Una conversazione con Mario Pomilio a proposito de “Il quinto evangelio”

Dopo Andrej Sinjavskij, Jurij Mal’cev, Valerio Volpini, Rodolfo Doni, Fortunato Pasqualino, Fulvio Tomizza e Leone Piccioni, la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura ha ospitato Mario Pomilio. Il suo capolavoro, “Il quinto evangelio” è stato tradotto in Francia, ove ha ricevuto il premio (che fu anche di Musil e di Böll) di “miglior romanziere straniero”; ma è già pubblicata la traduzione tedesca ed è prossima quella polacca. Eppure, nel clima allineamento a certo mode che in questi ultimi anni ha caratterizzato tanta parte della vita culturale del nostro Paese, quel libro, che pur coronava altre validissime prove di un narratore assai noto, non trovò accoglienza presso uno dei grandi padroni dell’industria culturale, oramai convinto che di sentire cristiano e di problematiche religiose i lettori italiani non dovessero più sentir parlare. Ed invece “Il quinto evangelio” appena uscì ebbe subito il successo di pubblico e di critica che meritava.
Il filo conduttore del libro è semplice. In Germania a Colonia, nel 1945, all’interno della canonica di una chiesa bombardata, Peter Bergin, un giovane ufficiale americano, trova alcuni documenti che lo mettono sulle tracce d’un vangelo inedito, e dopo mille esitazioni scommette la propria vita nella sua ricerca. Alla fine riunisce i materiali che ha scoperto, lettere, versi, racconti, frammenti, leggende, biografie, autobiografie dei più diversi “avventurieri della fede” – santi, eretici, mistici, ribelli, credenti e non credenti – che come lui hanno creduto nell’esistenza di un quinto vangelo autentico quanto i quattro della tradizione. Sullo sfondo dei duemila anni di storia del cristianesimo si disegna così una complessa vicenda – che col procedere delle pagine diventa narrazione sempre più vivida e serrata – di illusioni, di contrasti, di destini intrepidi e spesso tragici, talora d’eresie. Ma quella di Bergin non è stata soltanto la ricerca di uno studioso, è stata anch’essa una avventura umana: dopo la sua morte, i discepoli scoprono, tra le sue carte un dramma nel quale egli ha rivissuto i mille interrogativi suscitatigli dal miraggio del vangelo sconosciuto.
Il romanzo offre una sconcertante diversità di invenzioni e di piani di scrittura, quasi a voler rendere, nel succedersi dei secoli e degli stili, in maniera originalissima e polifonica, l’ansia, la speranza, la gioia degli uomini nella sempre rinascente impresa della scoperta di Dio. Ed è per questo che le tensioni problematiche ed esistenziali, indagate con l’esprit de finesse proprio del credente che è passato attraverso esperienze diverse e contrastanti, attraversano tutto il libro e il lettore finisce col riconoscersi nell’una o nell’altra pagina. In verità accade assai raramente che in uno stesso libro si fondano la densità dei problemi e la singolare molteplicità delle forme espressive, la capacità di commuovere e quella di far pensare. Ma ci pare assai più interessante lasciar la parola all’autore stesso.
D. Ne “Il quinto evangelio” si definisce il romanzo “una esegesi del possibile”. Che senso ha per lei l’espressione?
R. L’espressione va letta nel suo contesto: “…mi sarei accorto alla prova che la filologia, proprio come il romanzo, non è altro, in fin dei conti che un’esegesi del possibile e presuppone in larga parte il contributo dell’immaginazione”. È un avviso per il lettore, un ricordargli quasi scherzosamente: bada, ciò che stai leggendo non è un’opera di filologia, non consta di documenti veri. Il romanzo è “un’esegesi del possibile” perché gira intorno a un dato immaginario nel tentativo di esplicarlo, renderlo reale, ancorarlo alla storia.
D. Per quanto sia arbitrario, dovendo condensare in un solo passo il senso riposto dell’intero libro, quale brano sceglierebbe?
R. Francamente la domanda mi mette in difficoltà. Pensandoci un po’ mi pare tuttavia che la risposta meno lacunosa sia nel brano conclusivo della “Professione di fede di Pietro D’Artois”. Mi permetta di citarlo per esteso.
“Che io dunque sostenga che, siccome gli Evangeli non furono bastanti a redimere e mutare il mondo, il Cristo ce ne ha dato da scrivere un quinto, non significa affatto, come m’è stato rimproverato, che io abbia inteso designare materialmente un altro libro, ma solo che occorre penetrare sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda S. Paolo (1Cor. 14, 1). L’intelligenza che ne avremo sarà così perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto. E alcunché di simile ho voluto dire nel luogo dove ho scritto che ad ogni nuovo santo che nasce è un nuovo evangelo che si scrive. Il che tuttavia può anche essere inteso altrimenti: che le opere buone che compiamo sono il nuovo evangelo che si scrive: o propriamente che il Vangelo muore e nasce tante volte, quante la Carità declina o rifiorisce. Quando perciò nel mio dialogo si trova scritto che il Cristo non s’è manifestato una volta per tutte, ma al contrario si rivela ad ogni generazione d’uomini, significa solo che quante volte si rileggono i Vangeli,tante Egli con la sua Parola si rifà vivo in mezzo a noi. E alcunché di non diverso ho significato dicendo che ciascuna generazione d’uomini riscrive un Vangelo.
Il che tuttavia può essere preso in tre modi: che ciascuna vi cerca nuova luce di verità; che ogni verità che si cerca santamente è deposito che s’aggiunge al deposito dei Vangeli; che i Vangeli non sono a misura di ciò che ne apprendiamo, ma a misura dell’amore che ne edifichiamo.”
D. Malgrado l’assenza di riferimenti immediati all’attualità il suo libro è un libro di attualità. Come spiega questa apparente antinomia?
R. Dietro le parvenze storiche del mio romanzo c’era… tutto un tessuto di rapporti all’attualità; addirittura dietro i lineamenti di qualche mio personaggio si sarebbero potuti riconoscere i tratti morali di certi personaggi d’oggi. A parte il fatto che l’esperienza fatta tra le pieghe delle storia del cristianesimo m’aveva convinto che quello che la Chiesa sta attraversando non è affatto, per essa, uno stato eccezionale. In forma più latente, e per i tempi più lunghi, il suo passato è pieno, a ogni svolta, starei per dire, dei problemi che oggi vediamo affiorare tutti insieme. Per dirla in breve, in virtù del mio “mito” m’accorgevo di star scrivendo un romanzo di piena attualità, col vantaggio di sfuggire ai rischi dell’impatto cronachistico, che ne avrebbero fatto un’opera meccanica, meramente esterna, di polemica scoperta. In definitiva, un libello-mito, se non altro , restaurava il mistero.
D. Se potesse fare una raccomandazione ai lettori, che cosa direbbe loro?
R. Direi che non bisogna affannarsi per decidere se e quanto la mia ricerca è assimilabile o no con quella delle avanguardie odierne. Non bisogna neanche rifiutare a priori quella libera mescolanza di generi letterari e modelli espressivi con cui “Il quinto evangelio” stravolge la nozione abituale di romanzo. L’essenziale è che il libro piaccia, solleciti, faccia pensare. Penso anche che per capirmi occorra tener conto della varietà della mia esperienza umana, una esperienza lacerata più di quanto non paia dagli scarni dati esteriori della mia biografia. Ad esempio: formazione cattolica, sterzata verso il laicismo all’Università, milizia politica nel Partito d’Azione e poi, per qualche tempo, nel Partito Socialista. Ed è appena uno dei versanti. Probabilmente, se qualcosa mi caratterizza, è il fatto di assumere nel tessuto della mia personalità le ansie e le contraddizioni del nostro tempo, senza giocare con le idee e con i dolori degli uomini. Auguro, infine, al lettore di leggere “Il quinto evangelio” con lo stesso candore di chi l’ha scritto.

Giornale di Brescia, 12.3.1978. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Mario Pomilio di presentazione del libro “Il quinto evangelio”.