Società chiusa e società aperta: la Bibbia e l’oggi

Nadia Ramera: Siamo qui con Piero Stefani, teologo e docente di “Bibbia e cultura” alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. Ciao Piero e grazie per aver accettato l’invito della CCDC e dell’editrice Morcelliana. Oggi vogliamo parlare dell’ultimo libro che hai pubblicato con la Morcelliana il cui titolo è “Società chiusa e società aperta nella Bibbia” e il cui tema è quello dell’accoglienza dello straniero. Ti sei inoltrato anche nelle pagine meno conosciute del testo biblico e hai messo in luce testimonianze sia a favore di una società giudaica aperta all’accoglienza dell’altro, del diverso, ma anche testimonianze contro questo tipo di società e, quindi, volte a creare una società monolitica e chiusa. Che cosa ti ha portato a scrivere questo testo?

Piero Stefani: C’è una specie di racconto, in quanto è sorto da una conversazione con il direttore editoriale della Morcelliana Ilario Bertoletti. Questo è importante per il fatto che quando qualcosa nasce da una discussione, e dal successivo invito, è già presente una dimensione di accoglienza. Nell’invito c’è una specie di incontro, ma ovviamente, almeno in germe, ci doveva già essere qualcosa di preparato. Oggi trovo con frequenza un riferimento alla Bibbia come testo esemplare di accoglienza e, in particolare, dati i tempi, di accoglienza dello straniero. Questo è certamente plausibile, è vero, ma non univoco. Ci sono grandi pensatori, anche molto profondi, come Levinas e quelli che a Levinas si ispirano per questo aspetto (in Italia si può parlare di Armido Rizzi e del suo discepolo Carmine di Sante), che hanno molto elaborato l’idea dello straniero come un’idea dominante nella Bibbia. Naturalmente, sono persone di grande levatura: sapevano benissimo che nella Bibbia c’erano altre pagine e altre indicazioni, ma per loro prevaleva il messaggio positivo. Io non nego l’esistenza di un messaggio positivo e ancor meno dico che questo è secondario; però, nella mia lettura della Bibbia, trovo che l’elemento fondamentale sia quello che si potrebbe dire ’“et et”, cioè “l’una e l’altra cosa”. Non basta semplicemente far cadere la componente che meno ci è prossima, bisogna confrontarsi anche con altre pagine e bisogna vedere, proprio in questa dialettica, quello che è più corrispondente alle dinamiche della vita, perché la vita non è mai semplicemente di un colore, ma si misura sempre con un confronto di posizioni. Il fatto che nella Bibbia ci siano spinte verso una visione chiusa serve per essere consapevoli di quali sono le dinamiche che portano a queste decisioni, al fine di poter prendere delle contromisure. Per esempio, una parola ormai diffusissima è “identità”. Tutti vogliono l’accoglienza e, nello stesso tempo, vogliono la difesa e l’affermazione dell’identità. Allora, se non si mettono in dialettica queste due componenti, è difficile uscirne. È complicato venirne a capo anche mettendole in dialettica, ma si è sulla strada più opportuna. Allora, vedendo che nella Bibbia c’è l’uno e l’altro aspetto, occorre essere consapevoli della complessità (questo è un dato oggettivo), ma, per individuare la possibilità di andare in controtendenza agli elementi di chiusura, occorre non trascurare la presenza di una ambivalenza che corrisponde maggiormente alle dinamiche proprie dell’esistenza e della società. Saltare  semplicemente a piè pari la chiusura, non è un’operazione che ci aiuta più di tanto.

Nadia Ramera: Nelle prime pagine dell’introduzione parli della “tirannia della prassi”. Forse, quando bisogna prendere delle decisioni, non si può andare troppo per il sottile e, invece, con questo libro, ci si prende lo spazio per vedere la complessità dell’argomento. Nel libro ripercorri anche la storia dello straniero nella Bibbia: il primo straniero che si incontra è Abramo, il primo che viene chiamato con questo appellativo. Abramo, che il capostipite del popolo ebraico, ma è anche il padre di tutti i credenti. Che relazione c’è fra essere credente e essere straniero?

Piero Stefani: Abramo è il primo straniero o, meglio, il primo che soggiorna in terra straniera, perché, secondo la Bibbia, è quello che ha ricevuto per primo una chiamata ad uscire dalla sua casa. C’è una progressione: esce dalla sua terra, dal suo parentado, dalla casa di suo padre. È stato notato come, dal punto di vista geografico, i termini sono invertiti: prima si esce dalla propria casa, poi dalla propria cittadina (parentado voleva dire la propria tribù) e, poi, si esce dalla propria terra. Invece il comando biblico, al capitolo 12 della Genesi, è capovolto. Allora la tradizione rabbinica si domandava perché ci fosse questo capovolgimento. La risposta è che certamente dal punto di vista geografico sono capovolti, ma dal punto di vista dell’intensità dei legami da rompere sono accrescitivi e si chiede sempre di più. È chiaro che è difficile lasciare i propri cari, lo sappiamo in questi giorni in modo drammatico. Comunque, questa rottura dei legami è quello che lo rende straniero. Questa è una prima considerazione: è il primo straniero che soggiorna presso qualcun altro, biblicamente, il primo chiamato fuori dalla propria terra. Quindi, potremmo dire, il primo emigrante. Poi, nella storia di Abramo, ci sarà una migrazione non soltanto per chiamata, ma anche per necessità: scende in Egitto perché lì c’era da mangiare in epoca di carestia. Abbiamo due dimensioni: una che evoca il padre dei credenti e l’altra che evoca il padre degli emigranti per necessità, per andare alla ricerca del cibo presso una popolazione non propria e coi rischi che questo comporta. La Bibbia indica anche questo aspetto di Abramo presso una autorità straniera, per comunicarci che, nel corso del pericolo, non è sempre possibile mantenere rettitudine morale (c’è un confronto tra quello che impone la situazione e quello a cui si deve far fronte. E non sempre i principi, in quanto tali, funzionano). Ma l’aspetto fondamentale è che esce per chiamata. Allora è il padre dei credenti? Probabilmente, diventa padre dei credenti successivamente, col Nuovo Testamento, San Paolo e così via, perché deve introdursi il termine nella fede. Però, potremmo fare un riferimento (che il Nuovo Testamento compie nella lettera agli Ebrei) a un passo biblico, non riferito ad Abramo, ma riferito al popolo ebraico, che da Abramo discende. Il popolo quando si trova sulla sua terra, sente il Signore rivolgergli queste parole: “voi siete presso di me stranieri e forestieri”. Voi siete sulla vostra terra, ma non siete proprietari della terra, perché la proprietà ultima è del Signore. Quindi, in terra di Israele, il popolo d’Israele è e non è sulla propria terra nello stesso tempo. È, ma non può considerarla una sua proprietà. In alcune riletture testamentarie, ciò è applicato proprio alla presenza del credente nel mondo. La frase di Giovanni (17, 14) “essi non sono del mondo, come io non sono del mondo”, sta a significare che siano qui, ma la nostra cittadinanza – cito di nuovo San Paolo – è nei cieli. Cosa significa nei cieli? Non è così semplice spiegare l’esistenza di un luogo paradisiaco a cui tendere; ma è indubbiamente strutturale alla fede, a qualunque fede, pensare che ci sia un’ulteriorità e che non tutto si risolva nella condizione presente e attuale. In questa ulteriorità non c’è soltanto qualcosa di integrativo o marginale, ma c’è il fondamentale. E, quindi, la fede è sempre qualcosa che conduce a una condizione di essere straniero, pellegrino, su questa terra o, comunque, nella condizione presente, perché c’è sempre un “oltre”. E questo “oltre” non è solo Colui che ci chiama, ma anche Colui da cui dobbiamo andare.

Nadia Ramera: Nel libro scrivi che solo chi riesce a trovare in se stesso l’altro, riesce ad essere prossimo dello straniero. Nella situazione in cui stiamo vivendo a causa dell’emergenza coronavirus, viviamo distanziamento sociale, isolamento sociale. È come se, improvvisamente, fossimo divenuti noi stessi o i nostri cari, quelli di cui bisogna avere paura. Che senso acquisisce quello che hai scritto alla luce della situazione in cui siamo oggi?

Piero Stefani: Comincio dalla parte biblica che è la più semplice oggi a cui si riferirci. La parte biblica potrebbe essere riassunta da quella frase molto nota che si trova nel capitolo 19 del libro del Levitico al verso 34: “Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”. Il termine “straniero” traduce la parola ebraica “Gêr”, che significa straniero residente, quello che noi potremmo chiamare “immigrato”, quello che sta presso di te non appartenendo, però, al tuo popolo. Qui c’è un elemento di somiglianza e di diversità. La somiglianza è nel comando riferito alla memoria e, cioè il ricordo di avere vissuto in quella condizione; la diversità è che attualmente non si vive più come stranieri. Se si perde totalmente l’imperatività di quella memoria, non si è capaci di accoglienza. Dal punto di vista sociologico, culturale, è facile a dirsi, ma non basta essere stato emigrante per dire che, una volta tornato a casa, sarai capace di accoglienza. Ci sono anche dinamiche psicologiche che vanno in un’altra direzione. Ecco perché ho detto che non è solo la memoria, ma è l’imperatività della memoria. Se fosse la memoria in quanto tale, non ci sarebbe stato bisogno di un comando. La Bibbia lo dice molto chiaramente: “Io sono il Signore, ricordati”. Naturalmente ciò non significa che bisogna essere stati esperienzialmente in Egitto o all’estero, perché è la nostra condizione di esistenti che ci fa comprendere una certa estraneità interiore. In questo periodo drammatico, in certi casi tragico, ma soprattutto molto eterogeneo, la condizione delle persone è differenziata: c’è chi è costretto a casa a fare poco, a far nulla, e c’è chi, invece, è costretto a un superlavoro. C’è chi è sano e chi non lo è. C’è il distanziamento e c’è anche la coabitazione coatta. C’è anche una vicinanza eccessiva, non soltanto una distanza eccessiva. Ma da questa vicinanza eccessiva nascono problemi di condizioni diverse. Ci viene sempre proposto un modello di famiglia in cui si sta bene, in cui è bello riscoprire lo stare insieme, come se tutti potessero avere spazi ampi, possibilità di leggere, di fare giochi di società, di riscoprire i figli e così via. Ma sappiamo che le famiglie sono in realtà diverse: in tanti casi ci sono tensioni interne forti, a volte drammatiche o addirittura tragiche. E la stessa cosa vale per l’isolamento. C’è chi è solo e malato. In tutte queste situazioni, l’idea dell’essere stranieri a se stessi dipende da come ci si trova. Questo perché, concettualmente, l’idea di straniero è sempre relazionale. Nessuno è straniero a se stesso, se non in senso metaforico, ma è straniero rispetto a qualcos’altro, a qualcun altro. Adesso siamo in una situazione molto più variegata di quello che diciamo con le nostre esemplificazioni. La condizione di straniero, come tante altre condizioni, è una condizione spesso coatta, obbligata, non scelta. Nessuno è straniero a casa propria, ma si trova a essere straniero e, in questa condizione di estraneità, si trova a essere condizionato e limitato nelle sue scelte. La libertà di movimento, delle risorse, sono limitate dalla sua condizione. Questo è quello che, in un modo o nell’altro, sperimentiamo tutti, sia pure in gradi tra loro ben diversi: la limitazione della nostra libertà di scelta e l’obbligazione di fare certe cose. Potremmo riprendere un’immagine molto forte: “eravate stranieri in terra d’Egitto, ma eravate anche schiavi in terra d’Egitto”, cioè una condizione di obbligatorietà, di opposizione e di limitazione radicale della possibilità di scegliere.

Nota: Testo non rivisto dall’Autore.