “Spiritus intus alit, totamque infusa per artus / Mens agitat molem et magna se corpore miscet” (“uno Spirito vivifica dall’intimo e una Mente, infusa per le membra, agita tutta la materia e al grande corpo si mescola”, Aen. 6, 726-727). Il filosofo romano si richiama su questo punto alla comune dottrina della scuola: “I nostri stoici affermano che in natura esistono due sole cose da cui tutto ha origine: la causa e la materia. La materia, inerte, è pronta ad ogni mutamento, ma se ne starebbe immobile se nessuno la muovesse; la causa, invece, ossia la ragione, conferisce la forma alla materia e la trasforma come vuole, generando da essa opere molteplici e diverse. Deve esserci, dunque, ciò con cui una cosa è fatta, ed è la materia, e qualcosa da cui una cosa è fatta, ed è la causa” (Ad Luc. 65, 2). Gli stoici, comunque, “vogliono che la causa sia unica: [la causa è solo] ciò che agisce” (ibid. 65, 4).

Per Seneca Dio è la causa attiva che produce e regge il cosmo intero (Ben. 4, 7, 1 e 8). Dio è la base, il fondamento di tutto ciò che si manifesta nel mondo (Nat. quaest. 7, 30, 3); è il supremo artefice (Ad Luc. 58, 28), ma anche demiurgo, ordinatore sommo (ibid. 65, 23). Dio possiede in se stesso gli esemplari imperituri, immutabili, inalterabili di tutti gli esseri, gli archetipi di tutte le cose, le idee di cui aveva parlato Platone (ibid. 65, 7): e pertanto abbraccia col suo pensiero i numeri e le forme di tutto ciò che deve essere prodotto. Dio, causa prima e suprema di tutto, è quindi anche la causa di tutte quante le cause (Ben. 7, 3 e Ad Luc. 65, 2), ed è causa di se stesso (Deus ipse se fecit, fr. 15 Haase). Le cause possono essere enumerate in modi diversi da come fecero Platone e Aristotele, ma tutte dipendono da una sola: “Cerchiamo che cosa sia la causa? Evidentemente è la Ragione creatrice, cioè Dio” (Quaerimus quid sit causa? Ratio seilicet faciens, id est Deus – Ad Luc. 65, 12). Dio è causa efficiente e finale del mondo, causa infinita e non causata da altro, sorgente da cui tutto ha origine e che totalmente appartiene a se stessa. In quanto tale, Dio continuerà a sussistere anche dopo la conflagrazione universale, che sarà determinata da lui allorché vorrà dar vita a un mondo migliore (Nat. quaest. 3, 28, 7 e Ad Marc. 26, 7). È questa, per così dire, l’angolatura della concezione di Dio in cui, inevitabilmente, l’accento batte sul margine di non-coincidenza di Dio rispetto al mondo, del principio attivo rispetto a quello passivo.

Ma questo margine di non-coincidenza fra Dio e il mondo, può essere qualificato, in qualche modo, come “trascendenza” di Dio rispetto al mondo? La concezione stoica di Dio lo esclude nettamente e tuttavia riconosce come strutturale la distinzione fra i due com-principi della realtà. Non vi è che un’unica, onnicomprensiva realtà; ma questa è data a noi come duale, come sinolo, unione di un principio attivo e di uno passivo, di “Ratio divina” e materia, che sono pur sempre fra loro opposti, o comunque complementari e non equivalenti. In altri termini, la realtà cosmico-divina è, sì, un tutt’uno, ma in essa l’elemento attivo e quello passivo stanno tra loro come la forma e la materia, come l’anima e il corpo: e l’anima vivifica il corpo, lo regge e lo guida, e tuttavia non è il corpo. Anche se uniti, “non sono soci alla pari” ( Ad Luc. 65, 22). Allo stesso modo, nella concezione monistica Dio è l’Uno ed è nello stesso tempo il Tutto, l’Uno-Tutto; è il cosmo nella sua totalità; ma è anche il suo solo principio, la sua sola causa: “Tutto ciò che ci contiene è un tutt’uno ed è Dio; noi gli siamo compagni, e insieme ne siamo le membra” (ibid. 92, 30). Sarebbe un grave errore, però, dimenticare che “c’è molta differenza tra l’opera e la causa dell’opera” (ibid. 65, 14). Nella stessa Lettera 65, l’aporia di fondo del sistema stoico emerge con forza: “Evidentemente tutto è composto di materia e di Dio” scrive Seneca; ma aggiunge: “Dio regola le cose che, stando intorno a lui, lo seguono come loro guida e sovrano” (ibid. 65, 23). Orbene, “c’è più potenza e valore nell’agente, che è Dio, che nella materia che subisce l’azione di Dio”. Insomma, il Dio degli stoici è lo slancio vitale che attraversa la materia tutta – il soffio divino, o il pneuma, che penetra, vivifica, diversifica e lega insieme l’universo – e in tal senso è immanente; ed è, nello stesso tempo, la sorgente di tale slancio, e in tal senso è trascendente.

Seneca torna sullo stesso concetto, servendosi anche dei termini destino, provvidenza, natura, mondo come se fossero sinonimi di Dio: “Giove è guida e custode dell’universo, anima e spirito del mondo… Se vuoi chiamarlo destino, non ti sbagli, perché da lui dipendono tutte le cose: egli è “causa causarum”. Se vuoi chiamarlo provvidenza, dirai bene; perché con la sua saggezza provvede a questo mondo… Se preferisci chiamarlo natura, non errerai; egli è infatti colui dal quale tutto è nato ed è il soffio di cui viviamo; se vuoi chiamarlo mondo, sarai nel giusto; egli è infatti tutto questo che vedi; immanente alle sue parti, sorregge sé e ciò che è suo” (Nat. quaest. 2, 45, 1-2). Ma se Dio è il mondo, il mondo può essere detto Dio? E se Dio è la natura, considerata nella sua totalità, la natura è Dio stesso, o ciò che è incessantemente prodotto dal Primo Principio? Il panteismo, definendo “corpo di Dio” il cosmo (Ad Luc. 65,24), fa entrare la materia nell’essenza stessa dell’Essere che solo ha gli attributi dello Spirito assoluto, essendo il Logos eterno e la Ragione in cui abita la luce della verità e del bene (Ad Luc. 95, 36); autocoscienza e amore che tutto dona (Ben. 4, 9, 1 e 4, 28, 1-4; 6, 26, 6-8; 7, 31, 2-5); e questo Dio, a causa della sua asserita identità con il cosmo, conosce anch’esso la morte, sebbene non definitiva e totale, perché nell’incendio dell’universo è il “corpo di Dio” che perisce.

Tuttavia, nel pensiero di Seneca Dio è tutt’altro che anonima forza motrice del mondo, o un Assoluto senza volto. Lo ha detto molto bene Max Pohlenz: “incontriamo continuamente in Seneca delle espressioni che ci lasciano capire quanto inclinasse a una concezione personale della divinità” (“La Stoa, Storia di un movimento spirituale”, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1978, vol. 2, p. 92). Soprattutto nell’ultimo Seneca Dio è colto dall’intelligenza ed è amato dalla volontà in quanto persona; né un mutamento di tale importanza si spiega, come pure è stato detto, con il ricorso del filosofo romano al linguaggio popolare, al solo scopo di rendere più persuasivo il suo messaggio. La svolta operata sulla concezione di Dio non è un espediente pedagogico ed è di ordine concettuale; essa costituisce, anzi, uno dei motivi dell’originalità speculativa del Nostro, ed anche del suo fascino, perché quel “movimento verso la trascendenza” si presenta come un prolungamento e non come una revisione del sistema. Per Seneca Dio è la presenza interiore che fa grande l’anima umana e, se così non fosse, non potrebbe essere quello che egli è in modo unico e a titolo esclusivo: “padre di noi uomini” (Ad Luc. 73, 16 e 110, 10); maestro che tutto sa e a cui nulla rimane chiuso (Ben. 25, 4 e Ad Luc. 83, 1); educatore esigente e giusto giudice (Prov., passim); nomoteca, cioè sorgente della legge morale e legislatore egli stesso (Ad Luc. 16, 5-6; 74, 20; 107, 9-10; 119, 15). Una così alta concezione di Dio, elaborata soprattutto nelle opere scritte durante i tre anni di «ritiro» (“La Provvidenza”, “Le questioni naturali”, “Le lettere a Lucilio”), piega il sistema stoico a integrazioni e sviluppi che indubbiamente lo oltrepassano da ogni lato, malgrado l’impegno profuso da Seneca nel far rientrare in esso le nuove acquisizioni. Queste, d’altra parte, nascono sia dall’approfondimento del pensiero senecano, sia dalla ripresa di temi e suggestioni del pensiero di Platone (soprattutto nella parte centrale delle “Lettere”) e del medio platonismo a lui contemporaneo. «Vi è negli scritti di Seneca – scrive G. Reale – un pendolo che oscilla tra la concezione monistico-panteistica, vicina al materialismo, da un lato, e, dall’altro, precisi spunti di sapore spiritualistico, con un’eco della problematica della trascendenza… Seneca non era in grado di cogliere il senso e la portata della trascendenza e dell’immateriale. Per essere in grado di fare questo, avrebbe dovuto recuperare il senso della seconda navigazione, di cui parla Platone nel “Fedone”… Però, con la seconda navigazione, Seneca sarebbe uscito per intero dai confini dello stoicismo» (“La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima” – Saggio introduttivo a Seneca, “Tutti gli scritti in prosa”, Milano 1994, pp. XCIV-XCV).

Al di là, però, del problema delle fonti del pensiero religioso del filosofo neo-stoico, rimane il fatto incontestabile che Seneca interpreta in un modo nuovo il sentimento del divino e sa scandagliare, come pochissimi altri, le profondità dell’anima. Egli vive l’attesa di Dio, ma quell’attesa, così fortemente avvertita nel suo tempo, era sconosciuta agli altri pensatori dello stoicismo antico e medio, tra i quali l’unico spirito in qualche modo affine al suo fu Cleante. La teologia stoica punta su una sorta di “cittadinanza cosmica”, in cui l’anima si immerge nell’Uno-Tutto come in un oceano e in esso annega. Con Seneca cambia radicalmente lo scenario e l’orientamento: l’uomo diventa per la prima volta il solo vero interlocutore di Dio e Dio il suo ultimo fine di diritto, a cui tutto mette capo. «Seneca può ben servirsi delle stesse parole che avevano usato i suoi predecessori nella scuola; ma l’intensità emotiva dei suoi riferimenti, la sua insistenza sugli attributi morali di Dio e non più su quelli cosmici e fisici, rivelano un mutato atteggiamento nei confronti del problema religioso: alla conoscenza e alle esigenze dello spirito subentra l’intuito del cuore. Non stupisce, quindi, che gli scrittori cristiani abbiano riconosciuto per tempo in Seneca uno dei loro» (P. Grimal, “Seneca”, trad. it. Garzanti, Milano 1992 p.49). “Seneca saepe noster”, “Seneca spesso è nostro” scrive di lui Tertulliano nel “De anima” (20, 1), ed è nota l’allergia dell’apologista latino a ricorrere a una testimonianza pagana. La ricerca rigorosamente filosofica non dispone di testi e di documenti risolutivi, ma l’analisi interna di quanto è già in nostro possesso ci autorizza a formulare una congettura verosimile sull’itinerario religioso del filosofo di Cordova. Seneca intraprese il cammino verso Dio fin dalla prima iniziazione alla filosofia, in particolare attraverso l’insegnamento di Sozione, un pitagorico nativo di Alessandria d’Egitto: ma non pochi stimoli gli vennero anche dalla scuola dei Sestii e dal maestro stoico Attalo; qualche anno dopo, il lungo soggiorno nella cosmopolita Alessandria lo mise a contatto con la tradizione egiziana, con il monoteismo ebraico e soprattutto con movimenti di cultura e spiritualità, come quello di Filone, che portavano l’attenzione sul rapporto tra ragione e fede, tra filosofia e rivelazione. Il bisogno di Dio, mai assente dagli scritti di Seneca, torna infine a grandeggiare negli ultimi anni.

Nell’esperienza interiore l’uomo scopre a un tempo  la profondità della sua anima e la somiglianza con Dio, ed è all’una e all’altra che si richiama Eraclito nel frammento 45: “I confini dell’anima tu non li potrai mai raggiungere per quanto innanzi ti spinga, neppure percorrendo per intero la via [della ricerca], tanto profonda è la sua relazione con il Logos”. L’esperienza interiore acquista, dunque, rilievo e profondità in quanto è uno “scire cum Deo”, un sapere con lui e alla sua presenza, una presa di coscienza di sé e della realtà di Dio. Solo nel rapportarsi a Dio, Sommo Bene originario, la coscienza può prendere possesso di sé e muovere alla conquista di quella sintesi di virtù e felicità, in cui consiste il Sommo Bene accessibile all’uomo. “Non occorre alzar le mani al cielo, né supplicare il sagrestano che ci lasci avvicinare alle orecchie della statua, come se ci potesse sentire meglio. Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Un sacro spirito abita in noi, custode e vigile del nostro bene e del nostro male” (Prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos. Ad Luc. 41, 1-2).

L’interiore presenza di Dio all’anima è la realtà metafisica fondamentale che rivela il senso stesso della vita umana: solo essa, infatti, rende possibile una forma di esistenza che sia imitazione gioiosa e benefica della bontà divina. Nel frammento 24 Haase, che riporta una citazione di Seneca tratta dalle Institutiones di Lattanzio, si legge: “Vi è qualcosa di grande, una divinità più grande di quanto si possa pensare, che è guida alla nostra vita. Cerchiamo di agire in modo da esserle accetti. Non serve che la coscienza sia chiusa dentro di noi: di fronte a Dio siamo aperti” (Magnum… nescioquid maiusque quam cogitari potest numen est, cui vivendo operam damus. Huic nos adprobemus. Nihil prodest inclusam esse conscientiam: patemus Deo). In altre parole la ratio nell’uomo è coscienza del bene, ma al tempo stesso coscienza sicura dell’insufficienza del bene in ogni sua umana attuazione, sì che, posto di fronte a manifestazioni del bene che sono sempre relative, transitorie, caduche, l’uomo si sente da una sua stessa esigenza interiore rimandato ad un bene più alto, assoluto, incorruttibile, eterno. “Questo è certo – commenta Maria Bellincioni – il particolare valore che assume il termine «divino» quando viene da Seneca usato per lo spirito umano. Pur fallibile e relativa, la ratio in noi è rivelatrice di valori assoluti, ci apre alle dimensioni dell’eterno e del divino, proprio in quanto manifesta la nostra irrimediabile condizione di creature imperfette. La soggettività della coscienza trova controllo e correzione nel bene oggettivo cui rimanda, e questo a sua volta può farsi operante in noi solo come coscienza” (“Studi senecani ed altri scritti”, Brescia 1986, pp. 26-27). Nella ratio che possiede l’uomo ha un dono di cui può godere solo se ne fa buon uso. Il “sacer spiritus” che è in lui, lo tratterà bene o male a seconda di come verrà a sua volta trattato (Ad Luc. 41, 2). E quindi «divino» si può definire il suo spirito solo se “rectus, bonus, magnus” (ibid. 31, 11). L’animo è, sì, la sede del bene, ma “se non è puro e santo, non può ospitare Dio” (ibid. 87, 21).

In un sistema come quello stoico che dà forte rilievo al fato, inteso come “immutabile serie di cause tra loro connesse” (Helv. 8, 3), in che senso Dio può essere detto “fato” e quale posto può esserci per la preghiera o per il libero agire dell’uomo? A che serve, infatti, pregare e mettere in gioco la propria vita, a servizio di ciò che è giusto e buono, se tutto è già scritto, l’esito ultimo di ogni vicenda non meno della catena degli eventi che ad esso conducono? Qui ci troviamo di fronte a un altro dei problemi cruciali della filosofia stoica, su cui Seneca è tornato più volte; la sola risposta, però, che apra un varco al superamento dell’antinomia è in uno dei suoi ultimi scritti, nel secondo libro delle “Naturalium quaestionum”, nei capitoli 35-38, ed è detta da lui “intermedia”: dunque un punto di vista più alto, un crinale fra due tesi estreme, entrambe errate. La prima estende in modo assoluto la categoria della necessità e della predeterminazione a tutto il reale, per cui tutto ciò che è reale è sempre come doveva essere, sia che si tratti del volere di Dio, sia che si tratti della guarigione da una malattia, o di una decisione che pure sentiamo di aver preso noi, spesso dopo una dura lotta con la fortuna e con noi stessi. In una visione del genere la libertà dell’uomo sarebbe solo illusione o, tutt’al più, coscienza della necessità. La tesi contraria tende ad azzerare il concetto stesso di necessità in ogni campo; e ciò comporta lo sfaldamento irrazionale delle leggi dell’universo fisico, la rinuncia ad ogni forma di conoscenza scientifica ed anche agli imperativi della legge morale, nella cui attuazione l’uomo forgia il suo più alto destino.

Per l’ultimo Seneca necessità e libertà non sono tra loro, come pure si crede, in un rapporto di reciproca, radicale esclusione, né sono nomi diversi di una stessa identica cosa,  come presuppone l’originaria dottrina stoica. Non tutto ciò che è reale è rigorosamente dominato da un’eterna, immobile necessità e sono di tipo diverso, malgrado le analogie, le cause fisico-cosmiche e quelle che riguardano l’agire umano. Le prime operano attraverso la necessità, le seconde mediante la libertà. La libertà per quanto riguarda l’uomo è, pertanto, inscritta nel decreto con cui Dio ha pensato il cosmo e in esso l’uomo. Dio ha disposto ab aeterno che vi siano ambiti del reale in cui, per il maggior bene del tutto e degli uomini, le creature più alte fatte a sua immagine, la determinazione effettiva di certi avvenimenti è sospesa al verificarsi o meno di certe condizioni. Tutto ciò per Seneca rientra in una corretta concezione del fato e non distrugge affatto il “nomos” cosmico e quello della vita morale, cioè quell’ordine che “nessuna forza potrà mai infrangere” e che Dio ha voluto dal primo istante della costituzione del mondo perché “a lui è sempre presente quello che è il meglio” e volerlo sempre è la sua stessa essenza (“Naturalium quaestionum” 2, 36 passim). Dio, dunque, opera attraverso la “series causarum” e la loro connessione, senza di cui tutto sprofonderebbe nel caos, ma ciò non toglie che egli sia il padre per antonomasia per il quale le anime non hanno segreti e che sorregge gli uomini nel loro cammino. L’uomo, creatura mortale, muove incontro a Dio, e tuttavia si sa peccatore e insensato; Dio ama l’intera opera sua e la vivifica dal di dentro, e tuttavia fa dell’uomo il suo vero interlocutore. V’è, dunque, tra l’uomo e Dio una corrispondenza bi-univoca. Léon Robin ha parlato di attesa del sublime istante in cui “la saggezza irrompe come una grazia e di un miserabile insensato fa un concittadino di Dio” (“La morale antique”, Paris 1963, pp. 57-58).

La nuova prospettiva intravista è di grande arditezza ma, inserita in un contesto sulla divinazione, del tutto inadeguato e fuorviante, è sfuggita a molti studiosi. Seneca, però, ci aveva messo sull’avviso, scrivendo: “I ragionamenti [prima] riferiti ci vengono di solito opposti per provare che niente è lasciato alla nostra volontà e che ogni nostro diritto alla libertà d’azione è stato rimesso [al fato]. Quando prenderò in mano questo argomento dirò in che modo, senza nulla togliere al fato, qualcosa rimanga al libero volere dell’uomo” (ibid. 38, 3). Probabilmente Seneca rimanda qui ai “Libri di filosofia morale”, a cui intendeva di lì a poco dar inizio o che stava già scrivendo. Di quell’opera, a carattere sistematico, purtroppo non ci sono rimasti che pochissimi frammenti (frr. 116-125 Haase).

La religiosità di Seneca è profonda e la “religione politica” romana è da lui condannata con un coraggio che gli procurerà le lodi di Lattanzio (Instit. 1, 5, 19). Polibio, il grande storico di Roma in lingua greca, aveva osservato che la religione era necessaria “a causa della massa” (Hist. 6, 56, 6-15), la quale, essendo leggera e ed incline ad impulsività violenta, è da tenere a freno con oscuri timori e messinscene. Anche per Cicerone la pietà verso gli Dei, comprendente la fede nel divino e le pratiche di culto che la trasmettono, è indispensabile al mantenimento della “societas generis humani” (De nat. deor. 3, 94): la pietas svolge una funzione pedagogica importante, per cui non va irrisa a cuor leggero, anche se la riflessione razionale sul problema di Dio, la teologia, ci eleva a una ben più alta concezione dell’Assoluto. Queste erano le idee anche degli Stoici antichi e dei loro successori; i quali si ingegnarono a dare dei miti e dei culti religiosi interpretazioni allegoriche. Le loro elucubrazioni, però, “non giovano a nulla e non convincono nessuno”, secondo il giudizio di Carneade riportato da Cicerone (ibid. 3, 44). Anche Seneca ammette che il saggio possa compiere materialmente atti di culto, intesi quasi come doveri sociali, che con la divinità non hanno relazione alcuna: “quae omnia [= le cerimonie del culto] sapiens servabit tamquam legibus iussa, non tamquam Diis grata” (fr. 38 Haase). Agostino, grazie al quale quel pensiero di Seneca ci è pervenuto, vi ravvisò quasi un invito alla simulazione opportunistica (De civ. Dei 6, 10), ma a torto: il filosofo romano nel passo riportato dice solo che il saggio deve avere “quel senso di rispetto verso le credenze comuni o altrui che noi chiamiamo tolleranza”, come precisa opportunamente Scarpat (“Il pensiero religioso di Seneca”, Brescia 19832, p. 96). Egli sa bene, però, che si tratta di cose “non Diis grata” e che il campo specifico in cui il filosofo deve muovere alla ricerca di Dio rimane quello della teologia naturale. La comprensione tollerante nell’ambito della convivenza civile si accompagna in Seneca, sul piano teorico, a un costante rifiuto delle diverse teologie orientali – allora in gran voga a Roma – e della strumentalizzazione politica del fenomeno religioso, tipica della tradizione romana. Tale critica ha la funzione di introdurre alla prima delle verità su cui poggia ogni autentico orientamento religioso: Dio è uno solo, è il solo creatore dell’universo, è provvidente e giusto giudice. Il filosofo negli scritti segue la comune abitudine di impiegare il plurale, “gli Dei”, al posto del singolare, “Dio”; insiste, però, più dei predecessori nel rivendicare l’unicità di colui che spesso chiama Giove.

È impressionante constatare – notava Seneca – che non solo singoli individui o gruppi, ma popoli interi sono schiavi di credenze e tradizioni indegne di Dio; ma quando la superstizione usurpa il posto della religione, la realtà più alta diventa la più misconosciuta, la più orrendamente deformata. La contrapposizione fra religione e superstizione è nettissima. Ad essa Seneca aveva dato un’espressione epigrafica nel “De clementia” 2, 5, 1: “religio Deos colit, superstitio violat”, “la religione venera gli Dei, la superstizione li profana”. In questo passo alla venerazione, al “colere”, Seneca oppone il “violare”, cioè l’usar violenza nei confronti degli Dei. Chi è superstizioso dissacra ciò che è sacro e dunque oggettivamente si rapporta a Dio in modo sacrilego, anche se formalmente non lo è perché gli manca l’intenzione di offendere la religione. La “superstitio” è un “error insanus”, un capovolgimento pazzo della religione (Ad Luc. 123, 16). Una volta poi imboccata quella strada, il processo di degenerazione può avere i più aberranti sviluppi. Rimane, però, un errore logico e di metodo confondere, come fanno Epicuro e Lucrezio, religione e superstizione, né si può porre sullo stesso piano la grandezza luminosa di un “animus emendatus ac purus”, che fa della sua vita un’imitazione di Dio, con l’immoralità, l’arretratezza mentale e l’accecamento di chi presume di far servire la divinità alle sue passioni e ai suoi calcoli egoistici. Come si vede, la polemica incalzante e acutissima di Socrate nell’ “Eutífrone” platonico – è il testo della critica più radicale al politeismo pagano e ad una concezione utilitaristica del rapporto con Dio – continua negli scritti del Nostro. Il filosofo romano affrontò direttamente e per esteso il problema nel “De superstizione”, che non è giunto a noi; ma quel trattato fu letto dai cristiani col più vivo apprezzamento e Lattanzio giunse a scrivere che Seneca “come pagano non poteva andare oltre” nella ricerca di Dio e nell’affermazione della sua unità (Instit. 6, 24, 13).

In sintesi, la concezione religiosa di Seneca ha un impianto stoico, ma assume via via la forma di un’esperienza personale, che conferisce al suo messaggio filosofico novità di accenti e anche di contenuti. Seneca slarga potentemente l’idea stessa di Dio e pone al centro della riflessione filosofica il legame metafisico – e dunque ontologico, prima ancora che morale e religioso – tra l’anima e il Logos.

  1. La filosofia come ricerca teoretica e studium virtutis

Platone e Aristotele videro bene che la filosofia nasce sempre da un atto di meraviglia. “L’uomo è l’unico animale che ha lo stupore di esistere” (“Teeteto” 155 d) scrisse il primo, e il secondo: “Gli uomini furono mossi a filosofare, alle origini come ora, dalla meraviglia” (“Metafisica” 1, 2, 982 b 14). Agli inizi del pensiero occidentale lo stupore richiamava un senso ampio, gioioso e insieme solenne, della natura e della vita. Anche per il neostoico Seneca la sorgente, la causa dell’interrogazione filosofica è la stessa; ma egli vi apporta un’aggiunta, che, a nostro avviso, costituisce la cifra per capire la sua “modernità”, il suo modo d’impostare i problemi. Seneca unisce, infatti, allo stupore come scoperta gioiosa lo stupore come inquietudine: l’inquietudine di chi percepisce – insieme alla bellezza e alle perfezioni degli esseri – la presenza del male nel mondo, la soggezione di sterminate moltitudini ai valori di opinione, lo spreco che l’uomo fa della sua vita e lo sprofondare della sua “esistenza” nella “inesistenza” più insignificante. Per questa ragione a lui sembra attagliarsi perfettamente l’incisiva immagine di cui si serve Fritz Waismann: “filosofo è colui che percepisce, per così dire, dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti, laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro”. (“Contemporary British Philosophy”, a cura di H. D. Lewis, London 19612, p. 448).

Seneca è, infatti, uno di quei pensatori in cui sono strettamente congiunti la volontà di vedere le cose in profondità e l’acuta consapevolezza della posta in gioco, la passione della verità che va cercata per se stessa e l’ansia per l’uomo che non può trovare né pace né gioia al di fuori della verità. Di qui l’intensità esistenziale, che caratterizza potentemente la sua analisi dell’ “humana condicio” e la stessa concezione della filosofia. Gli interessi del filosofo possono essere molteplici, ma egli è filosofo proprio in quanto tende a ricomporli in unità, cioè in una visione d’insieme: per lui tutte le ricerche e le attività sarebbero “vana curiositas e inanes occupationes” se non mirassero a cogliere linee convergenti e valori che, facendo emergere il senso della vita, illuminano il nostro proprio destino. La ripartizione della filosofia in logica, fisica e morale, in uso nelle scuole ellenistico-romane, non deve trarre in inganno: la conoscenza vera tende a stabilire il valore delle cose per regolare le azioni degli uomini. La filosofia è sempre e in primo luogo un camminare verso la saggezza, e, dunque, scoperta e attuazione dei valori autentici. La dialettica e tutto il resto servono solo a meglio garantire e giustificare quel cammino dagli attacchi che gli verranno dalla sofistica delle passioni, ossia dall’esercizio irresponsabile della facoltà di ragionare, oltre che dall’ignoranza, dal pregiudizio, dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Si comprende, allora, la ragione per cui la filosofia è allo stesso tempo contemplativa e attiva, “inquisitio veri” e “studium virtutis”, teoresi e tirocinio di vita buona, scienza ed arte del vivere e del morire. La ricerca filosofica non è affatto un gioco intellettuale, né un’esibizione di eloquenza, né una forma di raffinato edonismo. Essa costituisce un impegno rigoroso che esige il disinteresse più totale e una dedizione eroica; solo un pensiero vero, infatti, può soddisfare il bisogno del soggetto umano di orientarsi consapevolmente nella vita, la sua volontà di conoscere e di vivere il vero. Vi è, dunque, un rapporto di circolarità, di arricchimento o di reciproco impoverimento tra pensiero e azione, fra teoria e prassi, ma in ultima istanza è l’agire, l’actio, che manifesta l’essere e il grado di verità raggiunto. La vita morale è, insomma, la perfezione della vita. In tal senso acquistano un preciso significato l’icastica espressione: “philosophia non in verbis sed in rebus est”, “la filosofia non consiste nelle parole, ma nei fatti” (Ad Luc. 16, 3), e le molte altre analoghe di cui si serve il Nostro.

Filosofia è parola di origine greca che significa “amore della sapienza”, da “philéo”, amo, e “sophía”, sapienza. Dunque la filosofia muove in cerca di sapienza e pertanto non è la sapienza; tuttavia se la cerca, è perché l’ama e amare qualcosa è già in certa misura cominciare ad averla con sé, anche se la strada da percorrere per giungere alla pienezza del possesso è ancora lunga. Di qui l’affermazione di Seneca: “La filosofia non può esistere senza la virtù, né la virtù senza filosofia. La filosofia è ricerca di virtù, ma attraverso la virtù stessa; e la virtù non può esistere senza la ricerca di sé, né la ricerca della virtù senza la virtù. Qui non siamo nella situazione di chi cerca di colpire un bersaglio lontano… Alla virtù si giunge per vie che non sono fuori della virtù… Filosofia e virtù sono intimamente congiunte” (Ad Luc. 89, 8).

Nella mitologia tutto è dato in un colpo solo e Minerva esce tutta armata dal cervello di Giove; nella realtà, invece, ogni conquista ha un suo percorso e una sua storia. Il percorso della filosofia è la storia della filosofia. Per Seneca essa non è la storia della verità né dell’errore, bensì della ricerca e della conquista umana della verità, ed è una storia ricca di luci e di ombre. Ma è storia affascinante, in cui “da nessun’epoca siamo esclusi e a tutte abbiamo accesso” (Brev. 15, 5), potendo in ogni momento conversare con i grandi spiriti di tutti i tempi e “riunire così tutti i tempi in uno” (ibid.). Seneca ha raggiunto su quell’argomento un punto di vista di straordinaria ampiezza, espresso più volte con vigore in pagine che sono tra le più belle della letteratura filosofica di tutti i tempi. Qui vogliamo solo sottolineare che l’indipendenza di giudizio rivendicata anche di fronte alla propria scuola e l’esemplare rivisitazione del pensiero di Epicuro, l’avversario tradizionale della Stoa, sono due segni rivelatori della “visione ecumenica” che il filosofo romano aveva della ricerca della verità e della verità stessa, i cui semi sono dappertutto e che è per tutti, quale che sia la via attraverso la quale ci è proposta e disvelata. La verità, infatti, deve essere sempre al di sopra del dogma della scuola e chiunque ce la faccia conoscere è, sotto questo aspetto, nostro amico e maestro. “I genitori del corpo non possiamo sceglierli noi, ma quelli dello spirito sì” (ibid. 15, 3), scrive Seneca con animo commosso e riconoscente verso coloro che gli avevano insegnato a vivere e non a disputare. I maestri, però, anche i migliori, non sono un termine, un confine a cui arrestarsi: “anch’essi, infatti, ci hanno lasciato verità che non sono state trovate e perciò devono essere ancora cercate” (Ad Luc. 45, 4).

Tra le etichette che sono state appiccicate a Seneca la più ricorrente è quella di “eclettismo”; ma se per eclettismo si intende la pratica del compromesso in filosofia e, dunque, la commistione di principi fra loro in contraddizione, ebbene nulla c’è di più estraneo al nostro autore. È, infatti, impossibile designare con quel termine il metodo e la forma mentis con cui il filosofo romano dialoga a tutto campo con maestri e avversari, la sua gioiosa apertura a ciò che di vero e di giusto scopre in essi, il suo radicale desiderio di oggettività. Seneca odia il settarismo esclusivista in tutte le sue forme, ma questo non significa affatto che difetti di coerenza logica e di coraggio speculativo. Non c’è “contaminazione” alcuna del pensiero di Seneca con quello di altre scuole, né tanto meno passaggio da un campo all’altro, come pure si è fantasticato; c’è, però, il rifiuto di quell’assurda pretesa, generatrice di infausti integralismi, secondo la quale la scelta è sempre fra il tutto e il nulla, così che l’intero della verità è sempre da una sola parte, che è ovviamente la propria. Si capisce allora la predilezione di Seneca per una procedura che si praticava nelle votazioni in senato: “Qualcuno avanza una proposta che in parte condivido? Lo invito a suddividere la sua mozione in punti distinti; io appoggerò solo quei punti che approvo” (Ad Luc. 21, 9).

Per Seneca, dunque, ci possono essere, e la storia della filosofia è lì ad attestarlo, concordanze precise su punti precisi anche tra pensatori di diverso orientamento. Questo è un fatto molto importante, ma c’è di più: si può rifiutare l’insieme del pensiero di un autore e trarre da lui luminosi insegnamenti sull’uno o l’altro problema, sull’uno o l’altro aspetto della vita. Seneca non si stancò mai di polemizzare con la filosofia del Giardino e di criticarne il fondamento utilitaristico. Nulla concesse il filosofo neostoico alla dottrina di Epicuro, di cui rifiutò le tesi più tipiche: il sensismo in gnoseologia; l’edonismo nella vita morale; in politica la negazione del diritto naturale e l’estraneità alla vita sociale. La cosmologia, poi, gli appariva pura “dementia” (Nat. quaest. 1, 15; Ben. 2, 29 e altrove); e non parliamo della teologia epicurea, del tutto inutile rispetto al casualismo atomistico. Ma ciò non impedisce affatto a Seneca di far suo l’accorato appello di Epicuro alla vita semplice (Ad Luc. 2, 5; 4, 10; 25, 4; 110, 18), come effettiva via di liberazione, e di adoperarsi a riscattare il nome stesso di Epicuro da una cattiva fama del tutto immeritata, non essendo imputabile né a lui, né alla sua dottrina – che è pur sempre la severa teorizzazione di una vita ascetica – lo sfrenato edonismo dei cosiddetti “epicurei”. Seneca deplora, però, che l’idealismo morale epicureo proceda da premesse radicalmente false.

Una breve annotazione, infine, sul discusso rapporto tra Seneca e quelli che egli chiama “i nostri”, cioè gli stoici. Seneca rivendica con energia, come si è detto, il diritto a pensare con la sua testa e a dissentire anche dai suoi; ma insiste del pari, particolarmente nelle ultime “Lettere”, nel richiamarsi ai maestri dello stoicismo e alle loro dottrine. Non si avverte in lui la tensione romantica del “nec tecum nec sine te” nei confronti dello stoicismo, e la spiegazione di quel rapporto va cercata pertanto altrove. Seneca ha reinserito i problemi dottrinali in una prospettiva di progresso morale e spirituale; tale prospettiva, però, sopravanza felicemente in più punti gli assetti sistematici che dovrebbero offrirle il quadro di riferimento. In altri termini, Seneca supera quello stoicismo, al cui sistema ha inteso affidare la giustificazione della sua dottrina morale. Il cordubensis è uno stoico e tale si professa, ma il movimento del suo pensiero lo porta ben oltre lo stoicismo.

  1. Il valore morale

Lo stoicismo è uno dei più grandi movimenti spirituali di tutti i tempi per almeno tre ragioni: 1. ha incentrato il suo messaggio sulla rigorosa determinazione di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che non dipende da noi e di ciò che è in nostro potere qualificare in modo positivo o negativo; 2. ha avanzato in campo morale la proposta più rivoluzionaria dell’antichità, ponendo tutto il valore dell’agire umano nell’interiorità della coscienza; 3. ha spazzato via dall’orizzonte speculativo tutto ciò che, non costituendo l’autentico valore dell’uomo, non può neppure essere il suo fine e, dunque, la sua felicità. Lo stoicismo ha battuto in breccia ogni concezione utilitaristica della vita morale e della felicità e questa sua profonda intuizione sarà ripresa più volte nel corso dei secoli. Seneca, pensatore neostoico, a questa eredità spirituale dello stoicismo antico e medio apportò un suo personalissimo contributo. Egli ha espresso ripetutamente il suo disprezzo per le disquisizioni interminabili e per quella sorta di “ebbrezza” del ragionamento logico astratto in cui si erano cacciati i suoi predecessori, riportando con energia la filosofia al problema suo centrale: filosofare non vuol dir altro che affrontare il problema della vita e solo in quanto mi preoccupo della vita io, filosofo, mi occupo degli altri problemi. Il problema della vita, cioè del mio fine ultimo e della forma che devo dare alla mia esistenza, è il principio unificatore e il limite differenziale della ricerca filosofica. Ma chiedermi qual è il senso della vita significa nello stesso momento interrogarmi sul mio proprio valore. Su questo punto Seneca opera un esplicito ritorno a Socrate, al maestro che più direttamente parla attraverso l’ “Apologia” e i dialoghi del primo periodo della produzione platonica: l’uomo è la sua anima e vale quanto vale la sua anima, per cui occorre che noi impariamo a guardar noi stessi e gli altri “nudi” di tutto, nella nostra interiorità (“Carmide” 154 d-e). Seneca ripete con Socrate: “se vuoi giungere a un giudizio esatto su un uomo e sapere com’è veramente, guardalo nudo” (Ad Luc. 76, 32), cioè spogliato di ciò che ha, dei suoi averi e della sua posizione sociale, e valutato per quello che realmente è come persona, come soggetto pensante e volente che attraverso l’agire morale può portare nel contingente qualcosa di eterno, di profondamente omogeneo al Sommo Bene.

Seneca giovinetto aveva imparato alla scuola di Quinto Sestio a “interrogare animum” (Ira 3, 36, 1), ma l’opera del maestro era scritta in greco e a noi non è pervenuta. Toccò quindi a Seneca “foggiare il linguaggio latino dell’interiorità” (A. Traína, op. cit., p. 11) ed egli, grande avvocato, lo fece attingendo a una delle più ricche riserve lessicali del latino: la lingua giuridica. Alla base di questa impresa sta, però, un’intuizione geniale: l’interiorità è autocoscienza ed autopossesso, atto di rivendicazione del possesso legale di qualcosa togliendola al proprietario illegittimo. Vita interiore vuol dire, dunque, moto di riappropriazione dell’io, strappo dell’io da ciò che è altro ed estraneo, “alienum”, perché possa finalmente, restituirsi a se stesso, “suum esse. Inaestimabile bonum est suum fieri”: “è un bene che non ha prezzo l’entrare in possesso di se stessi” (Ad Luc. 75, 18). Tuttavia il concetto di possesso muta radicalmente nel passare dal piano giuridico a quello morale; per la prima volta, infatti, esclude del tutto i beni esteriori, sì che l’io si insedia in sé e trova la sua effettiva consistenza nella misura in cui si sottrae al fascino e al dominio delle “adventiciae res”.

Strettamente congiunta all’idea di interiorità è la distinzione fra ciò che non dipende e ciò che dipende da noi, fra l’eteronomia della fortuna e delle passioni e l’autonomia della volontà buona. L’autonomia morale di colui che agisce rettamente consiste nel riconoscere come propriamente suo ciò che viene dal di dentro, dal segreto del suo cuore, dalla sua intenzione. Mai prima era stato così decisamente proclamato il primato dell’intenzione, che ha la sua espressione più alta nel Discorso della Montagna riportto da Matteo e Luca e, in campo filosofico, nella morale kantiana. Le formulazioni altére ed esasperate dell’autonomia morale spesso ne hanno offuscato il concetto, ma essa ha una sua permanente validità e la riflessione sul problema morale perviene qui ad una delle conquiste più luminose della sua storia.

Possiamo essenzializzare il discorso di Seneca in due proposizioni: 1. “per l’uomo è buono solo ciò che lo fa buono” (Ben. 5, 13, 2); 2. “io non voglio far nulla per l’opinione altrui, io voglio far tutto per la mia coscienza” (nihil opinionis causa, omnia conscientiae faciam, Vita 20, 4). Dal punto di vista morale non è il darsi da fare molto per un qualche scopo, non è l’impegno in quanto tale che conta, ma la bontà dello scopo. “Non importa ciò che si fa o si dà, ma con quale intenzione: importa l’animo di chi lo fa o lo dà”: “non quid fiat aut quid detur refert, sed qua mente, quia beneficium non in eo, quod fit aut datur, consistit, sed in ipso dantis aut facentis animo” (Ben. 1, 6, 1). Un’azione provvida nel soccorrere persone che sono nel bisogno può essere voluta per promuovere vendite o per farsi propaganda politica; il risultato è socialmente positivo, e tuttavia essa rimane interamente al di qua e al di fuori dell’ambito propriamente morale. “È la disposizione d’animo, infatti, che rende grandi le piccole cose e nobilita le meschine, così come rende misere le cose considerate importanti e pregiate… Ciò che conta è dove orienta le cose che noi desideriamo, ma che di per sé hanno una natura indifferente, colui che le governa e che dà loro forma” (Ben. 1, 6, 2). Insomma, il bene consiste soltanto nella volontà stessa di fare il bene, “in ipsa bene faciendi voluntate” (ibid. 1, 7, 1). Le conclusioni che se ne devono trarre si impongono per la loro evidenza: non vi è cosa che sia per sé incondizionatamente buona all’infuori della buona volontà. I cosiddetti beni – ingegno, abilità, prestanza fisica, salute, ecc. – in certe situazioni possono dar luogo al male, la buona volontà mai. Essa non è buona neppure per i risultati che raggiunge, ma per se stessa; non è qualcosa che serva come mezzo per conseguirne un’altra, ma un bene in se stesso. Kant farà sue queste idee di Seneca quando, nelle osservazioni iniziali della Fondazione della metafisica dei costumi, scriverà: “Può darsi che questa volontà non sia l’unico bene e il bene totale, ma essa è tuttavia necessariamente il bene supremo, la condizione dalla quale dipendono tutti gli altri beni…” (Kant’s Gesammelte Schriften, Berlin 1902-1966, vol. 4, p. 396).

La nostra natura è quella di esseri dotati di ragione e “vivere secondo natura” per noi significa sviluppare i germi, le potenzialità attive della nostra ratio individuale, piccola e preziosa parte della Ratio divina. Come in Dio, anche in noi vi è identità tra ragione e bene; con la sola differenza che in Dio quell’identità costituisce il suo stesso statuto ontologico, la sua natura, mentre per l’uomo essa è un ideale, una conquista, un dover essere. Il valore reale e profondo di una persona sta nell’adempimento di quel compito. Nell’atto di tendere al suo fine, nel cammino perfettivo verso la meta e nel pervenire ad essa consiste la virtù; e la virtù è la nostra sola, vera felicità. Ma se il solo bene è il bene morale, come giudicare tutti gli altri beni, che noi designiamo con il termine “felicitas”? La risposta di Seneca è: tutto ciò che non è propriamente il “bonum”, rientra nella sfera degli “adiáfora”, cioè delle cose indifferenti, che di per sé non sono né beni, né mali. I beni che secondo il linguaggio comune e il modo di pensare presso che generale costituiscono la cosiddetta felicità, così come l’insieme di quelle condizioni sfavorevoli che ad essa si oppongono, dal punto di vista morale sono indifferenti. La vita umana è intessuta effettivamente di “commoda” e di “incommoda”, ma gli uni e gli altri acquistano valore positivo o negativo secondo il fine a cui vengono indirizzati. Le modalità della saggezza sono qualcosa di contingente, avendo a che fare con le situazioni e i casi della vita; per questo possono variare secondo l’età, lo stato di salute, le circostanze esteriori. L’essenziale è che esse siano situate sempre e soltanto nella prospettiva della ragione. I vantaggi esteriori che talora possono venire a noi da certe situazioni di per sé non devono farci paura, così come i danni, che bisogna mettere in conto e a cui bisogna andare incontro con serenità, e anzi volentieri se sono il prezzo da pagare per fare quello che si deve.

La teoria degli “adiáfora”, però, va intesa correttamente. Tra le cose indifferenti è, infatti, naturale e ragionevole preferire le une piuttosto che le altre: chi sarà così insensato, infatti, da preferire la malattia alla salute, o l’inimicizia ai doni altissimi che l’amicizia reca con sé? Ma ciò non toglie che della salute e persino dell’amicizia, o di un beneficio ricevuto, l’uomo possa realmente fare un uso perverso. Lo stesso Seneca, l’abbiamo visto tracciando la sua vita, fu violentemente attaccato, a più riprese, dai senatori invidiosi della sua posizione presso Nerone e della sua immensa ricchezza; egli rispose con estrema energia nel “De vita beata” e altrove che l’onestà della provenienza delle sue ricchezze era tale da poter essere difesa pubblicamente da qualsiasi accusa, almeno in uno Stato di diritto. La condizione primaria e permanente per l’uso illuminato del potere come del denaro è comunque quella di essere spiritualmente distaccati nel nostro intimo e allenati a non cedere alla suggestione dei falsi valori: solo chi sia arrivato a farsi veramente “povero in spirito” può usare bene ricchezze, potere e qualsiasi altra cosa la sorte gli abbia riservato.

L’età ellenistico-romana si estende per quasi un millennio, dal IV secolo a. C. al VI dopo d.C.; non è quindi una parentesi, come la manualistica ci induce a ritenere, ma una delle componenti fondamentali della nostra civiltà accanto alla Grecia classica e al cristianesimo. Nel mezzo di quell’età, tra l’eredità greca e la novità dell’annuncio cristiano, sta la figura di Seneca. Anch’egli è un “dottore della vita felice”, secondo l’arguta definizione di Jacques Maritain (“La filosofia morale”, Morcelliana, Brescia 1971, p. 71), e potremmo anche sottoscrivere l’appellativo di “direttore di coscienza” soprattutto per la sua vivissima passione educativa, se si restituisse a quel termine la sua ricchezza spirituale. Seneca in realtà fa da raccordo tra due periodi: quello in cui predomina il problema etico, tra la fine del IV secolo a. C. e l’inizio dell’era volgare, e il successivo, che vede il predominio del problema religioso, con lo spostamento dell’interesse spirituale dai rapporti dell’uomo col mondo e con gli altri uomini al rapporto con Dio. Nel filosofo romano, però, la connessione tra l’etico e il religioso si realizza in modo coerente e spontaneo. Egli occupa un posto di rilievo nella storia del pensiero e per molte ragioni: riprende vigorosamente il messaggio socratico, ci dà un’analisi profonda della vita interiore e dell’atteggiamento dell’uomo di fronte al tempo e alla morte, ci dà la prima fenomenologia dell’esistenza alienata. Pochi come lui hanno fatto risplendere la bellezza del bene e l’universalità della legge morale, scandagliando nello stesso tempo le sue maschere e gli intrecci col male nel cuore umano. Seneca elabora la teoria di una società nuova, indicando nello stato di diritto e nel diritto mite i criteri ispiratori di ogni politica autenticamente liberale. Condivide la diffidenza del suo tempo verso il progresso tecnico, ma ha il merito di non entrare a far parte della “famiglia euforica” di quegli spiriti per i quali lo sviluppo dei lumi e delle scienze si confonde col vero progresso. Il filosofo romano crede profondamente nel progresso come collaborazione degli spiriti nella ricerca della verità e nello sforzo di preparare un’umanità più fraterna. Egli è appassionatamente convinto che occorra portare nella vita sociale, in cui gli uomini rischiano l’omologazione più degradante, la vita interiore e l’ascesi morale, non certo imponendo l’ “honestum” per decreto legge, ma attraverso un’opera di instancabile risveglio, il più intenso e diffuso possibile, delle coscienze. Per questo i suoi scritti, così ricchi di sfumature e di realismo psicologico, sono anche libri di “psicagogia”, di persuasione al bene, di vera e propria pedagogia morale.

Il difensore appassionato della dignità umana degli schiavi ci dà l’epigrafe di ogni filosofia autenticamente umanistica: “homo res sacra homini” (Ad Luc. 95, 33). In un altro passo dice anche qualcosa di più: “res sacra miser” (Epigr. 4, 9).

*******

Testi di Seneca

  1. IL MONDO, L’UOMO, DIO

IL COSMO, TEMPIO DI DIO – IL BENE INDEFETTIBILE E IL VOLERE UMANO

I MASSIMI PROBLEMI. Per parte mia, rendo grazie alla natura quando, non contento di quello che tutti vedono, mi addentro in quello che ha di più misterioso, quando apprendo gli elementi che la compongono, chi ne sia il loro autore e custode, o chi è Dio: se egli è tutto concentrato in se stesso, oppure rivolge a noi talora il suo sguardo; se ogni giorno crea qualche cosa, oppure se ha creato tutto in una volta; se fa parte dell’universo, o è l’universo stesso; se può ancora adesso prendere nuove decisioni e fare qualche eccezione alla legge del fato, o se l’aver fatto qualcosa che dovrà essere modificato significhi diminuire la sua maestà, o riconoscersi fallibile. Egli non può amare se non ciò che è ottimo, e, dunque, amerà sempre le stesse cose; non per questo, però, diminuisce il suo potere e la sua libertà. Infatti, egli stesso è la sua propria necessità.

Se non mi fosse concesso indagare questi misteri, non sarebbe valsa la pena di venire al mondo (nisi ad haec admitterer, non tanti fuerat nasci). Perché rallegrarmi di essere entrato a far parte del numero dei viventi? Forse per servire da filtro a cibi e bevande? Oppure per ingozzare questo corpo debole e malandato, che immediatamente verrebbe meno, se non pensassi a rimpinzarlo? Dovrei rallegrarmi di passare la vita a servire questo malato, e a temere la morte che è il nostro solo destino fin dalla nascita? Toglimi questo bene inestimabile della conoscenza, e la vita non merita il sudore e la pena che mi costa. (Nat. quaest. 1, praef. 3-4)

L’anima, attraverso l’esplorazione del creato, impara finalmente ciò che a lungo ha cercato e comincia a conoscere Dio. Ma Dio che cosa è? È la mente dell’universo (Quid est Deus? Mens universi). È tutto quello che vedi e tutto quello che non vedi. A lui, di cui non si può pensare nulla di più grande, non riconosciamo tutta la grandezza che gli compete, se non comprendiamo che nella sua unità v’è la totalità, che è tutto nell’opera sua e la trascende (opus suum et intra et extra tenet).  (Nat. quaest. 1, praef. 5, 12, 13 passim)

Ti rendi conto dell’importanza che ha per l’uomo indagare sui problemi di fondo e stabilire i limiti delle cose? Come non chiederci fin dove arriva la potenza divina, se Dio crea la materia, o lavora su una materia preesistente? Vi è prima la materia e poi l’idea, oppure prima l’idea e quindi la materia? Può Dio tutto ciò che vuole, o la materia in molte cose non risponde all’intenzione dell’artista, e non perché a questi manchi l’abilità, ma perché la materia è sorda?

Osservare attentamente, apprendere, studiare con assiduità queste cose non è già per l’uomo affrancarsi dalla sua mortalità e ascendere a un destino migliore (transilire mortalitatem suam et in meliorem transcribi sortem)? «Qual profitto», tu mi chiedi, «verrà a te da tutto ciò?». Se non altro, questo: dopo aver misurato la grandezza di Dio, mi renderò conto che [al suo confronto] tutto è angusto, limitato. (Nat. quaest. 1, praef. 16-17)

CRITICA DELLA TEOLOGIA DI EPICURO E RIFIUTO DELL’IDOLATRIA. Nessun uomo che abbia senno teme gli Dei: è follia, infatti, temere le cose che ci fanno del bene e nessuno ama quelli che teme. Tu, poi, Epicuro, Dio lo hai disarmato, gli hai tolto ogni potere, e perché non facesse paura a nessuno lo hai gettato al di fuori di ogni nostra paura.

Certo non c’è più motivo di temere questo Dio recinto da un muro alto e insuperabile e fuori dal contatto e dalla vita dei mortali: è un Dio che non ha modo di fare né il bene né il male. Abbandonato nello spazio fra questo mondo e quell’altro, senza esseri viventi, senza uomini, senza nulla, egli evita la rovina dei mondi che crollano sopra e attorno a lui, senza udire le nostre preghiere e senza curarsi di quanto ci accade.

Eppure ci tieni ad apparire uno che lo venera come si venera un padre, penso con gratitudine; se, invece, tieni a non apparire grato perché da lui non ricevi alcun beneficio, ma sei il prodotto cieco e casuale degli atomi e di quelle particelle di cui vai insegnando, perché gli presti culto?

«Per la sua maestà», mi rispondi, «e per la sua natura unica e incomparabile». Prendiamo atto che tu lo fai senza esservi indotto da alcun guadagno e da alcuna speranza. C’è, dunque, qualcosa che è desiderabile per sé, qualcosa che ti attira per la sua intrinseca dignità, e questo è il bene. Ma nulla è più conforme al bene della riconoscenza, una virtù che per esercitarsi ha un campo vasto quanto la vita. (Ben. 4, 19, 1-4)

Il primo vero culto sta nel credere negli Dei; poi nel riconoscerne la maestà, e insieme la bontà, che dalla maestà è indissolubile; sapere che gli Dei governano il mondo, che con la loro potenza danno ordine a tutte le cose, che proteggono il genere umano, interessandosi talora dei singoli. Essi non infliggono mali, e ne sono esenti; per altro puniscono alcuni, raffrenano, comminano pene, e talora danno punizioni sotto l’apparenza di benefizi. Vuoi propiziarti gli Dei? Sii buono. Chi li imita, rende loro il debito culto (Vis Deos propitiare? Bonus esto. Satis coluit quisquis imitatus est). (Ad Luc. 95, 50)

Grazie alla iniziazione [della sapienza] ci viene aperto non il santuario di un luogo, ma lo stesso immenso tempio di tutti gli Dei, il cosmo. La sapienza ha offerto le vere immagini del cosmo e il suo vero volto alla vista della mente, perché la vista degli occhi è troppo debole per spettacoli così grandi. (Ad Luc. 90,28)

Gli Dei – esseri sacri, immortali, inviolabili – sono relegati in una materia vilissima e inerti. Ad essi arrivano ad attribuire l’aspetto di uomini, di bestie e di pesci, talora unendo addirittura insieme sessi e corpi diversi. Se esseri di tal fatta si animassero d’un tratto e ci comparissero davanti, noi li prenderemmo per mostri; loro, però, vi riconoscono la divinità stessa. [Il passo di Seneca, tratto dal “De superstizione”, è attestato da Agostino nel “De civitate Dei 6”, 10]

Il mondo intero è tempio degli Dei immortali, l’unico degno della loro grandezza e della loro magnificenza. (Ben. 7, 7, 3)

Non vanno costruiti per Dio templi di pietra che si elevano in altezza: è nell’intimità del cuore che ci si deve consacrare a lui. [Fr. 123 Haase, tratto da Lattanzio, Instit. 6, 25, 3]

NEL DECRETO ETERNO DI DIO SONO CONCILIATI FATO E LIBERTÀ. I fati esplicano il loro potere in modo del tutto diverso [da come crediamo]: non deviano dal loro corso per compassione e non fanno eccezioni di sorta… Le cose seguono un irreversibile corso: sono come torrenti impetuosi che non possono scorrere a ritroso e neppure rallentare la loro corsa, perché le loro acque, sopraggiungendo alle altre e accavallandosi ad esse, le travolgono e le sospingono innanzi. Così si snoda, in una concatenazione eterna, l’ordine del fato e le cose hanno come prima legge quella di conformarsi ad esso.

Che cos’è, dunque, il fato? È la necessità ferrea, assoluta con cui si svolgono tutte le cose e tutte le azioni: una necessità che nessuna forza può infrangere. Se tu pensi di scongiurarla con sacrifici, immolando una candida agnella, non conosci le cose divine. Voi dite che il giudizio del saggio non conosce mutamenti; tanto meno quello di Dio. Il saggio sa che cosa è meglio nel momento presente, mentre a Dio ogni momento è presente.

Tuttavia, anche noi [stoici] riteniamo che le preghiere giovino, senza per questo sminuire la forza del destino. Vi sono cose, infatti, che gli Dei immortali hanno lasciato in sospeso affinché potessero volgere in bene per coloro che li invocano e presentano ad essi i loro voti. E questo non va contro il fato, ma è parte esso stesso del fato.

C’è chi muove questa obiezione: “Una cosa deve essere o non essere. Se deve essere, sarà, anche se ci si astiene dal pregare. Se non deve essere, non sarà, anche se avrai pregato”. Questo, però, è un falso dilemma perché trascura l’alternativa media tra le due tesi opposte: la cosa sarà, a patto che sia stata innalzata la preghiera [a Dio perché ci sia].

Ragionamenti del genere ci vengono di solito offerti per provare che niente è stato lasciato alla nostra volontà e che ogni nostro diritto di agire [liberamente] è consegnato [al fato]. Quando tratterò questo argomento dirò in che modo, senza nulla togliere al fato, qualcosa rimanga al libero arbitrio dell’uomo… (Nat. quaest. 2, 35, 2; 36; 37, 2-3; 38, 3)

I NOMI DI DIO. I nomi di Dio possono essere tanto numerosi quanti sono i suoi doni (tot appellationes eius possunt quot numera). (Ben 4, 7, 2)

DIO, IL COSMO, L’UOMO. Ovunque volgerai il tuo sguardo, vedrai Dio che ti viene incontro. Niente è privo di lui ed egli riempie con la sua presenza la sua opera. Non ha, dunque, senso alcuno che, dandoti l’aria del più ingrato tra gli uomini, tu dica: «Io non sono debitore a Dio, ma alla natura». La natura, infatti, non può essere senza Dio… (Ben. 4, 8, 2)

L’UOMO E LO SPETTACOLO DEL COSMO. Forte e spontaneo [come un istinto] è in noi il bisogno di conoscere. Ce lo ha dato la natura, conscia della propria arte e della propria bellezza. Essa ci ha generati spettatori di spettacoli incommensurabili [e non a caso]: infatti, le sue fatiche non avrebbero senso, se le sue produzioni – tanto grandi e splendenti, mirabilmente plasmate, così evidentemente belle e belle di nobile bellezza – facessero mostra di sé in un deserto. (Otio 5, 3)

IL FINE DELLA CREAZIONE E L’IMITAZIONE DI DIO

IN DIO NON C’È INVIDIA. Mi chiedi quale sia per Dio il fine [della creazione]? È la bontà (Quaeris, quod sit propositum Deo? Bonitas). Così certo ci dice Platone: «Quale motivo ebbe Dio per creare il mondo? Egli è buono e il buono non ha invidia alcuna di qualsiasi bene. Lo creò, pertanto, quanto più potè ottimo». (Ad Luc. 75, 10)

IN DIO NON C’È VOLONTÀ DI DOMINIO. Giove possiede tutti i beni, ma ha voluto trasferirli agli uomini. A lui, pertanto, spetta solo questo: far sì che gli altri ne entrino in possesso e li usino. (Ad Luc. 73, 13)

Dio non possiede nulla, Dio è nudo (Deus nihil habet, Deus nudus est). (Ad Luc. 33, 10)

Dio non chiede servitori. Perché mai? Perché è egli stesso al servizio del genere umano, a nostra disposizione in ogni luogo e per tutti (Non quaerit ministros Deus. Quidni? Ipse humano generi ministrat, ubique et omnibus praesto est). (Ad Luc. 95, 47)

DIO ABITA IN NOI. Non occorre levare le mani al cielo, né supplicare il sagrestano di lasciarci avvicinare all’orecchio della statua, come se in quel modo la nostra voce potesse essere udita meglio. Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te (prope est a te Deus, tecum est, intus est).

Un sacro spirito alita in noi (sacer intra nos spiritus sedet), custode o vigile del nostro bene e del nostro male, e ci tratta così come noi lo trattiamo. Nessuno, in verità, può essere virtuoso senza Dio (bonus vero vir sine Deo nemo est). (Ad Luc. 41, 1-2 passim)

Gli Dei non sono superbi, né invidiosi. Ci lasciano andare verso di loro e tendono la mano a chi a loro s’innalza…

Ti meravigli che l’uomo vada verso Dio? È Dio stesso che scende verso gli uomini; anzi, ed è cosa che ben più profonda, viene negli uomini. Non c’è anima virtuosa senza l’aiuto di Dio. (Miraris hominem ad Deos ire? Deus ad homines venit; immo, quod est propius, in homines venit. Nulla sine Deo mens bona est). (Ad Luc. 73, 15-16 passim)

DIO FA SPLENDERE IL SOLE SUI BUONI E SUI CATTIVI. Gli Dei, ottimi autori di tutte le cose, fanno del bene anche a quelli che non se ne accorgono nemmeno e continuano a farlo persino agli ingrati.

Uno li accusa di non aver cura di noi, un altro di ingiustizia; e c’è chi li caccia dal nostro mondo e se li rappresenta totalmente sprofondati nell’inerzia e nell’ignavia…

Ciò nonostante loro si comportano con noi come quei genitori troppo buoni, che sorridono alle parole offensive dei loro bambini [ignari di quello che esse significano]. Gli Dei non smettono di accumulare benefici su coloro che mettono in dubbio l’esistenza stessa del benefattore, ma distribuiscono in egual misura i loro benefici tra le genti e i popoli, perché per loro natura hanno solo il potere di fare il bene. (Ben. 7, 31, 2-4 passim)

CONSENTIRE A DIO. In tutte le vicende che mi sembrano disgraziate e dure a sopportarsi, ecco il criterio a cui mi attengo: io non obbedisco a Dio, ma consento a lui, assecondando la sua volontà col mio cuore, non per forza (non pareo Deo, sed assentior: ex animo illum, non quia necesse est, sequor). Nulla mai mi accadrà che sia accolto da me con animo triste, nulla a cui io non faccia buon viso. Mi assoggetterò sempre volentieri al tributo da pagare. Ora, tutte le cose che provocano in noi gemiti e spaventi sono tributi alla vita. Tu non sperare e non chiedere alcuna esenzione. (Ad Luc. 96, 2)

Da nulla sono costretto, nulla subisco contro il mio volere né sono schiavo di Dio, ma accolgo in me la sua volontà (nihil cogor, nihil patior invitus, nec servio Deo, sed assentior). (Prov. 5, 6 passim)

IL PUNTO D’INCONTRO TRA DIO E L’UOMO. Tra gli uomini buoni e la divinità, c’è un’amicizia il cui punto d’incontro è la virtù. Ma che dico, amicizia? È un vincolo, una quasi parità: l’uomo buono differisce da Dio soltanto perché si trova nel tempo, ma è suo discepolo, suo emulo, suo vero figlio; e Dio, padre meraviglioso, esigente in fatto di virtù, lo educa con durezza, come usano i padri severi…

Dio non blandisce l’uomo buono: lo mette alla prova, lo irrobustisce, lo rende degno di sé. (Prov. 1, 5-6 passim)

NESSUNO È GIUSTO CON DIO. Ho incontrato molti uomini giusti nei confronti dei propri simili, nessuno con Dio. (Ad Luc. 93, 1)

CHE COSA CHIEDERE A DIO. Alle parole adegua la vita (sic loquere, sic vive) e bada a non lasciarti deprimere da nulla. Anche a costo di dispensare gli Dei dall’accogliere i tuoi desideri di un tempo, formulane di nuovi. Chiedi la saggezza, la salute dell’anima e poi quella del corpo (roga bonam mentem, bonam valetudinem animi, tunc corporis). Perché non dovresti rinnovare spesso questi voti? Abbi il coraggio di pregare Dio con audacia e non chiedergli nulla che non sia conforme al suo volere (audacter Deum roga: nihil illum de alieno rogaturus es). (Ad Luc. 10, 4)

  1. LA FILOSOFIA, AMORE DI SAPIENZA

LA VITA COME RICERCA

I – LA LETTERA 45: AMPIO IL CAMPO DELLA VERITÀ ANCORA DA CERCARE

Ti lamenti che lì a Siracusa ti mancano i libri. Non importa, però, che tu ne abbia molti, ma che siano buoni: la lettura di opere di sicuro valore giova, quella di libri vari diverte soltanto (lectio certa prodest, varia delectat). Chi vuol giungere a una meta determinata segua una sola strada, non vaghi per molte: aggirarsi di qua e di là non è camminare.

Tu mi scrivi: «Da te vorrei più libri che consigli». Io sono pronto, in verità, a inviarti tutti quelli che ho e a svuotare completamente la mia libreria. Anzi, se potessi, trasferirei me stesso da te e, se non sperassi che presto ti sarà consentito lasciare il posto che occupi, mi sarei già imposto questa spedizione. Malgrado la mia vecchiaia, attraverserei a nuoto il mitico stretto di Scilla e Cariddi pur di poterti abbracciare e di accertare personalmente di quanto è cresciuto [spiritualmente] il tuo animo.

Ma quale che sia il valore dei miei libri, tu leggili come se io cercassi ancora la verità e, non conoscendola, dovessi continuare a cercarla con ostinazione contumace. Io non mi sono messo al servizio di nessuno e, pur avendo grande stima del giudizio dei più insigni pensatori, rivendico un qualche diritto anche al mio (multum magnorum virorum iudicio credo, aliquid et meo vindico). Anch’essi, infatti, ci hanno lasciato verità che non sono state ancora trovate e devono essere cercate (nam illi quoque non inventa sed quaerenda nobis relinquerunt); e forse avrebbero progredito di più nella conoscenza del necessario, se non avessero cercato anche il superfluo.

Perdettero, infatti, molto tempo in cavilli di parole (verborum cavillatio) e in discussioni capziose (captiosae disputationes) su cui inutilmente si esercitano gli ingegni. Attribuendo alle parole significati ambigui, noi ci divertiamo a stringere nodi per poi mostrare di saperli sciogliere. Ma abbiamo proprio tanto tempo da perdere e abbiamo già appreso l’arte di vivere e morire? (Ad Luc. 45, 1-2 e 4-5)

II – I GRANDI MAESTRI, CONTEMPORANEI DI OGNI EPOCA

I soli che raggiungono la vita serena, disponendo del loro tempo, sono quelli che si consacrano alla sapienza: essi sono i soli, infatti, a vivere, perché non si limitano a usare bene i loro anni, ma aggiungono ad essi quelli delle età precedenti, essendo entrati a far parte della loro esperienza gli anni trascorsi prima della loro nascita. Se non vogliamo sembrare i più ingrati di tutti, bisogna riconoscere che i gloriosi fondatori delle grandi dottrine [filosofiche] sono nati per noi e a noi hanno preparato la via della vita. Così, grazie alle fatiche degli altri, siamo guidati a contemplare le bellissime verità strappate alle tenebre e portate alla luce: da nessun’epoca siamo esclusi, a tutte abbiamo accesso (nullo nobis saeculo interdictum est, in omnia admittimur) e, se riusciamo a superare con la grandezza d’animo le miserie dell’umana debolezza, ampio è l’arco di tempo in cui possiamo spaziare.

Ci è consentito dialogare con Socrate, dubitare con Carneade, trovar pace con Epicuro, vincere con gli stoici la natura umana, oltrepassarla con i cinici. La natura ci permette di entrare in comunione con ogni età: perché, allora, non ci volgiamo con tutto l’animo da questo nostro tempo, esiguo e caduco, nel suo [inarrestabile] passare, a ciò che è infinito ed eterno, a quella realtà alla quale noi partecipiamo con chi è migliore di noi? (Brev. 14, 1-2)

Nessuno [tra i maestri del pensiero] si farà persuasore di morte, ma tutti ti insegneranno ad affrontare la morte; nessuno di loro ha sciupato i suoi anni, ma ciascuno aggiungerà i suoi ai tuoi; con nessuno di loro la conversazione sarà pericolosa, l’amicizia un rischio mortale, l’atto di omaggio qualcosa che può costar caro. Da essi otterrai tutto ciò che vorrai: spetterà soltanto a te attingere da essi quanto più desideri.

Quanta felicità, quale serena vecchiaia attende colui che ricorre alla loro protezione! Avrà in essi persone con cui consigliarsi in ogni decisione, dalla più piccola alla più importante: [maestri e amici] che potrà consultare ogni giorno su tutto quanto lo riguarda. Da essi apprende la verità senza essere offeso, è lodato senza essere adulato, ed è a somiglianza di essi che dovrebbe plasmare se stesso.

Si suol dire che non ci è permesso scegliere i genitori, che ci sono assegnati dal caso; a quanti, però, aspirano ad essere saggi è consentito nascere secondo il proprio volere. Ci sono famiglie [=scuole] a cui appartengono i più nobili spiriti: scegli tu quella in cui vuoi essere accolto. Sarai così reso partecipe non solo del nome, ma degli stessi suoi beni, che non sarai costretto a custodire con animo sordido e diffidente: [quei beni] si accresceranno tanto più quanto più numerosi saranno quelli con cui li dividerai.

[I maestri del pensiero] ti apriranno la via verso l’eternità e ti innalzeranno a un’altezza da cui nessuno è precipitato. Questo è l’unico modo per prolungare la vita mortale e, anzi, per trasformarla in immortalità. Onori, monumenti, tutto quanto l’ambizione ha imposto con decreti o costruisce, ben presto scompare. Non vi è nulla che, col passare degli anni, non vada distrutto o non cada in rovina; nulla, invece, nuoce a quelli che la sapienza ha consacrato [a sé]. Nessun’epoca potrà abolirne il ricordo, o sminuirne la gloria; anzi, l’età seguente e quelle che poi verranno recheranno sempre un qualche contributo ad accrescere la venerazione per loro.

Dunque la vita del filosofo ha [a sua disposizione] uno spazio molto vasto, non è ristretta negli stessi confini degli altri ed è libera, perciò, da quelle leggi a cui quelli sottostanno. Tutte le epoche sono ai suoi ordini come a quelli di Dio. Il passato egli l’abbraccia con il ricordo, del presente ne fa uso, del futuro pregusta le gioie: [questa capacità di] riunire tutti i tempi in uno solo gli rende più lunga la vita. (Brev. 15, 1-5)

LA RICERCA NON ABBIA FINE. Nulla mai si scoprirà, se saremo soddisfatti di quanto è già scoperto (numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis). (Ad Luc. 33, 10)

CIÒ CHE È VERO, È DI TUTTI. Può darsi che tu mi chieda perché io riferisca tante belle sentenze di Epicuro piuttosto che degli stoici. Ma hai una ragione per credere che queste massime siano di Epicuro piuttosto che di tutti? (Ad Luc. 8, 8)

Io adduco l’argomento di Platone: che male c’è ad usare pensieri altrui nella misura in cui sono nostri? (Ira I, 6, 5)

Dirai: «Hai fatto tuo un detto di Epicuro. Come mai citi uno che appartiene ad altra scuola?». Tutto ciò che è vero, è mio (quod verum est, meum est). Quanti giurano in verba magistri e non badano alla verità delle cose dette, ma a chi le pronuncia, sappiano che ciò che è ottimo è patrimonio di tutti. (Ad Luc. 12, 11)

«Qual è l’autore? Chi l’ha detto?», tu mi chiedi. Io sono deciso a mettere in valore, con animo liberale, ciò che gli altri hanno trovato di vero. E tuttavia che t’importa chi ha detto una verità dal momento che l’ha detta per tutti (Et quid interest, quis dixerit? Omnibus dixit). (Ad Luc. 14, 17-18 passim)

La procedura che si applica in senato è, secondo me, valida anche per filosofare. Qualcuno avanza una proposta che in parte condivido? Lo invito a suddividere la sua mozione in punti distinti; io appoggerò solo quei punti che approvo. (Ad Luc. 21, 9)

LE COSE COME SONO. Poni bene attenzione a considerare le cose come sono e non come vengono chiamate. (Ad Luc. 110, 3)

VERO – FALSO. La verità resta sempre quella; ciò che è falso, invece, non dura (vero tenor permanet, falsa non durant). (Ad Luc. 120, 19)

IN PROFONDITÀ. Dobbiamo impegnare ogni nostra energia a indagare dove è stata riposta quella verità che noi ora cerchiamo in superficie e con leggerezza. (Nat. quaest. 7, 32 4)

IL TEMPO DISCHIUDE LA VERITÀ. Ci son delle cose false che hanno l’apparenza del vero e bisogna conceder sempre a noi stessi un lasso di tempo: il tempo dischiude la verità. (Ira 2, 22, 2-3)

TENERLA TRA LE MANI. La verità viene meglio in luce se la si tiene più spesso tra le mani (magis veritas elucet quo sepius ad manum venit). (Ira 2, 29, 3)

FILOSOFIA E VITA

LE PROMESSE DELLA FILOSOFIA. Che tu, abbandonata ogni altra cosa, ti impegni a renderti ogni giorno migliore, mi fa piacere, l’approvo e non solo ti esorto alla perseveranza, ma la pretendo da te. Ti avverto, però, di non assumere atteggiamenti stravaganti nel tuo modo di pensare e di vivere, come fanno coloro che non desiderano progredire, ma farsi notare.

Evita gli abiti grossolani, i capelli lunghi, la barba incolta; non è poi il caso di odiare l’argenteria e di dormire sulla nuda terra. Astieniti, insomma, da tutte le stranezze che, per vie traverse, sono originate dal desiderio di attirare l’attenzione. «Filosofia» è già di per sé un nome abbastanza impopolare, anche quando è professata con dignità; figuriamoci poi se cominceremo a separarci dai comportamenti che sono comuni ai più. Nel nostro animo tutto sia dissimile, ma il nostro aspetto esteriore si accordi con quello dei più.

Comportiamoci in modo che la nostra vita sia migliore di quella del volgo, non contraria; altrimenti allontaniamo da noi e ci rendiamo estranei proprio quelli che vorremmo veder migliorare. Il risultato in tal caso non sarebbe quello sperato: coloro che temono di doverci imitare in tutto, non vorranno somigliare a noi in nulla.

La filosofia promette soprattutto buon senso, umanità, socialità (hoc primum philosophia promittit, sensum communem, humanitatem et congregationem). Badiamo che i mezzi con i quali vogliamo suscitare ammirazione non siano ridicoli e scostanti. Senza dubbio il nostro fine è vivere secondo natura: ma è contro natura martoriare il proprio corpo, aborrire la pulizia personale (cosa non certo difficile), ricercare una squallida trascuratezza, e persino nutrirsi di cibi disgustosi. Come è segno di corruzione la ricerca raffinata di ciò che è superfluo, così è da pazzi rifuggire dalle cose d’uso comune che si possono acquistare con poco. La filosofia esige la frugalità, non la sofferenza; e la frugalità, d’altra parte, può essere non priva di decoro (frugalitatem exigit philosophia, non poenam: potest autem esse non incompta frugalitas). (Ad Luc. 5, 1-5)

SOLO LA VERITÀ PUÒ CONDURCI A UNA VITA FELICE. Nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità (beatus dici nemo potest extra veritatem proiectus). (Vita 5, 2)

Che ti darà la filosofia che tu lodi, giudicandola superiore ad ogni altra disciplina e ad ogni altra cosa? Senz’altro ti metterà in grado di preferire l’attestazione interiore della coscienza a quella esteriore della gente, e a pesare il valore dei consensi invece che a contarli; ti insegnerà a vivere senza paura degli Dei e degli uomini. (Ad Luc. 29, 12)

«Per ottenere la vera libertà», scrive Epicuro, «devi farti schiavo della filosofia». Chi ad essa si affida completamente non ha da aspettare neppure un giorno per essere affrancato. Questo stesso servire la filosofia è libertà. (Ad Luc. 8, 7)

Ricorriamo alla filosofia (ad philosophiam ergo confugiendum est). Essa conferisce dignità e sicurezza non solo ai buoni, ma anche a quelli che sono ancora per metà cattivi… Non è pensabile che la depravazione cresca a tal punto e la congiura contro la virtù diventi così potente da far scomparire il nome venerabile e santo della filosofia. Della filosofia, peraltro, si deve fare uso con spirito di oggettività e di discrezione. (Ad Luc. 14, 11)

La vita non può essere felice e neppure tollerabile senza l’amore della sapienza. Bisogna accrescere vigore alle nostre forze spirituali, con un continuo impegno e con la meditazione quotidiana, affinché la buona volontà diventi condotta di vita. (Ad Luc. 16, 1)

Se ti dedichi alla filosofia, fai bene, perché, in fin dei conti, questo significa star bene. Senza filosofia l’anima è malata e il vigore stesso del corpo, per quanto grande, è sregolato, come la forza dei furiosi e dei deliranti.

Cerca, dunque, innanzi tutto la salute dell’anima e poi, senza affaticarti molto e senza sprecare troppo tempo, anche quella del corpo, se vorrai star bene nel vero senso della parola. (Ad Luc. 15, 1-2 passim)

Non è la filosofia un’arte popolare o qualcosa da ostentare, non risiede nelle parole, ma nelle cose. Non è un diversivo per far passare il tempo, per vincere la nausea che nasce dal non far nulla. Essa forma e forgia l’anima, dà ordine all’esistenza, ispira le azioni, mostra quel che si deve e non si deve fare, regge il timone e tiene la rotta attraverso i pericoli. Senza di essa nessuno può vivere con animo intrepido, nessuno in serenità… In ogni momento i più vari eventi richiedono consigli che essa soltanto può darci. (Ad Luc. 16, 3)

Rigetta da te ogni futilità, se sei saggio; anzi, per essere saggio. Tendi con lena e con tutte le tue forze a formarti una retta coscienza. Se qualche nodo ti trattiene, scioglilo o taglialo. Non basta essere convinti che, in complesso, la filosofia possa tornare utile.

Se parli così, dai l’impressione di non conoscere ancora l’importanza e la forza di quel bene a cui aspiri. Tu non sai di quanto sia di aiuto la filosofia in ogni circostanza: essa ci soccorre, per dirla con Cicerone, nelle più grandi crisi, ma ci viene incontro anche nei più piccoli problemi. Credimi, ricorri al suo consiglio e non indugerai più, per darti ad essa, in calcoli sbagliati. (Ad Luc. 17, 1 passim e 2)

L’IMPERATIVO DELLA COERENZA. Lascia che la filosofia penetri nella profondità della tua anima. Misura il profitto che ne trai non tanto da quello che dici o che scrivi, ma dalla fermezza dell’anima e dalla diminuzione delle passioni. Dimostra la bontà delle parole con i fatti (verba rebus proba).

È ben lontano da questo impegno lo scopo di coloro che, con le loro declamazioni, vanno in cerca degli applausi della folla o riempiono, con discorsi vari e incoerenti, le orecchie dei giovani e degli sfaccendati. La filosofia insegna ad agire, non a parlare; essa esige che ognuno viva secondo l’imperativo della coscienza (facere docet philosophia, non dicere; et hoc exigit ut ad legem suam quisque vivat). Il vivere non dev’essere discorde dal parlare e neppure con se stesso, dal momento che quanto uno fa promana da uno stesso io: una stessa tonalità di colore può ben unire, dunque, le azioni di una stessa persona. È questo il segno distintivo della saggezza, il suo principale compito: che le parole siano all’unisono con i fatti, che l’uomo sia sempre se stesso. Chi ci mostrerà un esempio vivente di tale coerenza? Pochi, soltanto alcuni, perché è difficile. Io non dico che il saggio debba procedere sempre con lo stesso passo, ma per una stessa strada. (Ad Luc. 20, 1 passim e 2)

Sia questa la sostanza del nostro impegno: diciamo quel che pensiamo, pensiamo quel che diciamo. E non soltanto pensiamolo, ma amiamolo. (Ad Luc. 75, 4)

Il vero filosofo non è chi professa, ma chi testimonia la verità (non praeceptor, sed testis est). (Ad Luc. 20, 9)

La verità bisogna dirla solo a chi è disposto ad intenderla. È lecito, perciò, dubitare se sia opportuno praticare il metodo di Diogene e di altri cinici, i quali, usando di un’eccessiva libertà, dispensavano consigli a tutti quelli che incontravano…

Tu potresti ribattermi: «Non posso sapere se sarò utile a colui che ascolta un mio consiglio; ma se darò consigli a molti, a qualcuno gioverò. Bisogna seminare in abbondanza. Moltiplicando i tentativi, una volta o l’altra si avrà successo». Io, però, non penso che un uomo di valore debba procedere così: un metodo del genere svilirebbe la sua autorità ed egli non avrebbe più il prestigio necessario presso coloro a cui avrebbe potuto giovare. L’arciere non deve far centro una volta ogni tanto; se mai sbagliare una volta ogni tanto. Non è per nulla un’arte quella che arriva per caso a conseguire il suo effetto; e la saggezza è un’arte. Il saggio cerchi, dunque, di centrare l’obiettivo e punti su coloro che sono disposti a progredire [nella vita spirituale], non inseguendo quelli su cui ha perso ogni speranza. Tuttavia, non abbandoni neppure loro e, senza attendersi nulla, non esiti a ricorrere a rimedi anche estremi nei loro confronti. (Ad Luc. 29, 1 passim e 2-3)

SENZA POMPA, CON SIMPATIA. Per quanto ti è possibile, rifugiati nella filosofia. Essa ti accoglierà nel suo grembo, sarai sicuro o almeno meno insicuro nel suo santuario…. Della filosofia, però, non dovrai menar vanto: essa, infatti, fu per molti causa di pericolo perché esercitata con insolenza contumace. La filosofia ti insegni a ridurre i  tuoi vizi e a non rinfacciare agli altri i loro. Essa deve servirti a non rompere con i costumi e gli usi correnti, a non darti mai l’aria di disprezzare tutto quello che non sei tu a fare. Si può essere saggi senza pompa e senza attirarsi antipatie (licet sapere sine pompa, sine invidia). (Ad Luc. 103, 4-5)

SENECA CONFIDA NEI POSTERI. Mi sono ritirato non tanto dagli uomini, quanto piuttosto dalle cose, e soprattutto dalle mie cose. Ormai curo gli affari dei posteri (posterorum negotium ago). Per loro annoto qualche massima che possa tornar utile. Affido ai miei scritti consigli salutari, quasi fossero ricette di medicine efficaci, da me già sperimentate sulle mie piaghe, che, sebbene non siano del tutto guarite, pure hanno cessato di estendersi.

La strada giusta, che io ho scoperto tardi, ormai sfinito dal vagabondare, la mostro ora agli altri (rectum iter, quod sero cognovi et lassus errando, aliis monstro). (Ad Luc. 8, 2 e 3 passim)

Lucilio, io troverò accoglienza presso i posteri (habebo apud posteros gratiam) e con me posso condurre fuori dall’oblio nomi che dureranno. (Ad Luc. 21, 5)

Mai la verità resta nascosta: e, comunque, il restare nascosta non è per lei stessa un danno. Verrà giorno che disveli quella virtù che rimase nascosta e soffocata dalla malignità dei tempi. È nato per pochi chi pensa solo ai suoi contemporanei. Molte migliaia di anni, molte migliaia di popoli verranno ancora, in futuro: rivolgi ad essi il tuo pensiero. Anche se il livore avrà imposto a tutti i tuoi contemporanei il silenzio [sui tuoi meriti], verranno, un giorno, quelli che sapranno giudicare senza volerti né offendere né lusingare. Se un qualche premio viene alla virtù dalla fama, neppure esso andrà perduto. (Ad Luc. 79, 17)

  1. IL VALORE MORALE: IL BONUM HONESTUM E IL PRIMATO DELLA COSCIENZA

DUE TESTI ESEMPLARI

I – CHE COS’È IMPORTANTE NELLA VITA DELL’UOMO?

Che cos’è importante [nella vita dell’uomo]? Innalzare l’anima sopra minacce e lusinghe della fortuna…Nulla ha, infatti, la fortuna che meriti di essere voluto per sé.

Che cos’è importante? Sopportare le avversità con animo sereno; qualunque cosa accada, sopportala come se fossi tu a volere che accadesse…

Che cos’è importante? Un animo forte e saldo contro le disgrazie; un animo non solo lontano, ma anche nemico del lusso; un animo che non vada in cerca dei pericoli, ma non li rifugga; che sappia non attendere, ma generare la propria fortuna, avanzando contro la buona e la cattiva sorte senza paura e senza turbamento; un animo non colpito dall’attacco di questa, né dallo splendore di quella.

Che cos’è importante? Non fare posto nell’animo a cattivi pensieri e levare al cielo mani pure. Non mirare ad un bene che, per passare a te, qualcuno deve perdere e che si può desiderare senza sollevare contestazioni: quel bene è la saggezza.

Che cos’è importante? Innalzare lo spirito al di sopra delle cose che dipendono dalla fortuna e ricordarsi della propria condizione umana: così, se sarai fortunato, saprai che non durerà a lungo, e se sarai sfortunato, saprai che non per questo devi considerarti infelice.

Che cos’è importante? Tenere la propria vita a fior di labbra: questo rende liberi non in virtù del diritto romano, ma in virtù del diritto di natura. È libero chi si è sottratto alla schiavitù di se stesso: questa, continua e ineluttabile, opprime giorno e notte senza intervallo e senza pausa.

Essere schiavi di se stessi è la schiavitù più dura: scrollartela di dosso, però, è agevole, se smetterai di pretendere da te molto più di quanto consentano le tue forze e se non cercherai il tuo tornaconto. (Nat. quaest. 3, praef. 11-17 passim)

II – L’ULTIMO MESSAGGIO: LA CONCLUSIONE DELLA LETTERA 124

Fino a quando ti sforzerai di ottenere cose che non appartengono al tuo volere, è inevitabile che tu sia sconfitto; ma una volta che tu le abbia messe da parte, torna al tuo vero bene. In che cosa consiste questo bene? È certamente un animo purificato e senza macchia, emulo di Dio, capace di innalzarsi al di sopra dei limiti umani, un animo che non ripone fuori di sé nulla di ciò che è intimamente suo. Sei un animale dotato di ragione e, dunque, il bene tuo proprio è il compimento perfettivo della ragione.

Richiama, perciò, la tua ragione al suo stesso dover essere e fa che progredisca il più possibile. Considerati un uomo felice quando ogni gioia scaturirà per te da te stesso (tunc beatum esse te iudica cum tibi ex te gaudium omne nascetur) e quando – avendo passato in rassegna quelle cose che gli uomini si sottraggono e bramano e custodiscono gelosamente – nulla troverai [in esse] che tu debba preferire e neppure desiderare. Ti darò una regola breve per valutare te stesso, una regola che ti faccia sentire se hai raggiunto la perfezione: allora sarai pienamente padrone di te stesso, quando capirai che gli uomini [fortunati che si credono o sono creduti] felici, sono i più infelici. (Ad Luc. 24, 23-24)

L’INTENZIONE, FORMA INTERIORE DELL’AGIRE

SPIRITUALITÀ E INTERIORITÀ DEL BENE. Non possono essere i sensi i giudici del bene e del male. È evidente che a queste distinzioni presiede la ragione. Della felicità, della virtù, dell’onesto e dunque anche del bene e del male, decide la ragione. Puoi vedere da te quando grande sia l’ignoranza della verità e come siano stati gettati in basso quei valori, che sono di una elevatezza divina, da coloro che pretendono visualizzare o tattilizzare il giudizio del sommo bene e del massimo dei mali. Non esiste il bene se non dove c’è la ragione (nisi ubi rationi locus est, bonum non est). Ciò che ha valore assoluto è prerogativa dei soli esseri razionali: ad essi soltanto è dato sapere perché, fino a qual punto, in qual modo bisogna agire. Il bene non può ritrovarsi se non in colui che è dotato di ragione. (Ad Luc. 124, 4-5, 13, 20 passim)

Qual è la facoltà propria dell’uomo? La ragione. Se è ben usata, se cioè tende alla perfezione che le è propria, essa colma l’uomo di felicità. La virtù è la ragione che porta a perfezione il bene suo specifico. (Ad Luc. 76, 10)

Niente è bene se non ciò che è onesto; ciò che è onesto è sempre un bene (nihil est bonum nisi quod honestum est; quod honestum, est utique bonum). (Ad Luc. 120, 3)

Si può essere colpevoli senza aver fatto del male agli altri. Se, ad esempio, uno sta con sua moglie, pensando di essere con la moglie di un altro, commette adulterio… Così se uno mi dà il veleno, e questo, mescolandosi con il cibo, non produce l’effetto voluto, egli si è reso lo stesso colpevole di delitto, anche se non mi ha recato alcun danno. Non è meno assassino chi ha tentato di uccidermi, solo perché il suo colpo è andato a vuoto. Dal punto di vista della colpa, tutti i delitti sono compiutamente tali anche prima della loro esecuzione materiale. (Const. 7, 4-5)

Che uno assista un amico infermo, è certo cosa buona. Se, però, lo fa in vista dell’eredità, è un avvoltoio in attesa del cadavere. Che la stessa azione sia buona o cattiva dipende dalla ragione per cui viene compiuta e secondo quale intenzione. (Ad Luc. 95, 43)

Tu dici: «Che cos’altro potevo fare? Finora ce l’ho messa tutta». Il punto principale è proprio questo. È l’intenzione che conta (res animo constat): la bontà, in gran parte, consiste nel voler essere buoni (pars magna bonitatis est velle fieri bonum). (Ad Luc. 34, 3)

Che cosa ti è necessario per essere buono? Volerlo (Quid tibi opus est ut bonus sit? Velle). (Ad Luc. 80, 4)

VIRTÙ E FELICITÀ. Non è detto che, se la virtù arriva a darci gioia, la si ricerchi per questo: essa, infatti, non ci dà la gioia, ma anche la gioia. Non si dà da fare per essa, ma la sua fatica, pur diretta ad altro scopo, otterrà anche questo risultato. (Vita 9, 1)

Mi chiedi: «Che cosa otterrò compiendo il mio dovere con fermezza e volentieri?». Ti rispondo: «La coscienza di averlo fatto». Non ti si promette nulla al di fuori di ciò. Se, per caso, ne traessi qualche vantaggio, dovresti considerarlo un di più. La ricompensa delle buone azioni consiste nelle azioni stesse (rerum honestarum pretium in ipsis est). (Ben. 4, 1, 3)

Non ha alcuna importanza quanti siano coloro che conoscono la tua rettitudine. Infatti, chi vuole che la sua virtù sia resa nota a tutti, non s’affatica per la virtù, ma per la gloria. (Ad Luc. 113, 32)

La sobrietà è una buona premessa per avere una buona salute; ma chi può garantire a una persona sobria che starà bene? In ogni azione chi è saggio guarda l’intenzione, non il risultato (consilium, non exitum spectat). Il momento in cui essa ha inizio dipende da noi, mentre del seguito dispone la fortuna. (Ad Luc. 14, 15 – 16)

I QUATTRO CARDINI. Sono quattro i cardini su cui gira la vita morale: frenare la cupidigia, dominare la paura, prendere decisioni sagge, dare a ciascuno il suo. Questi sono gli elementi di ogni vita onesta e l’uomo che li assume su di sé ha riconosciuto la virtù dai segni che la rivelano. La virtù ce la mostrano l’ordine stesso che è in lei, la sua bellezza, la costanza dei suoi principi, l’armonia che regna tra le sue azioni e quella grandezza che su tutto la innalza. (Ad Luc. 110, 11)

MI METTO SOTTO PROCESSO OGNI GIORNO. L’animo deve essere convocato ogni giorno alla resa dei conti (animus cotidie ad rationem reddenda vocandus est). Era un’abitudine di Sestio: alla fine della giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza: «Di quale male sei guarito oggi? A quale vizio hai opposto resistenza? In che cosa sei diventato migliore?». L’uomo ha bisogno di presentarsi ogni giorno a un giudice. C’è consuetudine più bella di questa, di esaminare un’intera giornata? Il sonno che segue questa inchiesta su se stessi è tranquillo, profondo e libero, dopo che l’animo è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’esame della sua condotta.

Io faccio uso di questa facoltà, e mi metto sotto processo ogni giorno. Una volta portato via il lume, e mia moglie si è messa a tacere perché sa qual è la mia abitudine, io esamino attentamente l’intera mia giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: non mi nascondo nulla, non passo sopra a nulla. Non devo temere nessuno dei miei errori, se posso dire: «Questo vedi di non farlo più. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gl’incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona, alla quale parli, è in grado di accettare la verità». (Ira 3, 36, 1-3)

OLTRE IL RIGORISMO STOICO: UMANITÀ DEL SAGGIO

ANCHE IL SAGGIO TREMERÀ… Io non  metto il saggio fuori dal resto degli uomini, né lo considero insensibile come una pietra. So bene che anch’egli è composto di due parti: l’una è irrazionale, e con essa sente il morso del dolore in ogni sua forma; l’altra è razionale, intrepida e indomabile, dotata di convinzioni che non si lasciano scuotere. È qui, nella parte razionale, che è posto il sommo bene dell’uomo. Prima che questo bene pervenga alla pienezza, l’anima è incerta e volubile, quando, però, giunge a compimento, entra in uno stato di inalterabile serenità.

Pertanto chi ha intrapreso il cammino e procede verso le cose più alte, coltiva la virtù e si avvicina al bene perfetto, ma non ha ancora dato l’ultima mano alla sua opera: non ha ancora superato, infatti, le incertezze e si muove su un terreno scivoloso, per cui talvolta retrocederà e allenterà la tensione del suo animo [verso la meta]. Felice, invece, chi ha raggiunto il punto più alto della virtù ed è pienamente contento di sé per aver superato le prove più dure. Le disgrazie che agli altri appaiono terribili egli non solo le sopporta, ma le abbraccia con amore se sono il prezzo da pagare per compiere qualcosa di nobile e degno (metuenda ceteris, si alicuius honesti officii pretia sunt, non tantum fert, sed amplexatur). Preferisce di gran lunga sentirsi dire: «È assai migliore di noi», piuttosto che: «Ma quanto è fortunato!».

Non si pensi che la virtù come la concepiamo noi sia campata in aria, qualcosa al di fuori della condizione umana. No, anche il saggio tremerà, conoscerà la sofferenza e il pallore sbiancherà il suo viso: ciò fa parte della sensibilità fisica. Dov’è allora la disgrazia, dove il vero male? Sta certamente in queste affezioni, se esse avviliscono l’animo, se lo inducono a dichiararsi loro schiavo e a compiangere se stesso. (Ad Luc. 71, 27-29)

Certuni, la cui filosofia è più dura che coraggiosa, vietano il dolore al sapiente. Costoro non devono mai essersi trovati in certe disgraziate circostanze: in tal caso, la sciagura gli avrebbe scrollato di dosso una sapienza fatta di superbia, costringendoli a confessare la verità, sia pure controvoglia. (Pol. 18, 5)

Al di sotto del saggio non c’è nessun gradino? Appena sotto la saggezza si apre l’abisso? Credo di no, perché chi sta facendo progressi [solo in astratto] può essere messo nel numero degli stolti; in realtà, da questi lo separa una grande distanza. (Ad Luc. 75, 8)

Io non la penso come quelli che avanzano tra i flutti e che, puntando tutto su una vita tormentata, si fanno carico con grande coraggio delle difficoltà di ogni giorno. Il saggio sopporterà questo modo di vivere, ma non lo sceglierà; vorrà vivere in pace piuttosto che in uno stato di guerra continua. (Ad Luc. 28, 7)

INNO ALLA GIOIA. Prima di tutto, impara a gioire (hoc ante amnia fac: disce gaudere)! Credi che io voglia negarti molte cose belle e amabili, solo perché rimuovo dal tuo orizzonte i beni fortuiti e penso che debbano essere messe da parte le illusioni con le loro lusinghe? Al contrario, io voglio che la gioia non ti venga meno. Voglio che essa nasca in casa tua: potrà nascere, infatti, solamente se la sua dimora è dentro di te. Altre forme di allegria non riempiono l’anima; possono spianare la fronte aggrottata, ma solo per brevi istanti. È lo spirito che deve essere alacre e fiducioso, al di sopra degli eventi.

Credimi, la vera gioia è austera (mihi crede, verum gaudium res severa est)! Nell’intimo la gioia è grande e non certo blanda. Io vorrei che tu possedessi questa gioia: essa non verrà mai meno una volta che tu ne abbia trovato la sorgente.

I metalli di minor pregio si trovano in superficie; la vena di quelli preziosi si nasconde nelle viscere della terra e si lascia trovare solo da chi più assiduamente scava. I piaceri di cui si diletta la gente sono effimeri ed epidermici: un godimento che ci venga dal di fuori, quale che sia, è senza fondamento. La gioia, di cui ti parlo e a cui cerco di condurti, è solida, tale da manifestarsi di più nell’interiorità della coscienza. (Ad Luc. 23, 3-5 passim)

Delle gioie di tutti rallegrati, delle tristezze di tutti sii partecipe. (Ad Luc. 103, 3 )