Wittgenstein fuori cliché

È divenuto celebre il principio formulato da Ludwig Wittgenstein nel suo “Tractatus logico-philoso-phicus”: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. L’invito alla consapevolezza dei propri limiti non poteva essere meglio formulato. Quasi tutti, però, ne hanno dato un’ altra lettura, come se venisse a coincidere con l’asserzione secondo cui “possono essere dette, e chiaramente, solo proposizioni matematiche, logiche o attinenti le scienze empiriche”. Il “Tractatus”, edito nel ’21, divenne il libro più letto e discusso dai neo-positivisti del Circolo di Vienna, il loro testo base; e tuttavia essi non intesero il doppio registro di quel libro. Il filosofo viennese – ingegnere aeronautico, volontario sul fronte italiano e prigioniero di guerra – fu sconvolto dalla lettura del Vangelo. Egli allora decise di vivere nella più grande semplicità. Volle insegnare in una scuola elementare dal ’20 al ’26. In seguito, senza entrare nell’ordine, passerà qualche tempo come aiuto-giardiniere in un convento benedettino, dormendo nel ripostiglio degli attrezzi. Finì col cedere alle insistenze degli amici e si trasferì a Cambridge, dove insegnò dal ’29 al ’47, ma non mutò in nulla il suo nobile stile di vita. Durante la seconda guerra mondiale lavorò come infermiere in un ospedale londinese. Morì il 29 aprile 1951 e le sue ultime parole furono un atto di ringraziamento: “Io ho avuto una vita meravigliosa.”

Nel ‘53 apparvero le “Ricerche filosofiche”, a cui aveva lavorato per oltre un trentennio. Colui che per tutta la vita aveva difeso personalmente la religione contro i suoi più irriducibili e angusti detrattori, i neopositivisti, che pure affermavano di avere per maestro il “primo” Wittgenstein, non era certo un positivista. Nelle “Ricerche” egli critica le interpretazioni riduttive del celebre principio del “Tractatus” perché il linguaggio non è univoco, bensì polivalente. Se è così, non è, quindi, possibile passare da un piano linguistico ad un altro; né l’analisi logico-linguistica conduce necessariamente alla vera realtà. Qui, anzi, stanno le vere difficoltà. “La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio” (n.109, a pag.66 nella trad. it. Einaudi Reprints). Norman Malcolm, interprete e conoscitore personale di Wittgenstein, ha scritto: “Wittgenstein non rigettava il metafisico, rigettava piuttosto la possibilità di constatare il metafisico”. Se è così, l’affermazione fatta dal filosofo viennese a P. Engelmann, secondo cui “la parte più importante del “Tractatus” è ancora da scrivere” sta a significare che la religione, l’etica e l’arte – le cose cioè che non si possono enunciare in un linguaggio fisico-matematico – sono i problemi più importanti con cui si misura inevitabilmente ogni autentica filosofia. “Noi sentiamo – scrive con forza Wittgenstein – che, una volta che anche tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure stati toccati”. Nelle ultime proposizioni del “Tractatus” egli ha ritrascritto la domanda metafisica per eccellenza (“perché l’essere e non il nulla”) e ci ha fatto intravedere anche la via da battere per cercare la risposta: “Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è” (6.44); “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” (6.522). Commenta David Pears: “Dunque per Wittgenstein ciò che può essere detto sui grandi problemi non è affatto empirico. E tuttavia si rivela attraverso il mondo dei fatti”.

Nella trasformazione che il pensiero di Wittgenstein subisce dopo il “Tractatus” non giocano solo motivazioni di tipo epistemologico o linguistico: operano anche motivi diversi, in fondo di carattere etico, come la consapevolezza che la vita è qualcosa di assai più ampio rispetto alle pretese mitiche, ma in realtà riduzionistiche, del linguaggio scientifico, come ha dimostrato Diego Marconi nel suo lavoro sul filosofo viennese, “L’eredità di Wittgenstein”, (Laterza, Bari, pp.172). Da qualche tempo si sono accesi i riflettori su un uomo così schivo e “francescano” come Wittgenstein, perché in alcune pagine di diario del periodo di guerra accenna a fantasticherie e tentazioni che gli si erano affacciate alla mente e che egli sentiva di dover allontanare da sé. All’indubbia sincerità di Wittgenstein non ha fatto riscontro l’intelligenza, né il senso di discrezione di troppa gente a cui non par vero di trovare un alibi alla propria meschinità. Pochi, invece, hanno notato che la chiave per capire e collegare il “primo” e il “secondo” Wittgenstein, il tratto comune che unisce l’uno all’altro, è in una grande pagina dei “Quaderni 1914-1916” riportati nell’edizione einaudiana del “Tractatus”. La pagina è datata 11.6.1916. Eccola. “Che so di Dio e del fine della vita? Io so che questo mondo é. Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo. Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso. Che la mia volontà è buona o è cattiva. Che dunque, bene e male ineriscono in qualche modo al senso del mondo. Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita”.

Giornale di Brescia, 9.8.1988