Dal Canzoniere ai canzonieri

Autori: Fedi Roberto
Tematiche: Letteratura

Voi ch’ascoltate in rime sparse
il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono;

del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ‘l van dolore
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

(RVF, I)

1. Innumerevoli sono le lecturae dedicate, nel corso dei secoli, al sonetto proemiale del Canzoniere petrarchesco. Il che denota l’importanza che i lettori dettero, subito, a questo componimento, visto come fondamentale nel corso dell’opera.
Un aspetto basilare di questo sonetto, che venne notato già a partire dal Cinquecento – ad esempio dal Castelvetro -, è la sua duplice natura di apertura e di chiusura di un testo:
come chiosava anche Carducci, che così esordiva nel suo commento al Canzoniere allestito insieme al Ferrari (Firenze, Sansoni, 1899, nuova ristampa con prefazione di G. Contini, ivi 1960): “Proemio; e dovrebb’essere epilogo, perché scritto negli ultimi anni quando il poeta si diè a raccogliere le sue rime”. Voi ch’ascoltate quindi assolveva, ad apertura del Canzoniere, ad una doppia funzione: presentava quello che stava per essere letto, e che infatti seguiva (i 365 componimenti successivi, il “libro” delle rime volgari), ma allo stesso tempo indicava un tracciato, dava in sintesi l’idea di un percorso che il lettore doveva intuire come già avvenuto, e recuperato, tappa dopo tappa, a ritroso.
Chiariamo subito l’importanza, anche storica, di questo fatto. Dopo il Canzoniere il componimento proemiale (molto spesso un sonetto, per evidente attrazione petrarchesca) divenne elemento costitutivo di ogni libro di rime che, raccolto dal suo autore, volesse anche avere un sostrato pur blandamente narrativo, trasmettere l’idea di una storia in svolgimento o già svolta che si intendeva ripercorrere per simboli lirici. Tanto per rimanere in ambito rigorosamente petrarchistico, anche la raccolta (ordinata dall’autore) delle Rime del Bembo (1530, 1535 e quindi, postuma, 1548) aveva un incipit che molto ricordava quello del Petrarca; e anch’esso, naturalmente, composto ad hoc, poco prima della princeps del 1530: “Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra, / ch’i ebbi a sostenere molti e molti anni / e la cagion di così lunghi affanni, / cose prima non mai vedute in terra…”. Come ha notato chi ha studiato proprio questo elemento nei “canzonieri” del secolo XVI, il sonetto proemiale era una composizione poetica non casuale né anodina, e anzi costituiva il primo tassello di riconoscimento per una raccolta di rime che non fosse, né volesse essere, messa insieme senza criterio. A tal punto che anche le antologie di rime, che si infittirono a partire dal 1545 soprattutto per i tipi del Giolito, a Venezia, avevano una sorta di proemio non solo ad apertura di volume (il primo testo del primo autore antologizzato non era mai lasciato al caso: nel 1545, per il primo di questi “libri antologici” di poesie, si trattava del Bembo), ma anche spesso ad apertura delle singole sezioni dei vari poeti antologizzati. L’incipit, insomma, costituiva la condicio sine qua non per una raccolta di testi poetici che fosse intenzionalmente portata a costituire un liber di poesie, un testo insomma unitario, e non una serie di testi sparsi.
La raccolta di poesie così concepita è ciò che si definisce un “canzoniere”: così si è sempre chiamata almeno negli ultimi quattro secoli sull’esempio petrarchesco per distinguerla dalle raccolte non volute dall’autore e allestite da altri, come ad esempio le Rime di Dante: anche se va detto che quello di Petrarca cominciò a chiamarsi Canzoniere solo nel Cinquecento, dopo che uscì nel 1516 un’edizione con questo nome – il titolo originale essendo, nelle varie stesure autografe e seppure con qualche variazione, Rerum vulgarium fragmenta (recentemente si è retrodatato il termine “canzoniere” alla fine del Quattrocento: ma, nella sua attuale accezione di libro di rime ordinato dall’autore e strutturato in macrotesto, esso è certamente cinquecentesco). In termini critici, un canzoniere è quindi, come appena detto, un “macrotesto”, secondo una nozione introdotta e studiata da Maria Corti (anche se originariamente applicata alla prosa), cioè un insieme di elementi strettamente legati fra loro, il cui significato generale travalica spesso quello dei singoli “pezzi”, e deve essere riconosciuto piuttosto nella sequenza che nelle singole unità. Così anche il sonetto proemiale può essere letto secondo una duplice dimensione: nella sua individualità, come elemento unico (e quindi ricercandone le fonti, la struttura e il bilanciamento interni, il significato, ecc.), e nell’ambito meno settoriale del making del Canzoniere, di cui è il preludio ma anche la sintesi. Che questo secondo modo di lettura sia legittimo lo annuncia già la prima coppia di versi: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri”. L’enjambement segnala la duplicità insita nel testo: il “suono” è, di fatto, la sintesi di quei “sospiri” e di quelle “rime sparse”. Unicità e molteplicità sono, quindi, la cifra distintiva di questo fondamentale sonetto, e la “chiave” per leggere il Canzoniere o, almeno, una delle “chiavi” possibili per entrare storicamente in quel testo.

2. E’ noto che, rispetto ad altre opere petrarchesche come le raccolte epistolari, il Canzoniere ha rapporti molto meno immediati con le vicende della vita del Petrarca. Tutti coloro che si sono interessati della “formazione” del Canzoniere in tempi moderni (da Wilkins a Gorni a Santagata) hanno rilevato però come, sia pure per metafore e interposti veli lirici, un sottile sostrato esistenziale corra continuamente sotto il tessuto stilistico e strutturale-compositivo del libro delle rime volgari. In questo senso, le raccolte e le opere latine (epistole e Secretum) e la raccolta di rime volgari rispondono a diverse, ma complementari esigenze di riflessione anche autobiografica. All’interno di questa ottica, il sonetto proemiale riveste un’importanza considerevole anche dal punto di vista biografico; e inoltre dà il tono a tutto il libro di rime, che solo dal momento dell’inserimento di questo testo nella sequenza di testi (sonetti, canzoni, ballate ecc.) inizia a mostrare una sua quasi definitiva o almeno senz’altro definita natura.
Quando fu composto il sonetto 1 dei Rerum vulgarium fragmenta? e, in subordine: quando entrò a fare parte del Canzoniere? Le risposte sono state molteplici, nel corso del tempo. Stando al più recente e convincente studioso delle varie “forme” del Canzoniere, Marco Santagata (nel suo volume I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere del Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992), il sonetto I risale probabilmente al 1349-50, con possibilità di arrivare al massimo fino all’inizio del decennio successivo: fu scritto, quindi, più o meno contemporaneamente alla lettera che apre le Familiares, indirizzata all’amico Socrate, cioè Ludwig van Kempen. Il fatto che Petrarca abbia composto a quella data il proemio indica, senza possibilità di dubbio, che a quell’epoca la raccolta dei vari “pezzi” del Canzoniere era già in fase avanzata. Anche a questo proposito è d’obbligo il riferimento agli studi filologici sul testo e sulla formazione del libro delle rime. Secondo Ernst H. Wilkins, lo studioso americano che ha dato maggior impulso a queste ricerche esaminando i due fondamentali manoscritti, in parte autografi, conservati alla Biblioteca Apostolica Vaticana (nn. 3195 e 3196, il secondo dei quali, detto anche “codice degli abbozzi”, contiene varie elaborazioni e stesure dei testi poi copiati sul 3195), la composizione del Canzoniere procedeva per successive “raccolte di riferimento” (composizioni raggruppate più o meno a caso, ma che avevano raggiunto un livello soddisfacente di elaborazione stilistica), che di volta in volta si “solidificavano” in vere e proprie “forme” di canzoniere: e cioè redazioni stabili, con testi già allineati secondo una successione non casuale, e destinate di volta in volta ad essere superate da altre, e successive, forme. Nove, per l’esattezza: dalla prima del 1342 alla nona e definitiva di pochi mesi prima della morte. Secondo Wilkins, questa prima “forma” non conteneva ancora il sonetto 1, ed aveva come proemio quello che attualmente è il son. 34, che contiene l’invocazione ad Apollo e l’identificazione di Laura con il “lauro” poetico (Apollo, s’anchor vive il bel disio). Si trattava, quindi, di una raccolta ancora abbastanza tradizionale (se questo aggettivo ha un senso, all’altezza della metà del XIV secolo), con in apertura l’invocazione al dio della poesia, così come in altre opere classiche – si pensi a Virgilio – l’invocazione iniziale era alla Musa. Con l’insediarsi del sonetto 1 all’inizio del Canzoniere, evidentemente veniva a modificarsi l’idea stessa dell’opera nel suo complesso, che ora diveniva una lunga riflessione sul passato: un po’ come, oltre mezzo secolo prima, era accaduto per la Vita nuova di Dante, tutta protesa a rileggere “il libro della memoria” dopo la morte dell’ispiratrice. Invece, ancora nella prima raccolta (quella con il son. 34 a fare da proemio), il mito della classicità predominava: sia per la presenza di Apollo, sia per la prevalenza del motivo “dafneo” (Laura-lauro: l’inafferrabilità di Dafne inseguita da Apollo e mutata in lauro veniva avvicinata a quella di Laura, quasi come in una metafora protratta). Erano del resto per il Petrarca, quelli intorno al 1342, gli anni della stesura dell’Africa, della laurea poetica in Campidoglio, del De viris e della riscoperta, più in generale, del mondo latino.
La vera storia del Canzoniere inizia, quindi, dopo: per l’esattezza, e seguendo ancora le indicazioni di Santagata, nel momento in cui il sonetto 1 entra nel corpo dell’opera, che proprio su quello si modella e a quello, in definitiva, si ispira per il significato generale dell’intera raccolta. Siamo, all’incirca, negli anni 1357-58, a cui risale la prima vera redazione dei Rerum vulgarium, quella che può essere davvero ritenuta come la reale fase di solidificazione del Canzoniere. E’ la cosiddetta “forma Correggio”, dal nome del destinatario Azzo da Correggio, che presumibilmente comprendeva già i componimenti 1-120, 122-142 e, nella seconda parte (quella cosiddetta delle rime “in morte” i testi dal 264 al 292; in più, aveva dopo l’attuale n. 120 una ballata poi espunta (Donna mi prega, oggi leggibile fra le rime “disperse”).

3. Torniamo alla data di composizione di Voi ch’ascoltate. Se è vero, come tutto sembra far supporre, che gli anni siano quelli intorno al 1349-50 (con possibilità di arrivare anche a qualche anno dopo), risulta evidente che a quel tempo la raccolta era già in corso, e che quindi il primo sonetto sia stato scritto ad hoc, cioè con la precisa intenzione di aprire il Canzoniere: quindi, con un intento strutturale. In altre parole, il progetto petrarchesco di una raccolta poetica di sole rime, ma con un sostrato narrativo-esistenziale e con una profonda intenzione memoriale, era già in fase piuttosto avanzata. L’obiezione, a questo punto, potrebbe essere (ed è stata, in effetti, nel corso degli studi) questa: nel sonetto non è mai citata la morte di Laura (che avvenne, com’è noto, durante la peste del 1348, la stessa del Decameron), e quindi il sonetto è presumibilmente anteriore a quella data. Ma, a parte che al v. 14 il “breve sogno” potrebbe, velatamente, rinviare proprio a questa morte, e che in Petrarca tutto è sempre molto indiretto, velato appunto, e che dichiarazioni così esplicite non ne troveremo mai, bisogna osservare un elemento determinante per capire il senso di questo libro: la morte di Laura non condiziona la genesi del Canzoniere, bensì la sua struttura. In altre parole: Petrarca non inizia a scrivere versi “per” la morte della donna; ma è senz’altro dopo quella morte che ha l’intuizione, poi progettualmente portata a compimento, del “libro” del Canzoniere. Il “prima” e il “dopo”, la grande bipartizione su cui poggia il volume, è un effetto di questa crisi esistenziale, e così la sua struttura memoriale. Al centro, un avvenimento lacerante e determinante; intorno, varie schegge di vita, ognuna delle quali “fermata” in una poesia, e che proprio da quella bipartizione e da quel lutto assumono nuova evidenza e un significato più esistenziale. Tutto, insomma, ruota intorno ad una morte mai esplicitamente descritta, e pure immanente, come un richiamo continuo alla caducità (il “breve sogno”).
Visto così, il Canzoniere appare proprio come il libro di un “reduce”. Un sopravvissuto alla morte (la peste del 1348, che portò via non solo Laura ma moltissimi amici del Petrarca, fra cui il cardinale Colonna, Sennuccio del Bene, Franceschino degli Albizi), e anche un esule: perché è proprio dopo quella data, nel 1351, che Petrarca decide di abbandonare la Provenza per stabilirsi a Padova, ospite di Francesco da Carrara. Il sonetto 1, e quindi tutto il Canzoniere in prospettiva, dà quindi il senso di una mutatio vitae, di una frattura fra passato e presente. Chi sta iniziando a narrare questa storia è uno che si fa storico del suo passato (“quand’era in parte altr’uom….favola fui gran tempo…”) e ne sente tutto il distacco, ma anche con grande nostalgia e sottile angoscia. Da qui l’ambiguità, anche stilistica e sintattica, che contraddistingue il testo, tutto giocato su consapevolezza e “vergogna”, ma anche profondamente intriso di ricordi e malinconia (“quanto piace al mondo è breve sogno”: si noti la sottolineatura della vanità e della caducità, ma anche del “piacere” purtroppo “breve”). Ovviamente, si dovrà sempre intendere questo “dissidio” non in senso romantico ante litteram, bensì in modo etico e storico, e filosofico: essendo il Canzoniere non una raccolta di versi sentimentali o psicologicamente attraversati dal compiacimento per il proprio dolore, ma una lunga riflessione sull'”io” nel mondo, esercitata su una serie di avvenimenti presi a simbolo di quella storia.

4. Passato e presente sono quindi i due interlocutori del poeta; sullo sfondo, il lettore, una figura evocata subito dal v. 1 (“Voi…”). L’apertura ha quindi una funzione “fàtica”, stabilisce un contatto fra autore e pubblico, quest’ultimo chiamato a testimoniare ciò che si dirà in seguito. Il lettore, perciò noi che anche oggi leggiamo, è una parte importante del testo, non un semplice e immoto spettatore. Si stabilisce così un circolo di “intendenti” che sono, sicuramente, i poeti lirici del tempo del Petrarca a cui egli esplicitamente si rivolge (“chi per prova intenda amore”), ma anche i lettori di ogni tempo, con una sottile ambiguità che fa, subito, di questo testo un testo “perenne”, cioè non legato ad una particolare condizione temporale, e quindi valido in ogni momento e in ogni luogo, universale (il che è, fra l’altro, una delle ragioni della sua “modernità”, e la causa dell’imitazione a cui venne sempre sottoposto da parte dei poeti per l’appunto detti “petrarchisti”, già a partire dal secolo XV). Tutto il testo è del resto sorretto dalle antitesi: abbiamo già visto quella, portante, fra passato e presente, e fra consapevolezza-pentimento e nostalgia; ma è fondamentale ribadire anche quella – altrettanto basilare, e su cui già ci siamo soffermati – tra molteplicità e unità. Le “rime sparse” danno un “suono”: i frammenti, quindi (non si scordi che il titolo originale del Canzoniere è Rerum vulgarium fragmenta), realizzano l’unità del “suono”, come tanti accordi producono una sola armonia. Molteplicità e unità sono quindi due elementi complementari, e non in opposizione: anche, si aggiunga, per merito di questa struttura bipartita fra vita e morte che bilancia i contrasti, e dà un senso compiuto anche alla frammentarietà. Sotto vive, evidentissimo, il “racconto” di quell’esperienza: il “romanzo”, la storia di una esistenza sub specie amoris, come del resto venne subito compreso da tutti gli imitatori, che proprio a quel supposto “romanzo” si ispirarono. L’importanza del “Voi…” iniziale è aumentata anche dalla posizione che il pronome ha nel verso (il primo posto), e dalla particolare costruzione sintattica dei vv. 1-8. Infatti, il “Voi…” è sganciato dal contesto sintattico (“Voi…spero trovar pietà”): è – contrariamente a quello che sembrerebbe ad una prima lettura – un vocativo, un appello al lettore, che rimane sospeso, vago. E’ un’altra indicazione significativa, che si coglie solo durante la lettura ma che è programmatica: il più grande libro di introspezione lirica dell’Occidente si apre non con un prevedibile “io”, ma con un invito all’alterità, ai lettori, a chi legge. Si stabilisce così un possibile rapporto fra l’esterno e l’intimo dello scrittore, che è appunto storico. Quasi un’avvertenza preliminare, insomma: come per dire che il “libro” che sta iniziando necessita di lettori attenti, da scegliersi nella cerchia dei poeti lirici che hanno parlato d’amore, e più in generale di coloro che quell’amore “intendono per prova”, e quindi più in generale conoscono, sanno cosa sia l’esistenza, la colpa, la riflessione e la ricerca del riscatto. Un pubblico allora non tradizionale, un pubblico diverso, un lettore “simile” al poeta (molti secoli dopo, Baudelaire avrebbe a sua volta parlato di lettore “ipocrita”, partecipe della stessa sensazione dello scrittore, complice). Se il poeta non è tradizionale, nemmeno il lettore lo deve essere: Petrarca, quindi, delinea anche un possibile pubblico “futuro”, molto simile al circolo umanistico dei nuovi studiosi e dei nuovi filosofi, lontano dal passato. Un poeta-filosofo, sembra dire Petrarca, necessita di un lettore-filosofo, con cui stabilire un patto, con cui dividere le lacrime e l’esperienza. E’ il pubblico, in sostanza, della nuova classicità volgare, che Petrarca sta fondando con le sue rime non frammentarie, ma raccolte in un organico complesso di rinvii colti e di suggestioni esistenziali, di riflessione e di slanci sentimentali.
La condanna morale, quindi, è apparentemente in primo piano nel testo proemiale. Ma proprio quella fondamentale antitesi fra passato e presente, fra piacere e breve sogno, fra lettore e pubblico indica anche un’altra, sostanziale sottolineatura nel testo e, quindi, nell’opera. Il poeta rappresenta se stesso in questo sonetto come uomo alla svolta della sua vita, ma ancora implicato nel passato (“in parte altr’uom da quel ch’i sono”), che riflette sulla sua esperienza con “vario stile”, e quindi ancora alla ricerca di un’unità, e con tuttora le ferite aperte del suo ieri “piango e ragiono”). Il pentimento, la conoscenza, la vergogna con cui il sonetto si chiude non possono però far dimenticare questa fondamentale idea della ricerca “in atto” di una soluzione: diversamente da Dante, a cui certo molti dei testi – soprattutto nella prima parte – del Canzoniere rinviano, che riferiva della sua esperienza nella Commedia solo “dopo”, una volta ritornato nel mondo dei vivi e purificato, Petrarca è ancora alla ricerca del senso di questi “sospiri”. Il presente, l’età della consapevolezza e della conoscenza, reca quindi ancora con sé più d’una traccia di quel passato; la memoria, elemento determinante in questo testo, ancora è capace di suscitare la “vergogna”. Il senso del libro starà appunto nel cercare, agostinianamente, di raccogliere quelle sparse vicende, di dare un senso a quell’esperienza dispersa, frammentaria, e di riscattare nell’unità la molteplicità, di creare l’uomo nuovo capace però ancora di avvertire tutta la forza della propria memoria.

NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.2.1993 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.