Vita e personalità di Silvio Pellico

Tematiche: Letteratura

1. Un’adolescenza difficile e una giovinezza ardente

 L’anno in cui ebbe inizio la Rivoluzione Francese, il 1789, il 25 giugno, nacque a Saluzzo, in Piemonte, Silvio Pellico. Il padre, Onorato, era commerciante di spezie, non abile negli affari, ma con tenaci velleità poetiche. La madre, la savoiarda Maria Margherita Tournier, era donna energica e insieme delicata, di profonda religiosità, attenta alla vita interiore dei figli. I quali furono numerosi: infatti a Silvio, nato dopo Luigi, seguirono altre quattro creature.
Malgrado la serenità e la tenerezza dell’ambiente familiare, Silvio ebbe un’infanzia non felice; gracile di costituzione, crebbe stentatamente, lontano dai rumorosi giuochi dei coetanei. Fu proprio il teatrino in casa, in cui col fratello Luigi impostava trame, recitava e improvvisava, il suo primo modo di esprimersi e di prefigurarsi, forse, l’avvenire.
La sua formazione letteraria, affidata a docenti privati, divenne discontinua, ma sempre più personale e aperta alle «attuali influenze», quando, essendosi trasferita la famiglia a Torino nel ’99, il giovinetto fu costretto per parecchi anni a interrompere il corso regolare degli studi per aiutare il padre nel suo commercio. Quando gli affari volsero al peggio, la madre provvida a trovare un impiego per i figli maggiori, Luigi e Silvio, che avevano rispettivamente diciotto e diciassette anni.
Silvio nel 1806 fu affidato ad un parente, ricco commerciante di Lione. «Sentii che la scienza dei negozi non m’avrebbe allettato», scrisse poi il Pellico, il quale riprese per conto suo gli studi amati, imparò il tedesco e l’inglese, si perfezionò in francese e nelle lingue classiche e, «mai sazio di leggere», divenne buon conoscitore della letteratura francese. Erano gli anni in cui Napoleone dominava la scena politica europea e la moda culturale francese del primo impero era ancora lontana dal cogliere e diffondere i nuovi orientamenti del secolo. Il contagio d’un ambiente religioso, la crisi inevitabile dell’adolescenza, l’amore corrisposto ma sfortunato con la figlia del suo ospite (già fidanzata dal padre ad un altro), la scoperta della grande poesia del Foscolo dopo la lettura dei “Sepolcri”, la nostalgia della patria: tutte queste cose caratterizzarono il soggiorno lionese del Nostro e lasciarono durevole traccia nel suo animo.
Nell’ottobre del 1809 la famiglia Pellico si ritrova a Milano, capitale del Regno d’Italia e centro culturale di prim’ordine: i genitori, dopo il fallimento, vi si erano trasferiti; Luigi era al servizio del conte Capra, collaboratore del Vicerè Beauharnais; Silvio vi giungeva per lavorare e, nello stesso tempo, per determinare ed esprimere la sua vocazione di letterato e artista. Giungendo a Milano, Pellico aveva vent’anni, l’ingegno vivace e l’animo delicato, un carattere limpido. Gli vollero bene in molti e Foscolo lo ebbe particolarmente caro («un siffatto iracondo uomo – scrive il Pellico nel capitolo 50 delle Mie prigioni – che con le sue asprezze provocava tanti a disamarlo, era per me tutto dolcezza e cordialità ed io lo riveriva teneramente»). Insegnante di francese, censore di opere teatrali e, infine, istitutore del conte Briche, sperimentò in quegli anni le ristrettezze – e dunque anche le tentazioni – d’una condizione di effettiva povertà. «Che cosa sono la società e la patria e tutte le loro belle passioni – scrive al fratello Giuseppe – per chi giace umiliato nella fortuna, e bisognoso di pane?».
In quegli anni il Pellico cominciò a lavorare per il teatro. Nel ’13 lesse al Foscolo, che ne fu entusiasta, la “Laodamia”, il cui manoscritto andò perduto. Andò sulle scene la tragedia “Francesca da Rimini" il 18 luglio 1815, un mese dopo la battaglia di Waterloo. La rappresentazione ebbe grande successo sia per la bravura della protagonista, l’attrice Carlotta Marchionni, sia per gli accenti patriottici contenuti nel testo. La gioventù trasaliva, secondo la testimonianza del Mazzini, alle parole di Paolo:
«E non ho patria forse
cui sacro sia dei cittadini il sangue?
Per te, per te che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò».
I patrioti erano in quei giorni delusi nelle loro speranze unitarie: i deliberati del Congresso di Vienna, firmati appunto l’8 giugno, facevano del Lombardo-Veneto una provincia austriaca e dell’Italia «una semplice espressione geografica», in cui era assicurata l’egemonia asburgica.
All’inizio del 1816 due avvenimenti mutarono la vita del Pellico: l’ingresso in casa Porro e la pubblicazione d’un giornale letterario austriacante, la Biblioteca italiana. Pellico accettò l’offerta del conte Porro di diventare educatore di due suoi figli. Casa Porro era il punto d’incontro della più avanzata cultura italiana di ispirazione liberale. E fu in casa Porro che il Pellico e i suoi autorevoli amici, Ludovico Breme e Pietro Borsieri, decisero di opporre alla Biblioteca italiana, foglio conservatore in letteratura e in politica, un periodico che desse voce alla risorgente coscienza italiana e ai nuovi orientamenti letterari
Nasce così l’idea del Conciliatore.

2. L’esperienza del Conciliatore

Il Conciliatore uscì nel settembre del 1818, a tre anni di distanza dal primo progetto, quando si stabilì un’intesa cordiale tra i due gruppi che sembravano contendersi a Milano il diritto di rappresentare la risorta coscienza italiana: il terzetto più irrequieto e battagliero, Breme-Pellico-Borsieri, e il circolo di cui tra gli altri facevano parte il Berchet, il Visconti, il Grossi ed in cui dominava, nel fervore della raggiunta maturità umana e artistica, Alessandro Manzoni. Questi uomini, in cui pulsava più fervido il presagio del domani, seppero intendersi e – grazie all’intervento organizzativo e finanziario del conte Porro – dettero col Conciliatore all’Italia tutta, e non solo a Milano, la prima significativa realizzazione della nostra rinascita spirituale e civile.
Fin dai primi numeri, il «foglio azzurro» fu considerato «non come semplicemente romantico, ma nazionale». Ma in che cosa consisteva il romanticismo del Conciliatore? Il «romanticismo» opponeva al «classicismo» – e cioè a una letteratura artificiosa, staccata dalla vita, infarcita di mitologia, espressione di un modo di sentire e di pensare anacronistico e ristretto a pochi individui – una letteratura che doveva sorgere come spontanea espressione del cuore, nascere direttamente dalla vita e, quindi, essere pervasa di spirito cristiano per la sua essenziale aderenza alle aspirazioni e ai bisogni del proprio tempo. Il Conciliatore fu palestra di rinnovamento morale, letterario, politico; unì i più begl’ingegni della penisola; superò ogni angusto limite provinciale per affrontare esplicitamente i problemi italiani e inserirli in un clima europeo.
Una pacata, serena rivolta contro la reazione trionfante; il rifiuto della boria nazionalistica; una schietta ispirazione patriottica, liberale, europea; un’alta coscienza civile e morale: questa l’eredità ideale del Conciliatore, e di qui la sua importanza veramente straordinaria nel processo che eleverà l’Italia a dignità di nazione.
Pellico fu il redattore capo del Conciliatore e il suo contributo fu decisivo. Sollecitare, coordinare, integrare gli apporti di così diversi collaboratori è un lavoro di per sé ingrato ed estenuante, ma per il Pellico divenne angoscioso per il serrato, impari duello con l’implacabile censura austriaca. Finché, dopo «un anno d’inferno», si giunse all’epilogo. La polizia notificò al Pellico la minaccia di espulsione dal Lombardo-Veneto qualora non ritirasse immediatamente la sua collaborazione al foglio azzurro. Di fronte a un’intimazione così perentoria, che nel redattore capo colpiva l’iniziativa stessa, il 17 ottobre 1819 il Conciliatore cessò di vivere. All’indomani il Pellico scrisse: «L’Italia non sarà forse immemore un giorno de’ pochi suoi cittadini che tentarono di conservare viva per tredici mesi la scintilla del patriottismo e della verità».

3. La luce dello Spielberg

Pochi mesi dopo la soppressione del foglio azzurro, quasi tutti gli uomini del Conciliatore daranno eroica testimonianza delle loro più profonde convinzioni. Chiuso ogni varco al dibattito, esclusa rigorosamente ogni espressione di libertà, l’opposizione fu costretta a organizzarsi in società segrete. Il fenomeno fu europeo, non solo italiano. Negli anni successivi al Congresso di Vienna fu particolarmente attiva nel nostro paese la «Carboneria».
Pellico fu introdotto alla Carboneria da Piero Maroncelli, un giovane musicista di Forlì, conosciuto in casa di Carlotta Marchionni, colei che aveva portato al successo la “Francesca da Rimini”. Una «vendita» carbonara era stata scoperta sul finire del ’18 a Fratta Polesine, un paesino in provincia di Rovigo e già un processo si stava celebrando contro il conte Oroboni, il sacerdote Marco Fortini ed altri. Pellico, pur consapevole del grave rischio, a poco a poco si lasciò conquistare dal miraggio dell’azione politica. Grande era il fervore patriottico. «Gli oscuranti [oscurantisti, austriacanti] hanno un bel fare, ché il sacro fuoco cova inestinguibile. Credimi – scriveva Silvio al fratello Luigi – il nostro è un gran secolo, e la generazione futura se ne rallegrerà». Tuttavia il saluzzese fu perduto non dal proprio entusiasmo, ma dalla grossolana faciloneria di Maroncelli, autore di lettere piene di nomi e di allusioni fin troppo trasparenti, e, quel ch’è peggio, affidate ad un contrabbandiere sorvegliato speciale della polizia.
«Il venerdì, 13 ottobre 1820, fui arrestato a Milano» – scrive il Pellico. Aveva trentun’anni. Comincia a questo punto la terribile vicenda, che dal carcere milanese di Santa Margherita porterà il Pellico ai Piombi di Venezia e allo Spielberg, in Moravia. Il Pellico fu trasferito ai Piombi nel febbraio del ’21, quando la situazione era per lui del tutto precipitata. L’inesorabile giudice, Antonio Salvotti, un trentino fattosi abilissimo e zelante servitore della repressione politica dell’Austria, aveva fatto saltare la troppo ingenua e ingegnosa autodifesa del Maroncelli (cospirazione carbonara sì, ma non contro l’Austria). Pellico resistette fino all’inverosimile, con dignità e fermezza. Dimostrò «una franchezza, che senza degenerare in tracotanza, attestava però in lui una particolare energia di carattere e di sentimenti», secondo il giudizio insospettabile dello stesso Salvotti. Nondimeno di fronte alle dichiarazioni di Maroncelli, non gli rimase che abbandonare – ma solo nei limiti in cui era inevitabile – quel «silenzio che non poteva più ragionevolmente sostenere». La condanna a morte fu commutata in quindici anni di carcere duro. Al processo Pellico-Maroncelli, il secondo dopo quello di Fratta Polesine, ne seguì un terzo, contro Confalonieri e gli altri patrioti lombardi accusati di intesa coi liberali piemontesi insorti nel marzo 1821.
«Unico risultato apparente dell’azione carbonara lombardo-veneta, i processi di Salvotti e lo Spielberg. Ma la catastrofe – scrive nobilmente lo storico italiano Luigi Salvatorelli – fu un trionfo, il carcere un’apoteosi. Lo Spielberg, illuminato nei suoi martirî dalla bianca, pura luce delle “Mie prigioni”, dette alla causa italiana la base più salda, più potente: quella dell’umanità offesa e ribelle. Esso drizzò la coscienza morale contro la legge positiva, proclamando che la legalità è un conto e il diritto un altro, che l’umanità è al di sopra dei governi e dell’«ordine pubblico». Nulla di più legale dei processi politici austriaci di questi anni, ove poté bastare a taluno mantenersi negativo per venire assolto. Neppure l’applicazione delle pene – avuto riguardo ai codici – poté dirsi particolarmente rigorosa, poiché tutti i condannati ebbero commutata la sentenza capitale in prigionia a tempo, e furono dopo vari anni liberati. Eppure, la coscienza morale italiana ed europea si ribellò al trattamento inflitto a quei patrioti, a quei lottatori per un ideale, chiusi in celle anguste, malsane, male illuminate, con una panca per letto, pesantemente incatenati, coperti di vesti aspre come cilizi, nutriti, se si può dir così, di cibo scarso e nauseabondo, perquisiti tre volte al giorno, privi di libri e di ogni occupazione altra da quella di spaccar legna e di far calzette e filacce. La coscienza morale si ribellò, iniziando la protesta che dopo la metà del secolo Gladstone doveva continuare contro i Borboni; e pronunciò inappellabilmente che un regime inumano è decaduto in diritto. Confalonieri fu più forte di Metternich, Silvio Pellico giudicò Francesco I» (“Pensiero e azione del Risorgimento”, Torino, Einaudi, 1950, pp. 89 – 90).

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A questo punto il lettore può aprire “Le mie prigioni” e passare alla lettura diretta del testo. La narrazione si svolge in novantanove capitoletti, che possono raggrupparsi in tre distinti cicli narrativi: la prigionia a Milano (capitoli 1 – 21), nei Piombi (capitoli 22 – 54), allo Spielberg 855 – 99).
“Le mie prigioni” sono l’itinerario di una tragedia, ma sono anche una testimonianza di umanità profonda, un itinerario alla fede religiosa e un’opera d’arte. L’equilibrio espressivo, l’intonazione fusa, il livello costante raggiunti dall’Autore fanno meglio apprezzare la varietà degli episodi, continua e addirittura straordinaria. La prosa è di una trasparenza intima, la verità del libro è lirica e non solo di documento. Una semplicità pensata e accurata, senza gonfiezze e senza sciatteria, caratterizza lo stile del Pellico; ma essa è frutto di arte autentica e di scavo nella propria interiorità, che è l’interiorità di «una persona molto più complessa di quanto comunemente si crede e interessantissima non meno psicologicamente che artisticamente», come ben disse il Trombatore. Le pagine sulle figure femminili, tra le più belle della nostra letteratura, ci fanno scoprire in Pellico il poeta dei sentimenti allo stato nascente. Altre volte – e sono le pagine su Oroboni e Schiller – il senso di una presenza viva nella memoria si fa canto, e la parola diventa lieve e insieme eletta, precisa e insieme carica di risonanze profonde. Né si deve dimenticare l’arte del Pellico nel delineare le così dette «figure minori», da Tremerello a Kunda, dal «mutolino» al cameriere bresciano: nessuna di esse è tanto umile che lo scrittore non si soffermi a guardarla con attenzione fiduciosa e a darle determinatezza e dimensione umana. L’equilibrio umano e artistico di verità e poesia viene perduto poche volte, e precisamente in quei tratti in cui l’indagine morale e psicologica sui propri sentimenti cede il passo alla discussione e all’accertamento quasi puntiglioso dei fatti, come ad esempio, nella prima parte del libro, nel caso di Giuliano.
Aveva quarant’anni Pellico quando il 1° agosto 1830 fu graziato. Pochi mesi dopo cominciò a stendere i primi capitoli delle “Mie prigioni”. Amici e conoscenti lo esortarono ad attendere tempi più propizi, perché il reduce dello Spielberg era mal tollerato dal governo piemontese ( la svolta liberale del 1846 – 48 è ancora di là da venire); fu l’insistenza di Cesare Balbo, uno dei maestri del liberalismo cattolico, il futuro autore delle “Speranze d’Italia”, a far persistere il saluzzese nella sua opera. Il riserbo imposto dalla censura sarda e il desiderio di non nuocere ai compagni ancora doloranti allo Spielberg, vero «inferno dei vivi» (Gioberti), furono presenti allo scrittore che mirò a «raccontare non tutto, certo, ma tutto con verità» (lettera a C. Cantù dell’aprile 1843). Nei primi di novembre del 1832 il libro, stampato per conto dell’editore Bocca, di Torino, apparve e il successo, inaspettato, giunse rapidamente. “Le mie prigioni” è «un libro che vivrà nella nostra letteratura» (Settembrini), ma già al suo apparire divenne un libro della letteratura universale.
Quest’opera parlerà sempre al cuore degli uomini, finché il diritto all’indipendenza dei popoli sarà calpestato, finché esisteranno i campi di lavoro forzato per i dissenzienti a cui si nega la libertà di pensiero e di parola, finché la coscienza morale e la voce del dolore troveranno ascolto.

(Introduzione a "Le mie prigioni" di Silvio Pellico, La Scuola Editrice, Brescia 1970, p. 5-13)