Wittgenstein, un genio tra perfezione e tormento

Pochi filosofi sono stati cosi schivi e indifferenti alla causa della propria “fama” come Ludwig Wittgenstein, e pochi sono stati nel Novecento altrettanto celebri quanto lui. L’influenza esercitata dal suo pensiero sulla filosofia di questo secolo è stata, infatti, enorme. Questo non è che uno dei paradossi della sorte toccata a Wittgenstein: ma ben più interessanti sono le tensioni che attraversano la sua stessa esistenza, le sue scelte etiche, i piani della sua ricerca sempre in bilico tra le rarefatte proposizioni logico-matematiche ed un misticismo tanto profondo quanto non ostentato. Dopo la scomparsa di Wittgenstein nel 1951 (era nato a Vienna nel 1889) il primo profilo biografico del filosofo fu tracciato da Elizabeth Anscombe, sua allieva e seguace, da Rush Rhees, e da Georg H. von Wright. Il risultato fu una “memoria” esemplare, impersonale, volutamente priva di partecipazione affettiva e di qualsiasi riferimento alle vicende private di Wittgenstein.
Ma già allora, per un disegno difficile da interpretare, quella prima “memoria” per così dire accademica, dopo la prima pubblicazione in rivista, fu costantemente affiancata ad un’altra “memoria” scritta da un allievo americano di Wittgenstein, Norman Malcolm, che tracciava del maestro un ritratto niente affatto aulico. Il confronto fra le due “memorie” contribuì non poco a porre il problema di chi fosse in realtà Wittgenstein uomo e filosofo: riservato e bisognoso di affetto come un bambino, docente universitario e maestro elementare, anima affascinata dal Vangelo e stravagante sostenitore della estraneità del proprio corpo alla sua anima. E non posso negare un moto di spontanea, profonda simpatia per il filosofo che preferiva i serrati racconti polizieschi americani alla lettura della celebre rivista “Mind”, espressione dei maitres à penser del mondo accademico: un mondo per lo più tronfio e ripetitivo fino alla noia. E non senza ragione: i veri gialli contengono, infatti, molta più intelligenza e stimoli filosofici. La conclusione fu che bisognava saperne di più e che le ricerche bisognava farle nelle più diverse direzioni. Cominciarono allora ad apparire gli scritti inediti di Wittgenstein, successivi all’unico libro pubblicato in vita, il “Tractatus logico-philosophicus”, che è la sua cosa più celebre, ma ai miei occhi non la più profonda. E cominciò, inesorabile, lo scavo impietoso sui risvolti più inquietanti della sua vita.
Ed ecco che, dopo il primo volume della monumentale opera su Wittgenstein messa in cantiere da Brian McGuinness, esce ora la più completa biografia del filosofo viennese, “Wittgenstein – Il dovere del genio”, scritta da un giovane studioso, Ray Monk, non più legato, come la prima generazione dei discepoli, all’obbligo morale di tacere quel che non era opportuno dire e, nello stesso tempo, in grado di avere la collaborazione dei tre esecutori testamentari, coautori, come si è detto, della prima e più asettica “memoria” sul loro maestro. L’opera di Monk, sollecitamente tradotta in italiano dalla Bompiani, è ampia, di oltre seicento pagine, ma di scorrevole lettura ed è assai ben documentata. Wittgenstein era l’ottavo ed ultimo figlio di una facoltosa famiglia della Vienna asburgica, che aveva assunto quel cognome, col bisnonno di Ludwig, in ottemperanza al decreto napoleonico del 1808 che imponeva agli ebrei l’adozione di un nuovo cognome. Era, dunque, anche lui, come tanti altri grandi, di razza ebraica. Eppure era e si sentiva soprattutto austriaco, anche dal punto di vista razziale oltre che per formazione e cultura. Come reagisce Wittgenstein allo scoppio del conflitto mondiale? A quanto sembra pensa prima ad abbandonare l’Austria, ma subito dopo s’incammina per la direzione opposta: pur essendo esonerato dal servizio militare obbligatorio, a causa di un’ernia bilaterale, si arruola nell’esercito come volontario. Perché lo fece? La chiave di spiegazione sta forse in queste note del suo diario: “Forse la vicinanza della morte mi porterà la luce della vita. Dio mi illumini!”. Insomma Wittgenstein s’aspettava dalla guerra – come i nove decimi degli intellettuali europei – la trasformazione della sua esistenza, una forma di esperienza religiosa che gli avrebbe cambiato la vita in modo irreversibile. E la conversione religiosa venne.
Nel primo mese trascorso in Galizia il soldato Wittgenstein ebbe l’occasione di entrare in una libreria dove trovò un unico libro: “Spiegazioni dei Vangeli di Tolstoj”. Ne fu affascinato. Divenne il suo talismano, che portò sempre con sé nei vari spostamenti. E insieme al Tolstoj semplificatore dei Vangeli diventa ben presente nella sua mente e nel suo cuore l’altro russo, il Dostoevskij dei “Fratelli Karamazov”, opera quest’ultima che Wittgenstein leggeva e rileggeva così spesso da conoscerne interi passi a memoria, e in particolare quanto diceva lo starec Zosima, che ai suoi occhi era il rappresentante di un vigoroso ideale cristiano, un uomo santo “in grado di guardare direttamente nell’animo degli altri”. Quando partì per il fronte, a fine marzo del 1916, fra le pochissime cose che costituivano per lui lo stretto necessario c’era una copia dei “Fratelli Karamazov”. Gli episodi della romanzesca vita di Wittgenstein – un uomo perennemente teso alla ricerca del rigore logico e della perfezione morale, ma anche scisso interiormente e afflitto da un insuperato sentimento di angoscia – sono tanti e tutti sono situati nella loro giusta cornice. Ray Monk ha assolto con rigore ed equilibrio critico il suo compito; e le doti di Monk risaltano in particolare quando affronta un argomento doloroso come quello dell’atteggiamento di Wittgenstein di fronte al sesso. La discrezione non é per lo più la virtù di un biografo, ma Monk ha saputo rendere a noi più caro Wittgenstein, nel suo incessante esercizio di perfezione e nel suo tormento.

Giornale di Brescia, 18.1.1992.