Unità e missione della Chiesa a 100 anni dalla Conferenza di Edimburgo

Vi ringrazio molto per l’invito, che mi è doppiamente gradito: perché è un invito ecumenico, e perché è bresciano. Circa 25 anni fa, inizialmente per aiutare un collega anziano, poi in parte per sostituirlo, venivo regolarmente qui, pur non avendo la cura della Chiesa di Brescia. Facevo molto, non solo per l’ecumenismo e ciò mi ha segnato per tutta la vita, come andare regolarmente a visitare persone molto ammalate, celebrare matrimoni, funerali, eccetera.

Vorrei trattare il nostro tema in tre punti, collegandomi anche al bellissimo titolo della settimana di preghiera appena conclusa: “ Voi sarete testimoni di tutto ciò” (Luca 24,48)

La conferenza missionaria di Edimburgo del 1910 viene considerata, non solo nella vulgata ecumenica, ma anche nella storiografia corrente, il punto di avvio del moderno movimento ecumenico, la sua nascita.

Inizialmente vorrei dialettizzare questa opinione almeno su due piani: innanzitutto tale conferenza non fu ecumenica nel senso che noi diamo oggi al termine: l’incontro tra tutte le grandi confessioni, per semplificare, i protestanti evangelici, i cattolici romani, il vasto mondo delle chiese orientali e dell’ortodossia, e gli anglicani. In realtà il consesso fu protestante e anglicano, mentre i cattolici non furono neanche invitati perché i tempi non lo avrebbero consentito, come vedremo in seguito.

Questa conferenza era il culmine di un processo tutto intra-protestante, che aveva una sua fase già rigogliosa da almeno cinquanta anni, ma in realtà era nato da quasi cento anni. Dalla seconda metà del XIX secolo, infatti, si cominciarono a tenere in varie parti del mondo riunioni internazionali, in cui organizzazioni missionarie di origine protestante iniziarono a porsi il problema che non avesse molto senso presentarsi divisi nei cosiddetti paesi “di missione”, che erano anche i paesi del colonialismo. Soprattutto si cominciava a fare l’esperienza che di fronte alle sfide della missione ci si trovava immediatamente più vicini che nei Paesi di provenienza, perché le dispute e le differenze dottrinali che ci possono essere tra Cristiani in Scozia, o nel Connecticut, prendono un segno completamente diverso se si deve testimoniare Gesù Cristo nel cuore dell’Africa.

Questa spinta missionaria, così ancorata all’interno del mondo protestante, aveva una connotazione specifica: le principali denominazioni protestanti del XIX secolo, erano state tutte attraversate da numerosi movimenti di risveglio, come ad esempio il grande risveglio nordamericano. Persino la piccola Chiesa Valdese fu segnata, nella prima metà del XIX secolo, dal risveglio franco – svizzero.

Questi movimenti introducevano anche una salutare nota di scetticismo nei confronti delle vecchie e consolidate appartenenze confessionali e il problema diventava essere un Cristiano risvegliato, se si sente la fede e l’impegno missionario come qualcosa di veramente proprio, e non importava essere valdesi, presbiteriani, o metodisti. Stiamo quindi parlando di un movimento ecumenico di per sé, che aspirava a suscitare un rinnovamento all’interno di tutte le Chiese. Per fare un paragone un po’ azzardato, è qualcosa di simile ai movimenti carismatici o neo-catecumenali, che insistono su una forte consapevolezza e sul coinvolgimento personale al di là dell’appartenenza.

E proprio questi movimenti di risveglio, che insistevano sul fatto che l’essere Cristiani non è tanto un fatto di appartenenza e di eredità, quanto un fatto di impegno e di vocazione, avevano fatto sorgere numerose società missionarie. Pensavano che si riceve il Vangelo non per tenerlo come un deposito personale, ma per comunicarlo a chi ancora vive senza di esso, e di conseguenza il mondo si allarga e si aprono nuovi campi. Quindi non si tratta solamente di sviluppare una missione interna, di risvegliare personalmente la sonnolenta cristianità europea e nordamericana, ma anche di cercare di raggiungere altri con il Vangelo, una volta risvegliati se stessi. Edimburgo 1910 fu il tentativo di raccogliere questa spinta e di realizzare la più ampia cooperazione possibile tra le diverse società missionarie.

Il lavoro preparatorio fu intenso: otto commissioni di venti membri lavorarono per due anni sui temi che furono poi discussi nelle giornate di lavoro alla conferenza. Può essere interessante per noi, e anche edificante, scoprire che John R. Mott, un metodista laico, fu l’animatore del lavoro preparatorio, e poi anche il presidente di molte delle sessioni, del comitato di continuazione e del consiglio missionario internazionale che scaturì come sviluppo dei risultati della conferenza. Non era un teologo, ma, essendo fortemente segnato dalla pietà del risveglio che faceva di ogni cristiano un soggetto chiamato ad impegnarsi e dal suo slancio missionario, fu uno dei più grandi rappresentanti dello spirito di Edimburgo, e non ne fu l’unico.

Non solo perché siamo a Brescia, ma anche per questo, mi fa piacere menzionare il fatto che, sebbene i cattolici romani non furono ufficialmente invitati – penso anzi che anche se lo fossero stati non sarebbero venuti – ci fu un contributo cattolico importante a questa conferenza, e fu di un italiano anzi di un bresciano, l’allora settantanovenne Vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, nativo di Nigoline (BS), dove morì, nel 1914, e che fu consacrato Vescovo nel 1871 a Brescia.

È bene riflettere su questo personaggio perché, benché sia partito conservatore, divenne poi uno degli esponenti del cosiddetto cattolicesimo liberale di allora. Per esempio scrisse addirittura una lettera al Papa sostenendo la necessità di sospendere il non expedit, cioè il divieto ai cattolici di partecipare attivamente o passivamente alla vita politica dello stato unitario che veniva bollato come “stato impostore”, “stato invasore”, ecc.

Addirittura nella sua diocesi di Cremona fu attaccato da un periodico cattolico estremamente conservatore e anti-liberale, che fece chiudere. Un personaggio, dunque, interessante.

Un altro esempio è costituito da un laico americano, anche lui singolarmente aperto per l’epoca: Silas McBee, che aveva conosciuto monsignor Bonomelli, ed era stato attratto dal fatto che ci fosse in Italia , nel paese di Pio IX, un cattolicesimo liberale.

Monsignor Bonomelli scrisse una lettera alla conferenza di Edimburgo in cui sosteneva di non condividere lo scetticismo ironico con cui molti guardavano a questo proposito di unire gli sforzi missionari delle varie Chiese: per lui non si trattava di un idealismo ottimistico, neanche di un sogno ideale, ma di una via che si doveva percorrere. E dunque “se le Chiese” – concludeva in questa sua lettera – “ora divise, ravvisano nella comune vocazione missionaria, un elemento unificante, una nobile aspirazione, se si sentono chiamate ad appianare le barriere che dividono, e a operare per la realizzazione della Chiesa, Una e Santa tra tutti i figli della redenzione, mi domando: non sono questi elementi più che sufficienti a costituire un terreno comune di accordo, e a offrire una solida base per un’ulteriore discussione che tenda a promuovere l’unione di tutti i credenti in Cristo? ”.

Perché allora si può dire che, nonostante mancassero due elementi essenziali della nostra prospettiva ecumenica di oggi, cioè l’Ortodossia e il Cattolicesimo, Edimburgo segnò un passo in avanti?

Vi propongo tre elementi, ma se ne potrebbero menzionare di più.

Il primo è che questa conferenza era composta da delegati ufficiali delle varie società missionarie, cioè non era semplicemente una sorta di convegno a cui si iscriveva chi voleva. Questo fu un salto di qualità, perché così facendo si è diversamente coinvolti nel processo e nei suoi esiti, rispetto a quando ci si iscrive semplicemente a un convegno.

Un altro aspetto è che, siccome molte di queste organizzazioni erano in realtà il braccio missionario delle denominazioni, si rafforzava la portata dell’evento e quindi Edimburgo fu un consesso ecumenicamente più rappresentativo delle assemblee precedenti. Non era ancora un concilio di Chiese, ma il fatto che fossero delegati ufficiali di organizzazioni missionarie, che non erano delle cooperative ma la maggior parte di esse erano lo strumento missionario di Chiese costruite, alza il livello della rappresentatività dell’evento, e anche la consistenza della riunione. E poi soprattutto, benché si fosse deciso di non trattare questioni dottrinali, ma tutto fosse puntato sul come rapportarsi tutti insieme, per svolgere il compito comune di annunciare Cristo al mondo, in particolare al Nuovo Mondo, ben presto emerse che il confrontarsi sulla comune vocazione missionaria portava con sé la promessa, e anche l’esigenza, di ulteriori passi sul piano dell’unità. Quindi questa conferenza fu così importante perché ne nacquero degli impulsi che, al di là della problematica della missione, si svilupparono fino al giungere nel 1948 alla costituzione del Consiglio Mondiale delle Chiese.

Dopo Edimburgo si tennero altre conferenze missionarie, ma in generale nacquero due filoni di lavoro. Uno era chiamato life and work ,vita e intervento, che tematizzò il fatto che le Chiese avessero una vocazione comune alla promozione della giustizia e della pace. Già negli anni ’30 questo filone di lavoro divenne un organismo permanente.

Il secondo filone era il faith and order, fede e ordine, inteso come ordinamento ecclesiastico, e affrontò le questioni dottrinali che non si erano volute mettere in primo piano a Edimburgo, perché di certo sarebbe stato prematuro e avrebbe potuto creare fin da subito incidenti di percorso. Ma proprio grazie a Edimburgo si capì che tali questioni erano essenziali per l’unità della Chiesa. Come si può essere uniti e riconoscersi se le differenze dottrinali e organizzative sono degli ostacoli avvertiti come dirimenti? E anche da qui si arrivò a una serie di conferenze. Il faith and order, che ha continuato la sua attività anche dopo la costituzione del Consiglio Ecumenico del 1948, si riunì a Montreal nel 1963. In questa occasione parteciparono degli osservatori cattolici, e dal 1968 la Chiesa di Roma è ufficialmente rappresentata in questo filone, pur non essendo mai entrata nel Consiglio Mondiale delle Chiese e non potendoci mai entrare perché il presupposto dell’appartenenza al Consiglio è quello di essere tutti sullo stesso piano.

La prima assemblea del Consiglio Mondiale delle Chiese si svolse ad Amsterdam nel 1948 con 351 delegati di 147 Chiese diverse, da quelle più grandi con decine, centinaia di milioni di membri, fino alle più piccole, come quella Valdese. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese si definì come la comunione delle Chiese che accettano nostro Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore.

Concludo questa rapida panoramica su che cosa fu Edimburgo, e quali furono i suoi effetti, leggendo un brano tratto dal messaggio che alla fine della conferenza fu inviato ai membri delle Chiese in Paesi cristiani, al quale seguì anche un messaggio inviato ai cristiani in Paesi di missione. “Dobbiamo acquisire una più profonda consapevolezza della responsabilità che abbiamo nei confronti del Dio onnipotente, per il fatto che egli ci ha mostrato tanta fiducia da affidarci l’evangelizzazione del mondo. E questo incarico non è affidato soltanto ai missionari e alle loro organizzazioni, cioè non può essere delegato, ma a ogni membro della Chiesa, esattamente come le virtù fondamentali della vita Cristiana: fede, speranza e amore…”.

Quindi non c’è il “dipartimento missioni”, ma, come ciascuno è chiamato alla fede, alla speranza e all’amore, è anche chiamato alla missione. “…Tutti noi condividiamo questa affermazione fondamentale, ma dobbiamo essere risvegliati, a renderla efficace in misura del tutto nuova…”. Lo sappiamo tutti che l’essere Cristiani significa essere chiamati ad annunciare l’Evangelo, ma bisogna rendere questa vocazione efficace in modo nuovo. E nel messaggio si legge anche questa metafora: “esattamente come un grande pericolo nazionale esige da ogni cittadino un nuovo grado di amor di patria e di servizio, così la situazione attuale del mondo e il compito missionario esigono da ogni cristiano e da ogni comunità una crescita nello zelo e nel servizio missionario, e un’elevazione del nostro ideale spirituale…”. Come in una patria minacciata, in una famiglia che ha dei problemi, si fa quadrato e si ritrovano rinnovate energie, così di fronte alla nuova situazione dobbiamo risvegliarci per la missione. “…criteri ideali che valevano per il Vecchio Mondo non si adattano al Nuovo Mondo che sorge sulle rovine del vecchio.

Letto oggi fa impressione pensare che solo quattro anni dopo iniziava la Prima Guerra Mondiale.

Questo spirito nuovo non viene richiesto solo ai singoli cristiani o alle singole comunità, è un’esigenza ineludibile dello Spirito, che la vita della nazione, e l’influenza della nazione vengano cristianizzati come un tutto…”. Ci si accorge subito che è un testo di cento anni fa. Si dice che bisogna cristianizzare di più le nostre civiltà, in modo che l’intera influenza dell’Occidente sull’Oriente, compresi il commercio e la politica, e l’influenza delle razze più forti, cioè dei popoli, su quelli più deboli, deve rafforzare la testimonianza missionaria, per far sì che non si indebolisca. E qui si vede anche l’ambiguità di queste frasi, che dicono: “noi siamo nazioni più civilizzate, e insieme alla maggiore civiltà, dobbiamo trasmettere anche un maggiore cristianesimo, e per questo bisogna cristianizzare di più le nostre nazioni, affinché con la loro espansione, possano espandere anche la religione.”

La Provvidenza di Dio ci ha portato in un nuovo mondo pieno di buone opportunità, ma anche di pericoli e di doveri, ma la strada di questi nuovi doveri è la strada della rivelazione di Dio.

Ho citato questo brano perché penso che noi dobbiamo legittimamente celebrare questo consesso, e collegarci a esso. Oggi, però, non si può pensare di scegliere questo tipo di frasi che dicono che per essere più cristiani bisogna cristianizzare di più l’Occidente, che ha già una civiltà superiore. Dunque la lettura storica della conferenza impedisce di farne un mito di fondazione. Si nota che qui ci sono delle coordinate più occidentali che globali, il colonialismo non viene più di tanto esaltato, ma certamente è un contesto accettato in modo un po’ acritico. Nonostante ciò per le ragioni dette Edimburgo segnò la consapevolezza che essere cristiani vuol dire essere testimoni, e per esserlo bisogna cercare di superare le divisioni, perché la testimonianza deve testimoniare Cristo, e non esportare e globalizzare le nostre differenze e divisioni.

Nel secondo punto vorrei brevemente descrivere cosa è cambiato dopo il concilio, anche perché, fino alla mia generazione, dagli attuali novantenni, fino a circa i sessantenni, la percezione di come sono cambiate le Chiese, è un dato biografico ed esistenziale. Molti hanno atteso, seguito, e poi vissuto, il cambiamento che il concilio ha rappresentato, ma la consapevolezza di tutto questo non è per nulla garantita. Non voglio fare discorsi macabri, ma la fine fisica della generazione di laici impegnati, di teologi, di sacerdoti, vescovi, cardinali che hanno atteso, vissuto, e poi gestito il concilio e il dopo concilio, si avvertirà. Va da sé che le acquisizioni che si sono fatte, vengano recepite con la consapevolezza di quello che era prima, e quindi anche di ciò che può tornare a essere, perché se una persona non si rende conto che qualche cosa è il risultato del fatto che si è cambiati, che sono stati fatti dei passi che prima non si facevano, è molto facile che le cose, poi, per inerzia, si perdano.

Si è detto prima che Monsignor Geremia Bonomelli sosteneva: “io non sono d’accordo con quelli che pensano che il proposito di avvicinare in prospettiva unitaria i cristiani, sia solo un sogno, bensì una cosa necessaria”. Mentre cresceva questo movimento ecumenico, caratterizzato da un forte timbro protestante, la prima reazione della Chiesa di Roma fu estremamente negativa, e il documento emblematico di questa avversione è l’enciclica mortalium animos di Pio XI, di cui vi cito qualche frase: “…Particolarmente grave è il tentativo di promuovere l’unità dei cristiani, perché lì, sotto l’apparenza del bene, si cela facilmente l’inganno: sotto le insinuanti blandizie di parole del movimento pancristiano, si cela un gravissimo errore, che verrebbe a scalzare totalmente i fondamenti della fede cattolica. Perciò il Papa, ha il dovere di impedire che il gregge del Signore venga sedotto da dannose illusioni. Bisogna ribadire che Cristo, nostro Signore, fondò la sua Chiesa come società perfetta, affinché proseguisse nel tempo a venire, l’opera della salvezza, sotto la guida di un solo capo.” Ecco che non bisogna assolutamente andare agli incontri ecumenici internazionali perché questi rappresentano la tesi dei protestanti, che pensano che si possa trattare con la Chiesa romana con una uguaglianza di diritti, da pari a pari. “…L’unità della Chiesa sorge soltanto da un solo magistero, da una sola legge del credere, e da una sola fede dei cristiani. Nell’unica Chiesa di Cristo nessuno si trova, nessuno ci rimane, senza riconoscere e accettare con ubbidienza, la suprema autorità di Pietro, e dei suoi legittimi successori. Se questi Ortodossi e Protestanti desiderano finalmente l’unità, perché non si affrettano ad entrare nella Chiesa madre e maestra di tutti i seguaci di Cristo? Ritornino i dissidenti, non già però con l’idea e la speranza che la Chiesa del Dio vivo, colonna e sostegno della verità, butti via l’integrità della fede, e tolleri il loro ruolo, ma per sottomettersi al magistero e al governo di Lei. Volesse il cielo se capitasse a me quello che non è successo ai miei predecessori, cioè di abbracciare con animo di padre, i figli che piangiamo separati da noi per funesta divisione, e il Divin Salvatore si degnasse a richiamare all’unità della Chiesa tutti gli erranti.

A questo punto della vicenda, sembra che le strade non possano mai incontrarsi: da una parte nasce l’idea dell’ecumenismo come processo conciliare, dall’altra si risponde che la Chiesa di Cristo, cioè la società perfetta, c’è già e si chiede a chi l’ ha colpevolmente lasciata di farvi ritorno.

Tale è la portata del concilio, anche con la dichiarazione Lumen gentium che, al numero 12 afferma che la Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica, sostituendo così l’altra possibile formulazione, e cioè che la Chiesa Cattolica è la Chiesa di Gesù Cristo. Il fatto che si dica che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica, sia in Lumen gentium, sia in Unitatis redintegratio, non impedisce di misurare la consistenza ecclesiale delle altre Chiese, a partire dal punto di vista di Roma, per cui ci sono le Chiese sorelle, in primo luogo quelle d’Oriente, e poi ci sono le comunità ecclesiali, cioè i protestanti, ai quali mancano elementi sostanziali per essere definiti “Chiesa”,in particolare il ministero ordinato e la successione apostolica. Questo però, non impedisce anche a queste Chiese di serie C il riconoscimento di elementi, o di beni che appartengono alla Chiesa di Gesù Cristo, a cominciare dal battesimo. Qui sta la grande novità di Unitatis redintegratio. Non si tratta più di attendere, o eventualmente di ammonire dei figli ribelli, ma di avviare un processo di dialogo insieme a dei fratelli separati, perché quella unità della Chiesa, che già sussiste nella Chiesa di Roma, possa essere perfezionata, e la sua perfezione non si consegue semplicemente aspettando che i ribelli e gli apostoli si rimettano in riga, ma combattendo i pregiudizi, incontrandosi, prendendo atto della consistenza cristiana degli altri, ancorché incompiuta.

Al di là di questo discorso “teologico”, io credo che le conseguenze di Unitatis redintegratio, e del Concilio, erano, solo pochi decenni prima, impensabili, persino in Italia, dove il problema ecumenico non si impone come un’urgenza sociologica. Qui, subito dopo questo evento, si è avvertito il segno che cominciava un’epoca nuova. Un esempio, visto che siamo a Brescia, potrebbe essere questo: chi per primo e più efficacemente ha fatto conoscere in Italia la teologia protestante,il commento biblico ma non solo, è l’editoria cattolica. Insomma Bonhoeffer in Italia non lo ha tradotto “la Claudiana”, bensì “la Queriniana”, giungendo persino a tradurre Gesammelte Werke (cioè l’opera completa), e Moltmann, Pannenberg, ecc. Questo era anche legato al fatto che questi interlocutori protestanti erano molto rilevanti per la teologia cattolica intorno al concilio. Anzi, certamente dopo il Concilio Vaticano Secondo, e fino a oggi, la consapevolezza del contributo protestante alla storia d’Europa, è molto più curato all’interno del mondo cattolico, che non nella cultura laica. Su questo non c’è alcun dubbio anche perché molti dei cosiddetti laici sono diventati atei rispetto al loro catechismo pre-conciliare e dicono delle scempiaggini sulla Bibbia, con grande supponenza da filosofi di grido o da terza pagina dei giornali, tipo “il Dio dell’Antico Testamento è un Dio legalista e vendicativo mentre Gesù Cristo rivela il Dio dell’amore”, che nessun parroco direbbe più, perché dopo il concilio gli hanno insegnato che queste dichiarazioni sono superate.

Un altro esempio potrebbe essere la Bibbia. Entrando nella mia lussuosissima stanza al Centro Paolo VI, ho subito riconosciuto dalla copertina, essendo presidente della nuova società biblica, che il Vangelo di Luca in sei lingue che era sul mio tavolino da notte doveva avere a che fare con la società biblica.Vi era scritto: traduzione interconfessionale in lingua corrente su licenza della società biblica. Questo è un segnale importante. Si provi infatti a immaginare nel 1950 un albergo cattolico o una casa protestante in cui ci fosse una Bibbia cattolica e una protestante, o una interconfessionale! La Sacra Scrittura è stata considerata fino al Concilio una sorta di clava perché data in mano al popolo avrebbe provocato la ribellione degli italiani dal dominio papale. Ma uno dei frutti del Concilio Vaticano Secondo fu l’avvio di un lavoro biblico comune: la traduzione interconfessionale. Io stesso non sarei diventato quello che sono oggi come cristiano, se non mi fosse capitato già da molto giovane di tradurre la Bibbia, che ha voluto dire, per tre o quattro settimane all’anno, passare un’intera settimana, dalle 7 di mattina a mezzanotte insieme con 7 o 8 sacerdoti cattolici. Senza questo tipo di esperienza non avrei mai visto nemmeno in dieci anni tutti quelli che incontravo in quelle settimane e non avrei capito che in fondo eravamo tutti Cristiani.

Per non parlare, poi, dell’Esegesi: sfido chiunque ad accorgersi, quando legge un articolo scritto da un esegeta, a riuscire a capire se si tratta di un cattolico o un protestante. Si notano molto di più le differenze di scuola, differenze di impostazione metodologica. Questa è una svolta epocale, perché se si legge un articolo scritto da biblisti negli anni ’30, ’40 o ’50, ci si accorge subito a che “ditta” appartiene chi l’ha scritta. In alcune unità locali si è arrivati addirittura a creare Consigli di Chiese Cristiane, e tutto questo nel giro di pochi decenni.

Per chiudere questo discorso si potrebbe dire che certamente oggi, nel 2010, tutto questo ci appare più complicato e meno garantito rispetto a 15 anni fa, però resto della convinzione che ormai tutti siano convinti del fatto non si possa tornare più indietro.

In occasione del primo Kirchentag e Katholikentag, un grande raduno di massa organizzato da protestanti e cattolici in Germania ogni due anni, durante il quale si radunano in una città dalle 200.000 alle 300.000 persone e trascorrono tre giorni di concerti, prediche, messe, dibattiti, ecc, il Vaticano ha ribadito che ai cattolici è vietato di partecipare a una Santa Cena evangelica, come pure i protestanti non possono essere ammessi a un’Eucaristia cattolica. In Germania, certo, questa è stata una doccia fredda, soprattutto se si pensa al grande numero di matrimoni misti, nei quali entrambi i coniugi sono pii Cristiani, impegnati ognuno nella propria Chiesa. Tuttavia in tutti questi casi di indubbi irrigidimenti, chi ha intrapreso queste strade, le ha poi abbandonate. Posso dirvi che proprio dopo il 2007 sono stato più volte invitato a partecipare a messe cattoliche e a predicare, e in determinati contesti ho partecipato all’intera celebrazione, Eucaristia compresa. Credo che questa sia la forza del cammino intrapreso, cioè una volta che si è capito come stanno le cose, può essere tutto più difficile, tutto può essere rimesso in discussione, ma chi ha compiuto quel passo si è aperto davanti una nuova dimensione.

Concludo con cinque riflessioni che si agganciano al tema “Sarete miei testimoni”, cioè la testimonianza a Cristo.

Il primo pensiero è questo: la nostra comune testimonianza missionaria me la immagino come il dito di Giovanni Battista nel famosissimo quadro della crocifissione che era sull’altare centrale del monastero di Isenheim, in Alsazia, e che adesso è nel Musée d’ Unterlinden di Colmar in Alsazia. È un dipinto del 1512 – 1516, in cui c’è il Battista che indica il crocifisso senza neanche guardarlo con un dito che appare sproporzionato. Giovanni Battista io lo vedo, qui, come il paradigma della testimonianza comune dei cristiani, in cui noi non si rappresenta se stessi o una visione del mondo, ma si addita, si rimanda. Questa è la missione: rimandare altrove da sé, e precisamente a Cristo. È proprio il Battista che dice “io sono stato mandato davanti al Cristo, e bisogna che egli cresca, e che io diminuisca”. Si potrebbe fare un’intera conferenza su questo tema, perché il confine è sottile: se Cristo cresce, cresce anche la Chiesa, perché se in lui credono 100 invece di 10, la Chiesa è più grande. Ma qui il problema è un altro, e cioè che tutta la storia delle nostre comunità cristiane dimostra che può benissimo crescere la Chiesa senza che cresca Cristo. Questa è la tensione del problema: bisogna che Lui cresca. Potremmo dirlo proprio riguardo alla storia della missione: chiedendoci se essa è sempre una storia della crescita di Cristo. Potrebbe essere un aumentare dei propri sforzi espansionistici, oppure, quando si ha l’illusione di aver reso la città più cristiana perché dà più retta ai suoi vescovi o ai suoi saccenti sacerdoti protestanti, c’è la certezza che Cristo è cresciuto? Bisogna che Cristo cresca.

Secondo punto: il dito del Battista rimanda alla Croce, cioè la testimonianza è quella del Crocifisso, e allora non è di una Chiesa o delle Chiese vittoriose, ammirate, vezzeggiate, ricercate, non è una società cristiana che testimonia autenticamente Cristo, perché appunto lo fa Lui crocifisso. Questo è un punto molto forte: oggi la testimonianza comune deve essere quella di rivendicare l’eredità cristiana, uno spazio cristiano, dire che esso è il fondamento? O invece bisogna ricordarsi che si testimonia uno che è venuto per rivelare Dio all’umanità, che non è entrato a Gerusalemme su una limousine messa a disposizione dal sindaco di Gerusalemme e scortato? Noi testimoniamo uno che ha portato la pienezza della rivelazione di Dio nel mondo esponendosi sul Golgota, allo stesso modo, agli sputi di chi lo rifiutava e alla dichiarazione del Centurione di Marco 15, che vedendolo morire così disse: “Questi è veramente il figlio di Dio”.

Poi io credo che proprio nel mondo di oggi, di fronte ai drammatici problemi che abbiamo, la testimonianza comune delle Chiese, se vuole dire qualche cosa che rimandi a Cristo, deve essere autocritica e per essere autentica deve riconoscere i propri errori ed essere in grado di leggere la storia Cristiana, e tutta, come i profeti di Israele hanno letto la storia del popolo ebraico. La parola “autentica”, che non significa “rivendicare qualcosa per sé”, ma è “rimandare”, è quella che sa anche riconoscere dove non si è stati all’altezza. La testimonianza non è mai quella del Grillo Parlante, che sa sempre tutto anche per gli altri, ma è sempre quella di un peccatore perdonato. In questo senso si può citare un’immagine, se vogliamo un po’ grottesca, che ho letto essere presente in alcune chiese del ‘700 nella Slesia dove vi sono dei pulpiti, probabilmente barocchi, che hanno la forma del pesce che ha inghiottito Giona. Bisogna immaginarsi una specie di orrendo pesce con la bocca aperta, al cui interno c’è il predicatore che parla, mentre il pesce sta per vomitarlo sulla Terra. Questa immagine è molto significativa, e vuole dire che la nostra testimonianza è come quella di Giona, che ha sbagliato, ma è stato poi rivomitato sulla Terra dopo aver compreso i propri errori. Che Dio voglia che la nostra testimonianza sia di questo tipo, e non quella saccente di chi sa da sempre.

Infine mi sembra essenziale che noi ricordiamo che la nostra testimonianza vive di attesa, cioè vorrei toccare la dimensione della speranza. Non è la cosa di cui si parla più di frequente, perché le nostre Chiese, tutte, parlano piuttosto di valori, di impegno. Poi poco importa se una comunità accentua di più la famiglia mentre un’altra l’impegno sociale. Alla fine di tutti i nostri discorsi, però, la Cenerentola è la speranza, cioè quello che Dio deve ancora fare per noi che Dio ci ha promesso, quello che noi ci aspettiamo da Dio, e non quello che abbiamo già capito e che sappiamo spiegare. Come dice la Scrittura “non è ancora manifesto cosa saremo”. Questo che potrebbe sembrare un limite, io lo considero piuttosto come un talento dell’ecumenismo. Perché siamo così convinti, nonostante tutte le difficoltà, che il futuro del Cristianesimo sia ecumenico? Perché ci aspettiamo da Dio molto di più di quello che sappiamo fare, perché tutti siamo dei cristiani incompleti e non sappiamo ancora quale sarà la nostra completezza, perché questa non è equivalente alle alleanze di tipo pentapartitico nella politica, bensì è il compimento della speranza cristiana che viene da Dio. In questo senso sono molto felice di partecipare quest’anno a Monaco, in occasione della festa dell’Ascensione, al secondo Kirchentag und Kahtolikentagecumenico che avrà per motto: “Chiamati alla speranza”.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 3.2.2010 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.