Umanità di ogni schietta filosofia

Una delle cose che più infastidisce è l’abuso del termine filosofia, sintomo questo, come ogni processo inflazionistico, di una caduta di valore, di una confusione estesa e profonda. L’uso della parola filosofia in un senso riduttivo, all’americana, per indicare un contesto di argomentazioni che serva a chiarire il senso di una qualsiasi decisione o iniziativa – si tratta di una formula di governo, del lancio di un prodotto o di un’iniziativa turistica – rivela una situazione di scollamento e di deteriorato impegno teoretico. A questo si accompagna spesso la crisi di identità di non pochi tra gli stessi professori di filosofia, soprattutto tra coloro che sono approdati all’insegnamento di quella disciplina da altri lidi e pertanto non sono adusi a commisurare le produzioni recenti che inondano le librerie a quelle dei grandi maestri del pensiero, i quali spesso sono del tutto assenti o ridotti a caricature odiose, non solo in certe facoltà universitarie, ma anche nell’insegnamento liceale. Si spiega allora come possa affiorare un tipo nuovo ed eccentrico di docente che insegna filosofia e sparla della filosofia, con un misto di masochismo e di civetteria, senza giungere mai alle dimissioni, che pur sarebbero rigorosamente consequenziali. E si sa quando i grandi maestri tacciono e non si crede più al significato profondo ed autonomo della disciplina che si professa, allora si è più che mai esposti alla suggestione delle ideologie. La filosofia autentica in ogni tempo non si sottrae al dovere di render conto di se stessa, della sua presenza e del suo diritto a continuare ad essere. Tale dovere diventa più che mai imperativo nel nostro tempo. Perché la filosofia? Quali argomentazioni possono oggi giustificare una sua funzione feconda e insostituibile nella formazione dell’uomo?

Per Aristotele «gli uomini furono sempre mossi a filosofare dalla meraviglia» e Tommaso nel suo commento alla “Metafisica” di Aristotele (I, 3) notò con finezza che «il motivo per cui il filosofo è vicino al poeta è che ambedue hanno a che fare con ciò che desta stupore». Tuttavia qualcosa è cambiato nel nostro modo di interrogare e di interrogarci. Se nel mondo greco classico, agli inizi del pensiero occidentale, lo stupore richiamava un senso ampio, gioioso ed insieme solenne della realtà, l’avvertimento di qualcosa che ci sopravanza e ci esalta, oggi prevale lo stupore come inquietudine. Per questo Armando Rigobello insiste in una puntuale, penetrante esegesi di un’acuta osservazione di Fritz Waismann: «Un filosofo è un uomo che percepisce, per così dire, dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti, laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro». L’espressione «percepire i crepacci nascosti» suscita incisivamente l’immagine di un vedere disincantato, di una sofferta consapevolezza, di una criticità unita ad intensità esistenziale nell’esercizio di quella vita filosofica di cui Socrate è stato e rimane l’espressione emblematica.
La nostra civiltà ha tanti pregi, ma comporta una paurosa possibilità negativa, a cui non possiamo cedere senza perdere qualcosa di essenziale della nostra umanità: l’anestesia delle coscienze, il render levigato ogni sentiero, il fare dell’avventura umana un percorso già tracciato, garantito dalla culla alla tomba, senza imprevisti, senza novità reale, équipes di psicologi, di psicanalisti, di pianificatori, compagnie di assicurazione ed ordinamenti giuridici assistenzialistici confluiscono nel perseguire un controllo dell’esistenza, scopo che talvolta sembra essere il pensiero dominante, il fine principale della vita: una vita spesa quindi a sottrarsi ai rischi dell’esistenza. Ma ecco che arriva il filosofo, questo scomodo uomo che pensa e scopre i «crepacci». La filosofia come interrogazione è dubbio sui «sentieri levigati» dell’opinione comune o delle sistemazioni concettuali chiuse, un dubbio mosso da una saggezza che è vittoriosa sulle suggestioni e virile lucidità. Tutto ciò richiede una forza interiore, un equilibrio, un distacco pur nella partecipazione, una libertà spirituale pur nella concretezza dell’impegno, caratteristiche tipiche di quella pienezza di umanità che può manifestarsi in ogni età della vita. Dubbio, interrogazione, ricerca. Sono tre parole che nella loro successione esprimono un susseguirsi di atteggiamenti: la decantazione di un contesto, la vittoria su una illusione, la scoperta di un crepaccio; poi l’interrogare, l’apertura di un problema, infine il tentativo di risolverlo. Sottoposti ad una rinnovata ironia socratica e richiamati ad una revisione fondamentale della nostra sicurezza, ci ritroviamo così sospinti nel rischio dell’esistenza.

Ogni tipo di conoscenza ha una corrispondente disciplina. Ad ogni disciplina il suo oggetto; ma qual è l’oggetto della filosofia? Vittorio Mathieu ha giustamente osservato che la «filosofia non ha un oggetto che si possa indicare con il dito». Per questo sembra inclassificabile, come inclassificabile è il suo mirabile iniziatore, Socrate. E non di meno la ricerca filosofica è individuata in modo netto e autonomo dai suoi propri problemi, dalle tre famose domande che Kant pone al termine della “Critica della ragion pura”: «Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è concesso sperare?». La prima e la seconda domanda riguardano la condizione umana in due suoi atteggiamenti fondamentali, quelli dell’uomo che misura le sue possibilità di conoscere il vero e che dà consistenza alla sua vita nella conquista della libertà morale. Ma la terza domanda, su cui non ci si sofferma abbastanza, era per Kant ed è per tutti gli uomini che riflettono non meno decisiva. La terza domanda si pone lungo l’ardua frontiera tra filosofia e religione, tra conoscenza e moralità da un lato e salvezza dall’altro. Il verbo usato da Kant, dürfen significa posso nel senso di mi è concesso, mi è permesso. Unito a hoffen, sperare, aprire un orizzonte, evidenzia un’altra nota di intensa esistenzialità: entro i limiti di una conoscenza interrotta, nell’impegno di una libertà che esige un difficile esercizio, che cosa è lecito sperare? La speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e l’efficacia dell’azione. Lanciato verso dove? Verso una ulteriorità che oltrepassa il conoscere rigoroso e la disciplina del dovere per situarsi nel vivo di una esperienza religiosa. La risposta, quando è positiva, riguarda la fede. Ma la domanda: «Che cosa mi è concesso sperare?» rimane autenticamente filosofica. in quella richiesta sulla possibilità della speranza si manifesta una tensione esistenziale portata al limite, emerge quasi un invocazione. L’invocazione non è ancora preghiera, ma è un atteggiamento rivelativo di una struttura esistenzialmente aperta, rivolta ad un trascendimento che si inscrive quale elemento costitutivo della condizione umana.

Per poter rispondere positivamente, nelle circostanze di pensiero e di vita attuali, alle tre domande kantiane, occorre affrontare con coraggio una situazione disorientante, logorata dal dubbio, priva di forti richiami ideali. Occorre vincere la stanchezza ancor prima della disperazione. Per tener aperto l’interrogativo riportandoci ad una condizione originaria, bisogna avere la statura del lottatore di cui parla Kierkegaard nell’introduzione a “Timore e tremore”, ma anche la forza d’animo cui Husserl faceva riferimento nella conferenza tenuta all’università di Vienna nel 1935 di fronte alla tragedia che si profilava per la sua patria tedesca e per l’Europa: «Il più grave pericolo che minaccia l’Europa è la stanchezza. Se ci abbandonassimo ad essa, non potremmo opporci alla fiamma distruttrice dell’incredulità». Per questo si deve parlare di «lotta per il significato», espressione programmatica che delinea un compito, che focalizza la funzione umanizzante della filosofia.

Giornale di Brescia. Non è stato possibile rintracciare la  data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.