Svetlana Aleksievič e la voce delle donne

Tematiche: Letteratura

SVETLANA ALEKSIEVIČ E LA VOCE DELLE DONNE[1]

La guerra non ha un volto di donna è il primo libro di Svetlana Aleksievič e risale al 1983, ma ci vollero altri due anni e la perestrojka di Gorbačev prima che fosse pubblicato in Russia, dove riscosse un immediato e straordinario successo. Con questo “romanzo corale” Svetlana Aleksievič si guadagnò eterna riconoscenza da parte delle donne ex combattenti di tutta l’Unione Sovietica e nel 2005, in occasione delle celebrazioni per il Quarantennale della vittoria, il famoso teatro alla Taganka di Mosca allestì uno spettacolo ispirandosi ai suoi racconti.

Caratteristica di tutti i libri della Aleksievič è la coralità delle voci che li compongono, perché come lei stessa ha affermato in un’intervista: “la verità non può essere contenuta in un solo cervello e in un solo cuore”[2]. In questo libro la scrittrice è interessata a indagare, attraverso una pluralità di voci e testimonianze, un punto di vista diverso sulla guerra, quello delle donne che vi hanno partecipato con ruoli diversi o che sono state coinvolte nel vortice del secondo conflitto mondiale.

Nella prefazione Svetlana Aleksievič definisce chiaramente il suo obiettivo: “Voglio scrivere la storia di questa guerra: una storia al femminile”[3]. Usa l’aggettivo ‘questa’, perché, pur non essendo figlia della guerra -è nata nel 1948 – ha respirato in prima persona l’aria e l’atmosfera di quell’epoca. La sua non è soltanto una storia al femminile, ma dà voce a testimoni ignote che nessuno prima di lei aveva mai ascoltato. La maggior parte delle sue interlocutrici sono giovani donne e ragazze ancora adolescenti, mosse dalla forte convinzione che bisognasse partire per il fronte per difendere la Patria.

L’Aleksievič fin da questo primo scritto dimostra di non essere interessata agli eroi e alle imprese eroiche che costellano la storiografia ufficiale, in particolare quella sovietica. Tant’è vero che il censore sovietico le rimproverava proprio questo; era indignato dal fatto che nel suo libro la guerra fosse raccontata solo come orrore. Questo burocrate del potere non negava le sofferenze, ma era assolutamente convinto che la celebrazione della Vittoria con la V maiuscola e degli atti di eroismo non dovesse essere offuscata dal ricordo del dolore e dei patimenti.

Svetlana Aleksievič non si accontenta della lettura ufficiale della Storia, di una “verità convenzionale, impregnata dello spirito del tempo, dell’odore delle colonne di stampa” (p.139), ma vuole far emergere una verità più articolata su quegli anni, indagando il vissuto quotidiano dei testimoni oculari. Nella Guerra non ha un volto di donna è intenta a cogliere con estrema sensibilità e delicatezza le diverse sfaccettature che hanno caratterizzato i sentimenti delle donne nel periodo bellico.

Data la peculiarità del genere scelto per costruire il proprio racconto, l’Aleksievič si sofferma nella prefazione a spiegare al lettore il metodo di lavoro adottato che caratterizza anche tutta la produzione successiva e che consiste nell’ascoltare migliaia di testimonianze, registrare e prendere appunti, per poi in una seconda fase rielaborare il materiale, sviscerando i racconti fino a farne emergere una verità sottaciuta, ma profonda, che colloca gli eventi narrati sotto una luce nuova e in una prospettiva inedita. L’apparente ripetitività del narrato è proprio ciò che rende incisivo il racconto senza annoiare, perché quelle voci aggiungono tasselli alla dimensione del vissuto di un’epoca di memoria condivisa.

Le protagoniste sono donne addette alle più svariate professioni militari e ognuna di esse interpreta la guerra, declinandola secondo un punto di vista, che è determinato anche dal campo d’azione in cui svolge le proprie mansioni. Le parole semplici dell’addetta alla lavanderia trasmettono la sofferenza di un dolore condiviso: “Pescavi dal mucchio un paio di pantaloni senza una gamba, una camicia con un enorme buco sul davanti: lavavi e risciacquavi con le tue lacrime” (p.229).

Non è la Storia con la lettera maiuscola, non è la guerra, l’argomento del libro né lo sono i fatti, già ampiamente raccontati, studiati e commentati dagli storici. L’attenzione della Aleksievič è focalizzata sulla condizione interiore della “persona nella guerra”, su come le singole persone, e nello specifico le giovani donne e le adolescenti di allora, hanno intimamente vissuto, hanno percepito la guerra. Emblematica è la definizione di storica dell’anima che la scrittrice dà di se stessa: “scrivo la storia dei sentimenti… la storia del piccolo essere umano, scaraventato dalla semplice esistenza che conduceva, negli epici abissi di un evento colossale, nella grande Storia” (p.64).

Tuttavia l’obiettivo che si pone Svetlana Aleksievič è più ampio e profondo: “discernere nella data persona l’eterno essere umano” (p.16). Nelle riflessioni della scrittrice sulle tante parole ascoltate riecheggiano le questioni esistenziali poste da Dostoevskij, il tentativo di capire “quanto di umano c’è in ognuno di noi, e come preservare – ognuno di noi – l’uomo che ha in sé” (pag. 15). Una domanda, che in una situazione estrema come quella della guerra, non trova una risposta univoca. E la difficoltà sta proprio lì, nel ritrovare l’umano anche in una condizione di inumanità come quella della guerra.

La costruzione del racconto si sviluppa intorno a due elementi fondamentali: le protagoniste con i loro vissuti, e la memoria. Con la sua narrazione Svetlana Aleksievič non ricorda il passato, ma lo fa rivivere, ricostruisce l’impatto emotivo del fatto evocato, seguendo così le orme di una delle sue guide spirituali, lo scrittore russo Varlam Šalamov. La scrittrice rielabora la parola dell’altro confrontandosi con il racconto di oggi delle sue protagoniste, ma senza perdere di vista le persone che erano allora, e mettendo continuamente in discussione anche se stessa, le proprie convinzioni, che è pronta a modificare: “Come loro per lungo tempo non ho voluto credere che la nostra vittoria avesse due volti: uno di grande bellezza, l’altro deturpato dalle cicatrici di un insostenibile orrore” (p. 42).

Il ricordo è legato alla sofferenza ma, come afferma una delle protagoniste, sarebbe peggio non ricordare, non lasciare memoria di tutto quel dolore. È una rievocazione dettata non solo dalla sofferenza provocata dalle visioni orribili che la guerra comporta: stragi, villaggi bruciati, gente trucidata, ma anche mossa da una sofferenza più intima, personale, la sofferenza dell’anima che si trova di fronte a scelte urgenti, nuove e terribili. La persona è costretta a imparare a odiare, a guardare all’altro non come essere umano, ma come nemico, a confrontarsi nella propria solitudine: “con la folle idea di poter uccidere un altro uomo. Addirittura di averne il dovere” (p.43).

Una tiratrice scelta racconta che, dopo aver sparato per la prima volta, si era fermata inorridita a pensare “io ho potuto uccidere un essere umano” (p. 51). Ammette che lei e le sue compagne non erano riuscite subito odiare e a uccidere senza pietà, come insegnava loro la responsabile della cellula del Komsomol (Unione Comunista della Gioventù), che c’è voluto del tempo perché “quelle non sono cose da donne. Non è il nostro mestiere, bisognava farsene una ragione” (p.52). Fa da contrappunto la voce di un’altra donna, comandante di un plotone di fanti mitraglieri: “in guerra, è stato detto, sei per metà umano e per metà bestia feroce. Ed è proprio così, non c’è altro modo per sopravvivere. Se sei troppo umano non la scampi” (p. 93-94).

A differenza degli uomini, che fin da piccoli interiorizzano l’idea che un giorno potrebbero essere costretti a sparare, e che nei loro racconti come nelle loro azioni tendono a razionalizzare, ad attenersi ai fatti, a sviscerare gli interessi contrastanti che muovono i conflitti, le donne hanno maggiori difficoltà a rinunciare a un coinvolgimento empatico, perfino nelle situazioni più crude. Una delle discriminanti individuate da Svetlana Aleksievič nella differente percezione della guerra da parte delle donne e degli uomini consiste nell’assenza di una narrazione “di uomini che ammazzavano eroicamente altri uomini”[4]. Nei racconti delle donne non ci sono eroi, ma affiora piuttosto un senso di smarrimento.

La guerra è percepita nel suo manifestarsi concretamente nell’esistenza di tutti i giorni, esistenza che viene sconvolta da atti disumani e nello stesso tempo vivificata da sentimenti di solidarietà. Per le donne la guerra “consiste prima di tutto nell’ammazzare, in secondo luogo in un lavoro massacrante e da ultimo è fatta dalle solite cose quotidiane: cori, innamoramenti…” (p. 19). Una delle protagoniste, una militante nella resistenza clandestina, confessa: “Sapesse com’è difficile uccidere una persona” (p. 41), e un’addetta alle mitragliatrici: “Ne ho ammazzati talmente tanti… Ma neanche adesso ho perdonato. E non ho intenzione di perdonare niente… Mi rallegravo per come erano conciati… Li facevano sfilare attraverso il villaggio e imploravano “Madre dammi da manciare” e mi stupivo nel vedere le contadine uscire dalle casupole per tendere loro un pezzo di pane… Mi sembra di aver vissuto due vite una maschile e una femminile …” (p.40-41). L’odio nei confronti del nemico che ha bruciato interi villaggi, i corpi feriti dei soldati russi, dei vecchi e dei bambini, convive con la pietas suscitata dalla vista dei campi di battaglia disseminati di giovani che hanno perso la vita: “ti si stringe il cuore per gli uni e per gli altri”[5].

Uno degli interrogativi che la scrittrice si pone e su cui indaga è come fosse possibile convivere quotidianamente con questa interminabile esperienza del morire, sia assistendo alla morte altrui, sia rischiando ogni giorno la vita.

L’esempio più emblematico e drammatico viene dalle donne pilota, le cosiddette streghe della notte, che volavano a bassa quota nelle ore notturne senza paracadute, su aerei antiquati, a cui agganciavano manualmente quattro bombe, per un totale di quattrocento chili, e bombardavano le postazioni tedesche. Il racconto di una di loro trasmette tutta la drammaticità di quelle azioni: “Quando ti avvicini volando all’obiettivo tremi dalla testa ai piedi, perché lì in basso e attorno a te si scatena l’inferno: ti cerca la contraerea, ti cercano i caccia”… (p. 266-267) Una tensione altissima che non si esaurisce con la fine della guerra e con la vittoria, ma condiziona tutta la vita successiva delle giovani donne, con il cuore martoriato di cicatrici, lo stress che interrompe il ciclo riproduttivo (niente più mestruazioni), cancellando ogni possibilità di maternità.

Sono pagine cariche di dolore, dove orrori e morte si manifestano nelle più svariate sfaccettature, ma che risuonano anche di un’immensa voglia di vivere. Una voglia di vivere che la scrittrice fa emergere dai piccoli dettagli. Sono dettagli che restituiscono l’essenza della vita, tracce essenziali della vita interiore, specchio dei moti dell’anima, come emerge dal racconto di una giovane autista militare. Un giorno di primavera, di ritorno dalle esercitazioni, coglie alcune violette e le appende alla baionetta e per questo viene punita, ma la ragazza non le butta via, le tiene in tasca. È un piccolo gesto che evoca una vita normale, una casa, ed è di nuovo lei che sceglie di rimanere di guardia per il turno di notte per ascoltare il canto degli uccelli, perché solo di notte avvertiva il sapore della vita di un tempo, del tempo di pace.

Il sentimento della paura che accompagna tutte queste donne nel corso della guerra si modula su gradazioni diverse che vanno dall’ universale paura di morire a paure tutte femminili: una bomba avrebbe potuto colpire le gambe o sfigurare il viso, il che avrebbe segnato il destino non solo dal punto di vista fisico, ma anche il futuro, la possibilità di sposarsi e avere una famiglia, perché un uomo invalido di guerra è un eroe, ma una donna mutilata è una donna finita. A spaventarle, una volta tornate a casa, dopo quattro anni di guerra, che hanno inciso anche sull’aspetto esteriore – al posto della treccia, vietata, è rimasto un piccolo ciuffetto di capelli, e l’unico abbigliamento in dotazione erano pantaloni e stivali pesanti, spesso non della misura giusta – è la difficoltà, di riappropriarsi della propria femminilità, di indossare di nuovo le gonne, le scarpe con i tacchi, di recuperare la vita solita, quotidiana.

La scrittrice nei suoi lavori presta molta attenzione ai colori e agli odori. La guerra delle donne ha solo due colori: il nero, i morti nereggianti sui campi innevati con gli uccelli che cavavano gli occhi dalle orbite, ma soprattutto il rosso, il rosso del sangue, l’odore dolciastro del sangue che impregna i vestiti dei feriti e di chi sta morendo. Il rosso lascia un marchio indelebile e, finita la guerra, la vista del colore rosso in qualsiasi sua forma diventa insopportabile. La guerra non ha odori femminili, la guerra odora di maschio: odore dei corpi che bruciavano, odore del sangue rappreso, del cloroformio, della tintura di iodio.

L’analisi del coinvolgimento e del ruolo della donna nella guerra è strettamente collegato a un altro dei temi ricorrenti nell’opera di Svetlana Aleksievič: la sofferenza dei bambini. Il grande interrogativo posto da Dostoevskij viene evocato nell’esergo del libro Gli ultimi testimoni[6], dove la scrittrice indaga questo complesso tema attraverso le testimonianze dei ragazzini di allora.

Nella Guerra ha un volto di donna i racconti che coinvolgono i bambini introducono motivi diversi: i bambini sono il simbolo dell’amore per la vita che prevale sull’inferno della guerra come testimonia il racconto di una staffetta partigiana, entrata in clandestinità insieme al marito. La donna partorisce in una zona paludosa, su una lettiera di fieno e accudisce il suo bambino con gesti che ricreavano atmosfere e odori di casa, odori femminili, in un luogo dove bruciavano i villaggi e intorno era tutto un incendio: “Asciugavo i pannolini lavati riponendoli in seno, poi glieli rimettevo intiepiditi dal calore del mio corpo” (p.89).

L’amore materno faceva i conti con il senso del dovere, con il senso di responsabilità nei confronti dei compagni, con sentimenti forti, che inducevano ad azioni intrise di indicibili sofferenze, ma sostenute dalla fede di agire per una causa giusta.

I racconti delle madri in guerra rimandano a esperienze cariche di insidie: una partigiana che con la bambina di tre mesi parte in missione per portare i medicinali ai feriti nei boschi, una pilota aviatrice che lascia la figlia di quattro anni chiusa nella baracca con una scodella di pappa e compie il suo volo di missione per poi rientrare dalla bambina che le andava incontro guardandola con occhi grandi, ragazzini usati come staffette o per azioni pericolose. Inimmaginabili sono le condizioni che hanno condotto al gesto più innaturale, alla tragedia più grande per una madre, quello di sopprimere i propri figli: uccidere il proprio neonato che piange per fame, affogandolo perché altrimenti avrebbe rivelato con il suo pianto il nascondiglio dei partigiani ai tedeschi, uccidere il proprio bambino prima che il tedesco lo butti in aria per sparargli come un bersaglio mobile.

I racconti sui bambini sofferenti e persino sacrificati, in circostanze estreme, dalle stesse madri che a quei bambini hanno dato la vita, rendono con grande efficacia il fine perseguito dalla scrittrice nel suo libro La guerra non ha un volto di donna come negli altri due successivi[7]: inculcare nel lettore il disgusto per la guerra, far emergere l’assoluta insensatezza di ogni conflitto armato. I romanzi corali di Svetlana Aleksievič non sono soltanto una testimonianza storica, ma sono un tentativo di incidere nel presente con una parola che induca a riflettere su argomenti ritornati purtroppo oggi di grande attualità come quello della guerra e dei cosiddetti scontri etnici.

Nella lezione tenuta all’Accademia svedese il 7 dicembre 2015 la scrittrice ha ripercorso con considerazioni molto puntuali e caratterizzate da grande sensibilità i temi cruciali della sua produzione, partendo proprio dalle riflessioni sulle parole consegnatele dalle donne coinvolte nel secondo conflitto mondiale. Le sue testimoni sono donne arruolatesi in guerra come volontarie, perché animate dalla volontà di contribuire attivamente alla difesa della Patria e non certamente dall’idea di uccidere, e tuttavia l’immagine della guerra che è rimasta impressa nella loro memoria è quella di un assassinio. Svetlana Aleksievič sostiene che la motivazione intrinseca di questa immagine, che lei pienamente condivide, vada ricercata nell’ impossibilità per le donne, che danno la vita, di sopportare l’idea di ammazzare, di trasformare da un momento all’altro il tutto in niente, di annullare l’essere umano e il suo tempo[8].

 

[1] Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta in data 22.4.2021.

[2] Wlodek Goldkorn, Svetlana Aleksievic. I miei demoni, “La Repubblica”, 29 novembre 2015, p.29.

[3] Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2015, p.10 (traduzione di Sergio Rapetti). Tutte le citazioni successive, se non indicato diversamente, sono riprese da questa edizione.

[4] Svetlana Aleksievič, Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl, Brescia, Editrice La Scuola, 2016, p. 24. (traduzione di Sergio Rapetti).

[5] Svetlana Aleksievič, Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl, op.cit. p. 25.

[6] Svetlana Aleksievič, Gli ultimi testimoni, Milano, Bompiani, 2016 (traduzione di Nadia Cicognini), uscito in Russia nel 1985.

[7] Oltre al già menzionato Gli ultimi testimoni, va ricordato Ragazzi di zinco uscito in Russia nel 1989 e in Italia per le Edizioni e/o nel 2000.

[8] 7Svetlana Aleksievič, Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl, op.cit. p. 25