Agostino

«In interiore homine habitat veritas» (Agostino)

LA VITA, LA PERSONALITÀ, LE OPERE

A Tagaste, l’odierna Souk-Ahras, nell’entroterra dell’Africa settentrionale, in Algeria, nel 354 nacque Agostino. Tagaste sorgeva a settecento metri di altitudine e distava duecento miglia dal mare. Da fanciullo, ricorda Agostino, «potevamo immaginarci il mare, vedendo l’acqua in un piccolo bicchiere» (Epistulae, 7, 3, 6). Romano d’Africa, africano di pura razza berbera[1], Agostino era figlio di un piccolo proprietario terriero, tenuis municeps, cittadino di scarsi mezzi. Sulla sua adolescenza grava l’effettiva povertà di mezzi dei suoi genitori, i quali, però, con «ostinata risolutezza» (Confesssiones, I, 13) volevano assicurare al figlio l’educazione classica, la sola via per affermarsi nella vita e sottrarsi all’inesorabile processo di proletarizzazione a cui era avviata la gente della loro condizione. I suoi familiari facevano di tutto per risparmiare e racimolare un po’ di danaro ed erano costretti anche a vestirsi miseramente (Sermo, 356, 3) per mantenerlo agli studi a Madaura; malgrado tutto, non poterono però farglieli continuare a Cartagine. Agostino aveva allora sedici anni ed era «un ragazzo di belle speranze» (Conf., I, 14); ma l’anno di forzata sospensione degli studi divenne per lui occasione di vita scioperata. Dominato da un inquieto bisogno di amare, incapace di mantenere la piena dei sentimenti entro «il confine luminoso dell’amicizia», egli desiderava la compagnia dei coetanei e non voleva apparire da meno di essi anche nelle ribalderie. La generosità di Romaniano, gran signore di Tagaste, si aggiunse ai sacrifici dei familiari e Agostino poté recarsi finalmente a frequentare la scuola di retorica a Cartagine. Qui la dissipazione degli amorazzi e degli spettacoli continuò per qualche tempo, ma Agostino studiò sodo e si tenne lontano dai «sovvertitori (eversores)», sebbene farne parte fosse ritenuto «un modo insigne di essere alla moda» (Conf., III, 3). Due fatti nuovi modificarono considerevolmente la sua vita. Conobbe e amò una giovinetta che divenne la sua donna e che gli diede un figlio, Adeodato: a lei Agostino serbò assoluta fedeltà per quattordici anni, e ciò attesta la nobiltà del suo carattere e l’efficacia, sia pure parziale e indiretta, dell’educazione cristiana ricevuta nei primi anni dalla madre Monica. Tuttavia, egli allora non anelava che ai piaceri, agli onori, alle ricchezze. Era il suo un orizzonte troppo angustamente terrestre. Verso il diciannovesimo anno, la lettura dell’Ortensio di Cicerone lo sveglia dal torpore spirituale e gli rivela la bellezza di un sapere disinteressato. Gli fa capire che beato non è chi ha ciò che ama, se non ama ciò che deve amare; che «amare ciò che non conviene è già di per sé una grande miseria (velle quod non decet, id ipsum miserrimum est)» e che si deve «amare, cercare, conseguire, possedere, abbracciare fortemente la sapienza», non già questa o quella setta, ma la sapienza vera, qualunque essa sia (Conf., III, 4). Dalla vacua mondanità Agostino si è convertito alla interiorità della coscienza morale e, nella ricerca dell’agognata sapienza, tenta una prima lettura della Bibbia. L’esito è disastroso. Il giovane studente, risvegliato a se stesso dalla recente lettura di Cicerone e sollecitato dalla fiducia nella capacità della ragione, rifiuta della Scrittura la sostanza, «velata di misteri», e la forma, «indegna di essere paragonata alla maestà tulliana» (Conf., III, 5).

Fallito questo primo tentativo, Agostino si imbatte nel manicheismo e vi aderisce, anche se non totalmente. Il manicheismo ebbe il suo fondatore in Mani, ucciso nel 277 perché accusato di distruggere la religione mazdea del suo paese, la Persia. L’assenso di Agostino al manicheismo non fu mai pieno (Conf., VIII, 7) e nondimeno la sua attività propagandistica a favore di quella setta fu estesa e focosa. Il duplice inganno, di sé e degli altri, è così ricordato da Agostino: «Durante nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, eravamo sedotti e seducevamo, ingannati e ingannatori» (Conf., IV, 1). Due soprattutto furono i motivi che indussero Agostino a farsi manicheo. In primo luogo, perché i manichei ostentavano il loro razionalismo. Essi avevano, infatti, la pretesa di spiegare tutto con la forza della pura ragione («mera et simplici ratione», De util. credendi, I, 1, 2) e di offrire una versione coerente e unitaria dell’universo, delle vicende storiche, delle Scritture. Sul giovane professore questo richiamo fu forse il più forte: era facile scambiare l’illusorietà di un razionalismo onnicomprensivo con le esigenze dello spirito critico risvegliato in lui con il mutare dell’età e col progredire degli studi[2]. In secondo[3] luogo, sul problema del male i manichei sembravano offrire la soluzione apparentemente più semplice, quella dualistica, la quale lusingava naturalmente la irresponsabilità cui si abbandonava il giovane Agostino. Per i manichei il male è una realtà sostanziale nell’universo e pertanto un Dio buono non può aver creato questo universo, che invece è prodotto dal principio stesso del male opposto al Dio buono; anche l’uomo ha due anime, due volontà in conflitto tra loro, corrispondenti ai due principi che si sono incontrati in lui e che continuano a combattersi nella sua coscienza. «Ero dell’idea che non io peccavo, ma qualche altra natura dentro di me. Preferivo scusare me stesso e accusare qualche altra cosa che era in me, ma che non ero io» (Conf., V, 10).

Agostino in quel tempo era un materialista, del tutto incapace di concepire una qualsiasi realtà spirituale e ancor meno Dio come spirito e tuttavia confidava che «sotto quegli involucri di dottrine, i manichei celassero qualcosa di grande che un giorno avrebbero svelato» (De beata vita, 4). La fiducia riposta nella dottrina manichea fu scossa dalle discussioni di Elpidio (Conf., V, 11) e dalle argomentazioni di Nebridio. Questi chiedeva ai manichei se Dio dovesse esser concepito corruttibile o incorruttibile: se corruttibile, ciò di cui si parla non è l’Assoluto, ma qualcos’altro; se incorruttibile, cadono nel nulla le fantasticherie sulla sostanza divina mescolata al principio opposto da cui è corrotta e da cui attende di essere liberata (Conf., VII, 2). Ampliando la sua cultura con la lettura dei filosofi, Agostino percepì nettamente la superiorità delle loro dottrine sui racconti favolosi di Mani. Né gli vennero lumi dai colloqui col vescovo manicheo Fausto di Milevi, venuto a Cartagine nel 383. Anzi la delusione provata fece nascere in lui il proposito di non difendere più la setta col solito calore e di restarvi finché non gli balenasse un’altra credenza meritevole di essere abbracciata (Conf., V, 10, 7).

In quel tempo il professore di retorica tenta la grande avventura: cerca a Roma la possibilità di una vita più calma e meno mediocre. Agostino fugge a Roma, con una partenza resa drammatica dall’inganno teso a sua madre; ma il soggiorno nella città eterna tradì le sue aspettative. Se gli alunni cartaginesi erano turbolenti e commettevano prepotenze ed insolenze di ogni genere, gli studenti romani erano afflitti da un altro vizio: frequentavano le lezioni di un insegnante, poi, senza pagare l’onorario pattuito, se la squagliavano e andavano da un altro. Gli amici manichei ottennero da Simmaco, allora prefetto di Roma, che Agostino fosse ammesso alla prova di declamazione e nominato professore di retorica a Milano, capitale dell’Impero d’Occidente. Agostino fu ben felice di portarsi a Milano, dove presto lo raggiunsero la donna amata con il figlio e, più tardi, la tenace Monica. Ma nel suo animo c’era tempesta e incertezza: ormai la crisi manichea era divenuta ansia dolorosa di chi dispera di poter raggiungere la verità. Le suggestioni della filosofia stoica non gli bastano (Conf., V, 14) e, ignorando la speculazione platonica, gli si affaccia il pensiero che la via giusta fosse quella degli scettici: non resta che il beneficio del dubbio a chi non può conoscere verità alcuna. Questo stato d’animo, inquieto ed incerto, non si irrigidì mai in uno scetticismo sistematico, anche se non fu cosa di breve momento, poiché caratterizza la vita di Agostino si può dire dal tempo del colloquio con Fausto di Milevi al primo periodo del soggiorno milanese. Agostino è tentato anche di darsi alla dottrina di Epicuro (Conf., VI, 16). Egli è avverso al cattolicesimo, perché imbevuto della propaganda avversaria, ma non è più gonfio delle illusioni razionalistiche, che avevano nutrito la sua adesione alla setta; tuttavia è ancora materialista e dualista. Il suo spirito annaspa nel buio, non vedendo una via d’uscita: «diffidavo e disperavo di scoprire la verità (diffidebam et desperabam de inventione veri)»[4].

A Milano in quegli anni difficili grandeggia un autentico uomo di Dio, Ambrogio. Agostino ne segue la predicazione, quasi per dovere d’ufficio, solo per giudicare la sua eloquenza; ma ascoltare Ambrogio era un momento pieno di significato per chiunque. Lo fu anche per il retore africano, che aveva perduto le sue false certezze e forse proprio per questo, malgrado la confusione e i gravi errori che affliggevano il suo animo, era «disposto più di chiunque altro ad imparare» (De utilit. Credendi, 8, 20). L’influenza di Ambrogio fu insieme distante e provocante. Egli dissipò con la sua parola l’interpretazione manichea dell’Antico Testamento, fugò ogni antropomorfismo nella concezione di Dio, insegnò ad Agostino a cercare nella rivelazione lo spirito animatore e non il significato letterale. Nei discorsi del vescovo di Milano il materialista Agostino nota che «quando si pensa a Dio e all’anima, non si deve pensare nulla di corporeo» (De beata vita, 4). Così, a poco a poco, la dottrina cattolica gli appare non più vinta, sebbene non sia ancora vincitrice. L’agitazione interiore non trova ancora l’approdo a cui pure tende. La Sacra Scrittura e la chiesa che la comunica e l’avvalora appaiono sempre più ai suoi occhi non una stoltezza, ma l’unica via per arrivare alla salvezza (Conf., VII, 5 e 7). La mente ha, però, bisogno di luce razionale per superare in maniera esplicita il duplice, persistente ostacolo: il materialismo, che gli impediva di concepire Dio come spirito, e il dualismo, che rendeva impossibile la soluzione del problema del male. La lettura di alcuni libri di Plotino e di altri filosofi neoplatonici, offertigli da un amico nella traduzione latina di Mario Vittorino, gli dà il colpo d’ala: lo libera dalla mentalità materialistica e lo aiuta ad intendere alcuni presupposti razionali del Cristianesimo, quali la realtà spirituale di Dio e dell’anima e il principio di interiorità, cioè della dimensione propria dell’uomo, che, in quanto coscienza, non è una forma vuota, né si identifica totalmente con la trama dei legami che lo connettono agli altri, ma è soggetto capace di rapportarsi a se stesso, di prendere possesso di sé mediante la ragione, per diventare quel che deve essere e per ascendere dalla sua interiorità a Dio (Conf., VII, 10). Agostino, spinto dall’entusiasmo e già preparato dal clima culturale dominante nell’ambiente cristiano e dai discorsi di Ambrogio, al quale il pensiero neoplatonico era tutt’altro che estraneo, lesse in Plotino molte verità che gli venivano da altra fonte, pur avendo compreso che i platonici non potevano aiutarlo ad intendere né l’essenza del Cristianesimo, né le vie dell’umiltà e della salvezza. In questo cammino gli sarebbe stato di guida san Paolo, le cui lettere egli lesse allora attentamente e avidamente. Agostino aveva anche conquistato per sempre un nuovo punto di vista sul problema che lo aveva affaticato più di ogni altro sin dalla prima adolescenza: il male non è sostanza, ma privazione e deviazione (Conf., VII, 11). Dopo tredici anni di appassionata e tormentosa ricerca, gli ostacoli di carattere intellettuale erano superati ed egli ormai aderiva con intima persuasione al Cristianesimo (Conf., VII, 21 e VIII, 5); ma non gli riusciva di prendere la decisione che muta l’esistenza. Simpliciano, il vecchio ed autorevole prete milanese a cui aveva aperto il suo animo, gli narra la conversione di Mario Vittorino, il traduttore di Plotino e di Porfirio. Il corregionale Ponticiano, più tardi, ignaro dello stato d’animo dell’amico, gli parla di due suoi compagni divenuti seguaci dell’ideale della perfezione cristiana, dopo aver letto la Vita di sant’Antonio scritta da Atanasio. Agostino ignorava l’esistenza stessa del monachesimo; ma in quel giorno estivo del 386, partito Ponticiano, la lotta silenziosa con se stesso raggiunge il massimo di tensione. Portatosi nella parte più remota del giardino, testimone discreto l’amico Alipio, il tumulto dell’anima si scioglie nel pianto. Una voce infantile cantilena: «Prendi e leggi; prendi e leggi (Tolle, lege; tolle, lege)». Egli apre le lettere di Paolo e si imbatte nel capitolo 13 della Lettera ai Romani (vv. 13-14): era l’esortazione alla castità. Cadono le ultime titubanze. La conversione, la rinuncia dolce e totale è compiuta. «Balenò nel cuore come una luce di serenità che fece scomparire tutte le tenebre dell’incertezza» (Conf., VIII, 12).

Nel ritiro di Cassiciàco, a una trentina di chilometri da Milano, nella campagna della Brianza, in una piccola comunità di amici, di cui fanno parte anche la madre Monica e il figlio Adeodato, Agostino, che era stato così impacciato e stentato nel comporre, nel suo ventisettesimo anno, il trattatello di estetica De pulchro et apto («Del bello e del conveniente»), scrisse i dialoghi Contra Academicos («Contro gli Accademici»), a confutazione dello scetticismo, il De beata vita («Sulla vita beata»), il De ordine e quella singolare anticipazione del capolavoro autobiografico che è costituita dai Soliloquia («Conversazioni con me stesso»). Era l’inizio di un’attività prodigiosa che doveva durare fino alla morte, nonostante le pressanti incombenze cui dovette sobbarcarsi in misura crescente col passar degli anni. Ricevuto il battesimo nella Pasqua del 387 dalle mani di Ambrogio, decide di tornare in patria. Durante il viaggio di ritorno, ad Ostia la madre muore dopo un sublime colloquio col figlio sulla vita futura. Agostino si ferma a Roma sino all’autunno del 388.

Tornato in Africa, dopo una breve sosta a Cartagine, raggiunge Tagaste, dove attua senza indugio il suo programma di vita, costituendo una piccola comunità monastica di laici fondata sulla preghiera, lo studio e il lavoro manuale. Continua con inesausta vena la sua attività di scrittore: tra la fine del 388 e l’inizio del 391, termina infatti il De musica, già iniziato a Milano, un trattato di metrica latina cui avrebbe voluto aggiungere uno studio sulla melodia; prosegue nella stesura del De libero arbitrio sull’origine del male; pubblica due opere di forte rilievo, il De magistro («Sul maestro»), un dialogo col figlio Adeodato sul problema dell’insegnamento, e il De vera religione. In quegli anni, dai problemi che Simpliciano, succeduto ad Ambrogio, sottopone ad Agostino nasce l’opera, pubblicata però più tardi, De diversis quaestionibus 83 («Su 83 diverse questioni»). Dopo la prematura morte di Adeodato, pensava di allontanarsi da Tagaste, per sottrarsi ai troppi incarichi che i suoi concittadini gli affidavano, ma il corso della sua vita sarebbe stato ben diverso dai progetti che egli andava accarezzando. Recatosi a Ippona, l’attuale Bona, per cercare un posto dove fondare un monastero per viverci con i suoi confratelli, entrò per caso nella Basilica pacis mentre il vescovo Valerio parlava dell’urgente bisogno che gli si affiancasse un presbitero. Gli occhi dei fedeli si volsero su Agostino che era in mezzo a loro, nella navata: egli era ormai noto in Africa per dottrina e santità di vita. Lo afferrarono e lo presentarono al vescovo, chiedendo ad alte grida, con un procedimento tumultuoso, allora non insolito, che lo ordinasse sacerdote. Agostino paventava la responsabilità del ministero sacerdotale e fece di tutto per esimersi. In un’occasione del genere un altro grande, il dalmata Gerolamo, accettò l’ordinazione sacerdotale, ma non la cura d’anime; Agostino, invece, si assoggettò senza riserve al servizio del popolo. Fu la sua «seconda conversione ». Il nuovo sacerdote volle restar monaco e continuò ad essere l’anima di una comunità che ebbe la sua sede ad Ippona, nel giardino recintato della chiesa maggiore. Da quella comunità sarebbero usciti i sacerdoti e i vescovi di quasi tutta l’Africa. Al concilio della chiesa africana, svoltosi ad Ippona nel 393, toccò proprio alla nuova recluta illustrare il Credo ai vescovi. Contro ogni opposta disposizione e vincendo tenaci resistenze, Valerio nel 396 ottenne che Agostino fosse consacrato vescovo coadiutore e designato come suo successore. Agostino aveva allora quarantaquattro anni. Sarebbe stato vescovo di Ippona per trentacinque anni. La «soma» delle responsabilità di un vescovo («episcopalis sarcina», Ep., 86) – e in una città che, fra l’altro, era insidiata dalla forte presenza di un’aristocrazia pagana e di eretici violenti, pronti a tutto – era allora assai pesante. La società era in totale sfacelo e toccava al vescovo anche l’esercizio dell’attività giudiziaria. Agostino era letteralmente assalito: folle di litiganti, pagani ed eretici non meno che cattolici, lo tenevano occupato più giorni la settimana, dalle prime ore del mattino fino al tardo pomeriggio, talora obbligandolo a saltare il pranzo. Egli, infatti, offriva proprio quello che tutti volevano: la soluzione gratuita, rapida e incorrotta delle loro controversie, un giudizio fermo e chiaro. Ma Agostino ne soffriva. Così pure, con fastidio e con scrupolo non minori, egli era costretto a curare l’amministrazione dei beni ecclesiastici della sua diocesi[5]. Nonostante la salute malferma, Agostino esercitò sino alla fine il ministero della parola («ministerium verbi»), con dedizione e costanza incredibili, e non solo ad Ippona. Dai documenti di cui possiamo disporre, per portare un esempio, sappiamo che tra la primavera e l’autunno del 418, a sessantasei anni suonati, Agostino percorse duemila chilometri a cavallo, sul duro selciato delle strade romane, per assolvere impegni di predicazione[6]. Si adoperò con ogni mezzo per l’educazione del clero e per l’organizzazione del monachesimo, di cui fu il fondatore e il maestro in Africa, dov’era fino allora sconosciuto, scrivendo anche una «Regola» che precede di oltre un secolo quella benedettina.

La sua grande pietà di pastore lo vide assiduo nell’assistere gli infermi, gli orfani, i poveri e nell’intercedere in difesa degli umili e dei perseguitati presso le autorità civili e militari («apud saeculi potestates»). Al centro del dibattito religioso dell’epoca, e non solo nella chiesa d’Africa, che non a caso proprio in quegli anni fu alla leadership del cattolicesimo, Agostino partecipò a innumerevoli incontri con l’episcopato africano, sebbene non amasse affatto viaggiare e lasciare Ippona, ed ebbe un intensissimo scambio epistolare con quanti si rivolgevano a lui. Spesso la lettera diventava un saggio e talora un vero e proprio trattato, quando le questioni su cui era interpellato erano particolarmente impegnative.

La lotta contro le eresie, tra le più virulente apparse nella storia della chiesa, fu lunga e difficile. In essa si possono distinguere tre fasi: dal 396 al 400 contro il manicheismo, dal 400 al 411 contro il donatismo, dal 411 al 430 contro il pelagianesimo. Contro il manicheismo, la setta nella quale egli era stato irretito per nove anni, Agostino fu il filosofo dell’essere, della non sostanzialità del male, della creazione, della libertà dell’uomo, dell’unicità e della somma bontà di Dio. Ma i manichei non erano realmente cristiani, a causa del loro dualismo cosmico e del loro sincretismo. Il donatismo, uno scisma fortemente organizzato, costituiva il più grosso problema per la chiesa africana da almeno un secolo. Esso era nato in seguito a un’elezione discorde, ma traeva la sua forza da un atteggiamento puritano di fiera separazione fra «la chiesa dei santi e dei martiri», la loro, e «la chiesa contaminata dai traditori», la chiesa cattolica che aveva perdonato e riammesso nella comunità coloro che durante la persecuzioni non erano stati pronti al sacrificio della vita. Ma al di là delle questioni di fatto, c’erano gravi questioni di principio da chiarire fino in fondo, e Agostino lo fece con instancabile energia e carità, in pubblici contraddittorii, con lettere e libri che prepararono la fine dello scisma assai meglio che non le disposizioni repressive dell’autorità politica, emesse dopo il rinnovarsi di barbare atrocità contro i cattolici. Agostino stesso sfuggì a un agguato tesogli dai «circoncellioni», i più arrabbiati dei donatisti, solo per aver cambiato strada (Possidio, Vita s. Augustini, 12). Nel confronto con i donatisti Agostino elaborò una teologia ecumenica nel vero senso della parola, i cui principi fondamentali sono applicabili in pieno ai cristiani separati anche del nostro tempo[7].

Dottore della Chiesa contro i donatisti, Agostino fu «il dottore della grazia» nella insidiosa controversia con Pelagio e con alcuni dei suoi seguaci. Pelagio era come Agostino un provinciale. Venuto a Roma dalla Britannia, si era rifugiato in Africa nel 411, fuggendo davanti ai barbari invasori condotti da Alarico. Non sacerdote, ma asceta severo, moralista scrupoloso, il monaco Pelagio poneva talmente l’accento sullo sforzo che l’uomo deve compiere per la propria salvezza da minimizzare e rendere superflua la grazia redentrice di Dio. Il pelagianesimo era una sorta di stoicismo cristiano, che esaltava tanto il libero arbitrio da vanificare la grazia, lo scandalo della croce, il mistero insondabile della salvezza. Il messaggio etico-religioso di Pelagio pecca di rigorismo, di semplicismo, di ottimismo astratto. «Giacché la perfezione è possibile per un uomo – egli afferma – essa è obbligatoria». Agostino, impareggiabile indagatore della grandezza e della miseria dell’uomo, acutamente consapevole dell’umana fragilità, nega che la grazia sia nient’altro che l’attribuzione all’umana natura del libero arbitrio e che la libertà possa quasi fare del cristiano un uomo che basti a se stesso e non abbia bisogno di Dio, come se Dio fosse un pater familias dell’antico diritto romano dalla cui dipendenza ci si debba sottrarre per affrontare il mondo da individui liberi e maturi. Lo scontro fu durissimo e Agostino fu trascinato talora dalla polemica ad asprezze dottrinali che l’ortodossia cattolica non inglobò mai nella sua concezione. L’infaticabile lottatore spese ben diciannove anni della sua vita, dal 411 al 430, a liberare il cristianesimo dal rischio mortale dello svuotamento cui lo portava inevitabilmente l’interpretazione che di esso dava il pelagianesimo. Contro Agostino fu mobilitato ogni argomento ed anche ogni insinuazione, quasi che la «causa della grazia» (causa gratiae) da lui intrepidamente difesa fosse una deformazione «punica» del cattolicesimo, una specie di putsch, di colpo di mano, di latrocinium ordito da una conventicola di africani, manichei impenitenti e mascherati. Di fronte al naturalismo di Pelagio, Agostino apparve sempre più come colui che aveva rifondato l’antica fede («conditorem antiquae rursus fidei», Ep., 195), secondo l’ardita espressione usata dal creatore della filologia biblica occidentale, san Gerolamo (347-420), che pure in altre occasioni era stato scortese nei confronti del grande africano[8]. Il concetto della grazia diventa d’ora in poi il tema centrale della teologia latina[9] e la stessa indagine sull’uomo raggiunge nuovi livelli di profondità, il problema del male conosce nuovi sviluppi ed è sentito con più forte intensità. Tuttavia l’agostinismo perenne non è principalmente nelle opere polemiche, per lo più «festinantius editis», pubblicate cioè con troppa fretta. In esse Agostino riesce a far trionfare le sue idee, ma non senza mutilazioni, esposto com’è di continuo al rischio di sostenere tesi estreme in risposta ad asserzioni che erano estremamente provocatorie. Nella misura in cui Agostino controversista cede alla tecnica degli antichi rètori, secondo cui si deve dimostrare sempre qualcosa in più per non essere costretti ad ammettere qualcosa in meno, la sua grande eredità filosofica e teologica rischia di impoverirsi e di essere fraintesa. La reale posizione di Agostino, nel suo asse centrale, è espressa sia dalle grandi opere costruttive, sia da quelle che riflettono l’insegnamento ufficiale e la catechesi per il popolo.

I capolavori che appartengono al primo gruppo sono: le Confessioni (397-401), il De Trinitate Dei (399-419), il grande e arduo affresco del De civitate Dei (413-427), De natura et gratia (415), De gratia et libero arbitrio (425), opere scritte per lo più in un lungo arco di anni, dedicando alla loro stesura un tempo penosamente sottratto agli obblighi di una vita operosissima e al sonno. Del secondo gruppo fanno parte i suoi commenti al quarto Vangelo (Tractatus in Iohannis Evangelium), stesi tra il 414 e il 417, i commenti ai Salmi (Enarrationes in Psalmos), dal 392 al 418, e gli oltre cinquecento Sermoni (Sermones) che ci sono stati conservati grazie ai tachigrafi che captavano le sue parole «non solamente con le orecchie e col cuore, ma anche con lo stilo» (In Ps., 51, 1). Da questi scritti – che, pur essendo coevi, integrano, correggono e oltrepassano nettamente gli scritti polemici – ci viene incontro la vera immagine di Agostino, il suo vero volto, quel volto che nessun altro «ritratto» ci permette di ricostruire. Nel 426, a settantadue anni, Agostino compie una revisione critica delle sue opere. Il contributo alla critica di se stesso fu condensato nelle Retractationes («Ritrattazioni»)[10]. Sopraffatto dal dolore di vedere l’Africa, e la sua Ippona, assediata dai Vandali di Genserico, Agostino si spense dopo breve malattia, nella notte tra il 28 e il 29 agosto del 430. Aveva settantasei anni[11].

 

 

L’ITINERARIO DELLA MENTE

  1. La critica dello scetticismo e la scoperta dell’autocoscienza

Se si vuol dare un senso razionale alla vita si deve muovere incontro alla verità con tutta l’anima e vincere insieme la presunzione e la disperazione. Una dottrina, che è anche un atteggiamento mentale, solletica contemporaneamente la presunzione di pochi e la disperazione di molti: lo scetticismo. Lo scetticismo è come un «odiosissimum reticulatum» (Ep., 1, 3), che impedisce il cammino verso la verità: bisogna rimuovere l’ostacolo e premunirsi contro un errore così diffuso con tutti gli argomenti possibili («quantis possem rationibus», Retract., I, 1, 1). Agostino, che aveva sperimentato il tormento di chi dispera di poter trovare la verità, si misura con lo scetticismo fin dalla prima opera, il Contra Academicos. Siamo o no capaci di conoscere con certezza qualche cosa? Una domanda così radicale esige una risposta articolata, che investa i molteplici aspetti del problema.

Un’osservazione, però, va fatta subito, in via pregiudiziale: non si può dire che la ricerca della verità ha valore in sé e per sé ed è essenziale alla felicità dell’uomo e, nello stesso momento, affermare che l’uomo non conosce e non conoscerà mai con certezza alcuna verità oggettiva. Nessuno, infatti, cerca senza la speranza di trovare. Nessuno si affanna a scavare, alla ricerca di un tesoro che sa inesistente. Chi lo facesse non sarebbe affatto saggio, ma pazzo.

Non è poi vero che non si possa conoscere alcuna verità con certezza. Esistono verità evidenti e certe, di ordine intelligibile, quali che siano le illusioni della percezione sensibile. Ad esempio, i rapporti matematici. Essi sono inattaccabili dal dubbio. Tre per tre fa nove: in qualunque caso, in qualunque luogo, in qualunque tempo. Tre per tre fa nove sia che si sia svegli, sia che si dorma (Contra Academicos, III, 9, 25). È poi da considerare un fatto di grande importanza: in ogni affermazione o negazione sono implicate le leggi supreme del pensiero, le quali sono necessariamente vere, perché la verità del principio di non-contraddizione su cui poggiano si impone con innegabile rigore. Se l’anima muore, non è immortale, non potendo una stessa anima essere contemporaneamente mortale e immortale («non potest una anima et mori et esse immortalis», Contra Academicos, III, 13, 29). Dubiti pure lo scettico di ogni proposizione, ma non può dubitare che se una proposizione è falsa non è vera, e se è vera non è falsa. La verità dei supremi principi logici rimarrebbe indubitabile anche se la nostra vita fosse un sogno. E tuttavia anche la rappresentazione del mondo come un sogno è una fantasticheria che non regge a un attento esame. Nessuno, neppure lo scettico, può dubitare del fatto che qualcosa appaia. Le sue stesse obiezioni, miranti a dimostrare che ciò che appare è o potrebbe essere diverso da come appare, non distruggono, ma presuppongono il fatto che qualcosa appaia. Ma constatare un’apparenza è pur sempre un afferrare qualche cosa e non il nulla, anche quando non si arriva a determinare, se non per qualche aspetto, la natura di ciò che è entrato nella sfera della nostra esperienza. In ogni caso, tener conto delle effettive difficoltà dell’attività del conoscere umano e del suo carattere progressivo non significa affatto legittimare lo scetticismo come sistema.

Agostino conosce ed enumera i luoghi comuni della casistica scettica sull’inganno dei sensi e combatte la tesi secondo cui quel che appare ai sensi può essere o sembrare altro da quel che è («posse aliud esse ac videri»). Egli rivendica il fondamento oggettivo e la veridicità della sensazione attuale, sulla quale si basa la nostra conoscenza del mondo esterno. I sensi, se sono sani e desti, non ci ingannano, ma si limitano a recepire i fenomeni, così come essi effettivamente si presentano, secondo le leggi del mondo fisico da cui sono regolati. «Non ho motivo di lamentarmi dei sensi (nihil habeo quod de sensibus conquerar). È ingiusto pretendere da essi oltre le loro possibilità. Si dirà, allora, che è vero ciò che gli occhi vedono anche nel caso del remo immerso nell’acqua? È certamente vero quello che attestano, poiché esiste una causa che fa apparire il remo spezzato. Se il remo, immerso nell’acqua, apparisse diritto, allora piuttosto accuserei i miei occhi di una falsa impressione; infatti non vedrebbero ciò che, date quelle cause, doveva essere veduto» (Contra Academicos, III, 2, 26):

«Sia lungi da noi il dubitare della verità delle cose che si attingono per mezzo dei sensi del corpo (per sensus corporis); è per loro mezzo che abbiamo conosciuto il cielo e la terra, e in essi quelle cose che ci sono note (per eos quippe didicimus caelum et terram, et ea quae in eis nota sunt nobis)» (De Trinitate, XV, 12, 21).

Agostino rifiuta la radicale e troppo sbrigativa svalutazione della sensazione, operata dagli scettici e, ancor prima, dal platonismo, pur ribadendo la necessità di sottoporre di continuo l’atto del sentire all’atto del giudicare; infatti – e ne sappiamo qualche cosa noi, che viviamo nella cosiddetta «civiltà audiovisiva» – senza questa consapevole vigilanza, il moltiplicarsi delle sensazioni e delle immagini che l’accompagnano può diventare fattore di superficialità, di alienante dispersione dell’io nell’esteriorità, e quindi anche coefficiente di disordine morale.

La versione probabilistica che dello scetticismo davano Arcesilao (315-240 a.C.) e Carneade (219-129 a.C.) attenuava le punte estreme e i paradossi della dottrina, ma non sfuggiva neppur essa a gravi obiezioni. Agostino non rigetta affatto la categoria del «probabile», quando ad essa occorra far ricorso per prudenza di metodo e per insufficienza di dati o di osservazione; ma egli nega che il «probabile», ed esso solo, debba essere assunto come la fase definitiva e non superabile della ricerca. Se verità e certezza sono escluse dal nostro orizzonte, il verosimile e il probabile diventano nomina vacua, parole vuote di senso. Non si può parlare, infatti, di approssimazione al vero, nel momento in cui si dichiara il vero un miraggio sempre sfuggente, sempre fatalmente inattingibile[12].

Nella controversia con gli scettici, siano essi radicali o moderati, pirroniani o probabilisti, Agostino ha fatto centro. Ma egli trasforma la discussione e le fa attingere un nuovo livello di profondità con la scoperta dell’autocoscienza come la più individuata, irrefutabile certezza. Su questo tema egli ritorna significativamente in tutte le sue opere, dal Contra Academicos al De civitate Dei, con la gioiosa insistenza di chi ha conquistato una verità per sempre e per tutti, una verità accessibile a chiunque e che nessuno potrà mai scuotere o smentire. Malgrado gli argomenti svolti a confutazione dello scetticismo, i seguaci di quell’indirizzo tornano alla carica insinuando che il dubbio è inseparabile dalla nostra condizione umana e, dunque, ineliminabile. Ma se il dubbio è ineliminabile, noi non possiamo cogliere neanche una sola verità nel suo valore assoluto. Si dubiti pure, risponde Agostino; ma si rifletta su ciò che l’atto del dubitare implica. Colui che dubita, vive. Chi dubita pensa, ha coscienza delle ragioni che hanno fatto sorgere il dubbio.

Chi dubita coglie se stesso nell’atto di dubitare. Ma «chiunque conosce sé nell’atto di dubitare, conosce una verità e di questa verità, di cui ha consapevolezza, è certo (omnis qui se dubitantem intelligit, verum intelligit et de hac re quam intelligit certus est)»[13]. A chi ancora replicasse: «E se t’inganni? (quid si falleris?)», Agostino risponde: «Se mi inganno, sono. Infatti chi non esiste, non può nemmeno ingannarsi (Si fallor, sum. Nam qui non est, utique nec falli potest)»[14]. È dunque una conoscenza assolutamente certa quella per la quale sappiamo di vivere. La prima verità che ogni uomo conosce è la realtà della propria esistenza. Noi siamo, noi sappiamo di esistere, e siamo noi ancora che amiamo la nostra esistenza di esseri che pensano («et sumus, et nos esse novimus, et id esse ac nosse diligimus», De civ. Dei, XI, 26). L’esistere (esse) non è uno dei contenuti, ma il contenuto obbligato di quel conoscersi, di quel sapersi (nosse), senza di cui non ci sarebbe la realtà interiore del soggetto che pensa e non ci sarebbe propriamente attività di pensiero. Essere, pensare, volere (esse, nosse, velle) sono potenze in organica connessione tra loro: l’esse saputo dal nosse è l’oggetto del velle[15].

  1. La realtà spirituale dell’anima

Agostino, con la scoperta dell’autocoscienza, si è aperto la strada per dimostrare la spiritualità dell’anima e l’esistenza di Dio, su cui fonda la sua «metafisica dell’esperienza interiore» (Wilhelm Windelband). La dottrina della realtà spirituale dell’anima è svolta nel libro X del De Trinitate. Il fondatore del realismo spiritualistico giunse ad affermare la spiritualità dell’anima solo dopo un lungo periodo di materialismo. Incapace per molti anni di concepire una qualsiasi realtà che non fosse materiale, quando pervenne a formarsi una persuasione incrollabile della spiritualità dell’anima, Agostino la presentò come un’evidenza immediata, sepolta sotto false immaginazioni, ma che nondimeno ha il carattere proprio della verità di fatto, del fenomeno reale da cui non è possibile prescindere. Perché l’evidenza della realtà spirituale dell’anima si annebbia e bisogna, quindi, riscoprirla? Il vivere influisce sul cogitare e lo spirito si lascia assorbire a tal punto da quegli oggetti che pensa e ai quali si attacca con tanta sollecitudine, da smarrire la coscienza di sé, della sua natura. L’oggetto, per così dire, assorbe il soggetto che lo pensa, e lo spirito, alienandosi, facendosi estraneo a se stesso, si pensa come corpo, si scambia per corpo, si rappresenta come oggetto tra gli oggetti.

È poi assurdo e fuorviante concepire lo spirito come se fosse una realtà lontana, evanescente. Nulla, invece, è più presente a ogni uomo del suo spirito che si autoconosce. L’autocoscienza attesta in modo irrefutabile la presenza della mente a se stessa nella identità della persona che vive e pensa, sa di pensare e vuole. C’è di più: nulla può essere oggetto del nostro conoscere senza la presenza della mente a se stessa («nihil in conspectu mentis est, nisi unde cogitatur», De Trinitate XIV, 6, 8). La spiritualità è dunque una realtà che si manifesta a chi riflette su se stesso, ma è una realtà che bisogna liberare da teorie deformanti e da pregiudizi ricorrenti.

L’errore di concepire l’anima come qualcosa di corporeo si elimina quando noi ci sforziamo di concepirla in se stessa, indipendentemente dagli oggetti della sua conoscenza e del suo desiderio. Messa tra parentesi ogni cosa sentita, opinata, conosciuta, desiderata, il principio comune a ogni operazione della mente attesta qual è l’essenza, la natura dell’anima. La mente non è certa di essere questo o quel corpo, mentre ha coscienza di sé ed è certa di sé, sa di essere, di avere la capacità di conoscere e di amare. Si conosce, dunque, come conoscente e capace di amare anche quando crede di cercare la sua natura fra i corpi. La mente non è nulla di corporeo: essa è quel che resta – la coscienza di sé, che è atto spirituale – quando da ogni suo atto si astrae quello che le aggiunge il commercio con i corpi. L’anima è dunque quel principio sostanziale, quell’atto primo ontologico, per cui l’uomo può dire: io sono, io conosco, io voglio.

Agostino osserva che l’anima non è come l’occhio che vede, ma non si vede. «Quando l’anima si conosce, essa è il solo autore del suo conoscere, essendo ad un tempo oggetto e soggetto del conoscere (mens cum ipsam cognoscit, sola parens est notitiae suae: et cognitum enim est et cognitor ipsa est)»[16]. L’intelligenza, l’anima spirituale, la mente si riconosce pensante nel momento stesso («eo ictu») in cui si cerca o cerca. Per il fatto che sa di sapersi («novit se nosse»), l’anima, a causa della conoscenza che ha di se stessa, indipendentemente dalle cose che conosce e vuole, attesta la sua spiritualità. Si può discutere su questa o su quella opinione, ma ciò su cui non cade dubbio è che l’anima pensa, conosce, vuole; il dubbio stesso lo prova. Infatti, come sappiamo, colui che dubita, vive, conosce, vuole. Per l’atto con cui essa si sa, l’anima «è distinta da qualsiasi altra cosa conosciuta» (De Trinitate, X, 9, 12). La nostra conoscenza, infatti, passa da un oggetto all’altro, ma questo passaggio è sostenuto dalla presenza incessante dell’anima a se stessa.

L’oggetto che cerchiamo di conoscere specifica la nostra capacità conoscitiva, ma non può certo produrla. Lo spirito autocosciente non è uno dei tanti fatti di coscienza, ma è la nostra vita più reale e concreta, la più personale ed esistenziale, e insieme è la condizione necessaria e permanente di tutti i fatti di coscienza[17]. Negare ciò o non trarne le dovute conseguenze significa esporsi al rischio di sbagliare proprio su ciò che più direttamente riguarda la nostra natura di uomini e il nostro destino immortale. In conclusione: «l’anima sa di esistere e di vivere nel modo stesso in cui esiste e vive l’intelligenza» (De Trinitate, X, 10, 13). Ha per conseguenza il diritto di distinguersi da tutto ciò che è altro da sé e il dovere di non attribuirlo a se stessa. L’anima spirituale – presenza di sé a se stessa e condizione prima per conoscere ciò che è altro da sé – non può, quindi, essere confusa con un corpo o con un organo corporeo e nemmeno può essere considerata come la risultante della vita dell’organismo.

  1. L’ascesa a Dio

In Agostino ogni indagine – metafisica, psicologica, morale – diventa, nel suo aspetto più profondo, una indagine su Dio, sulla sua esistenza e natura: di qui la difficoltà di trattare separatamente gli argomenti che portano a Dio in un sistema così unitario come quello agostiniano. Nel momento in cui la pietra d’inciampo, lo scetticismo, è tolta dal nostro cammino, cade la pregiudiziale secondo cui nulla è dimostrabile; l’evidenza dell’autocoscienza e la prova della spiritualità dell’anima, che ad essa è congiunta, aprono la via alla dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio[18]. Infatti Agostino, prima di stabilire la certezza dell’esistenza di Dio, stabilisce la possibilità della verità in generale, e «lo fa – nota Ètienne Gilson – prendendo possesso della prima di tutte le certezze, quella che i dubbi più stravaganti degli scettici non saprebbero scuotere: la sua propria esistenza» (Introduction à l’étude de S. Augustin, Paris 1928, p. 15). Se io dubito, sono; se dunque è vero che dubito, è evidente l’esistenza di una verità indubitabile. Ma nel momento in cui il pensiero coglie una verità, quale che sia, esso implicitamente si rapporta alla sua fonte, cioè alla Verità sussistente, eterna, immutabile che è Dio. E diviene una sola e medesima questione sapere come noi concepiamo una verità e conoscere l’esistenza della Verità. L’evidente esistenza del soggetto pensante implica l’esistenza di Dio. Ogni verità, pertanto, può servire da punto di partenza alla prova, dal momento che il cammino che va alla Verità divina passa pur sempre per lo spirito del soggetto conoscente. Le prove agostiniane di Dio attestano un moto di ascesa che va dall’esteriore all’interiore, e comunque sempre dall’interiore al superiore trascendente, e da questo a Dio. Quindi unico è lo stile, lo schema, il procedere dell’argomentazione agostiniana, sviluppata però ora sotto un aspetto, ora sotto un altro. Agostino ha sintetizzato con espressioni di forte densità le tre vie convergenti nell’affermazione di Dio. Chi perviene alla conoscenza di Dio, anche con le sole forze della ragione, conosce Dio in quanto causa che ha creato l’universo, luce che fa percepire la verità, sorgente a cui si beve la felicità («causa constitutae universitatis, et lux percipiendae veritatis et fons bibendae felicitatis», De civ. Dei, I, 8).

a) A Dio dall’esistenza degli esseri di questo mondo

Molte sono le pagine in cui tale itinerario è sviluppato e alcune sono di particolare bellezza; ma i testi chiave, fondamentali per il loro vigore speculativo, nonché per la concitazione e la commossa efficacia dello stile, sono, pur sempre, nelle Confessioni (in particolare i capitoli 6, 7 del libro X e il brevissimo, profondo capitolo 4 del libro XI) e nella Esposizione sui Salmi 41 (7-8) e 144 (13), che qui vogliamo sintetizzare.

L’ordine seguito da ogni prova agostiniana che parta dal sensibile appare chiaramente nel testo della Esposizione sul Salmo 41, di cui si riportano le articolazioni essenziali:

«Udendo quotidianamente dire: dov’è il tuo Dio?, ho cercato anch’io il mio Dio, per poter non solo credergli, ma anche un po’ vederlo. Vedo, infatti, ciò che ha fatto il mio Dio, ma non vedo il mio Dio che ha fatto queste cose. Considero la terra e le sue meravigliose bellezze. Levo gli occhi al cielo e alla bellezza delle stelle. Tutto questo ammiro, tutto questo lodo, ma ho sete di colui che ne è l’autore (sed eum qui fecit haec, sitio). Ritorno in me stesso e vado indagando chi sia io che tali cose osservo. Trovo che ho il corpo e l’anima. Distinguo bene che l’anima è qualcosa di meglio del corpo, anche se le cose che vado conoscendo le conosco per mezzo del corpo (per corpus). Ho lodato la terra, il cielo, le stelle: tutte cose viste con gli occhi. Dio, che ha fatto queste cose che io vedo con gli occhi, non può essere cercato con questi occhi. E del resto l’anima stessa, attraverso sé medesima, vede qualcosa d’altro e non per mezzo dei sensi. Che cosa significa, infatti, vedere nell’intimo? È ciò che si sperimenta dentro di noi e non è colore, non è suono, non è odore e neppure calore, morbidezza o durezza. Mi si dica, ad esempio, quale colore ha la sapienza? E la giustizia? Ci sono valori della cui luce l’anima gode, anche se gli occhi sono nelle tenebre. C’è dunque qualcosa che l’anima stessa vede e vede da se stessa. Forse che Dio è qualcosa di simile all’anima? Certamente Dio non si può vedere se non per mezzo dell’anima. L’anima, sforzandosi di comprendere ciò che è Dio, cerca la verità immutabile, la realtà che non viene mai meno (sine defectu). L’anima, invece, viene meno e progredisce, sa e ignora, ora vuole e ora non vuole. Dio è una realtà infinitamente superiore all’anima e la mia anima può pervenire a essa solo trascendendosi, proiettandosi al di sopra di se stessa. Desiderando vedere gli attributi invisibili di Dio con l’intelletto mediante le cose create (Rm., 1, 20), io innalzo sopra di me l’anima mia, perché lì, al di sopra dell’anima mia, è la dimora del mio Dio».

Sulla stessa linea, e non meno illuminante, è l’Esposizione sul Salmo 144 al capitolo 13:

«La bellezza della terra è come la voce della terra muta. Tu rifletti e vedi la sua bellezza, vedi la sua fecondità, vedi le sue forze, come concepisce il seme, come spesso produce quello che non fu seminato: vedi questo e con la tua considerazione in qualche modo la interroghi. E quando ammirando l’hai esaminata e l’hai scrutata e hai scoperto in essa grande forza, grande bellezza, virtù meravigliosa, poiché non potrebbe in sé e da sé avere una tale virtù, ti viene subito alla mente che essa non ha potuto essere da se stessa, ma dal Creatore. […] Non è forse vero che considerando tutta la bellezza di questo mondo, la medesima bellezza ti risponde unanime: Non io, ma Dio mi ha fatto?».

In questi mirabili testi si trova tutto l’essenziale dell’argomento cosmologico, fondato cioè sulla considerazione della realtà del mondo, e anche di quello teleologico, che si ricava dalla bellezza, dall’armonia, dall’ordine del mondo. Infatti sono contemplate le perfezioni delle cose che stanno al di sotto dell’uomo; si osserva che la causa di queste perfezioni non è nelle cose stesse e neanche nell’uomo, che pure è la più eccelsa delle creature; si conclude alla causalità e dunque all’esistenza di Dio. «La luce – osserva Charles Boyer – viene alla prova dal principio di causalità, che non potrebbe essere più esplicitamente invocato» (Sant’Agostino filosofo, trad. it. Patron, Bologna 1965, p. 57). È il principio di causalità che ci fa interrogare le cose e che ci permette di intenderne la voce, quando esse proclamano che sono senza essersi fatte da se stesse, che esiste la loro Sorgente, il cui essere non ha bisogno di ulteriore spiegazione poiché è l’Essere stesso.

Perché il principio di causalità ci obbliga a cercare fuori dell’universo il Principio supremo, la Causa suprema del reale? Qual è il motivo per cui il cielo e la terra gridano che sono stati fatti («facta sunt») e spingono a cercare fuori di loro la ragione della loro esistenza? Perché mutano e variano («mutantur enim atque variantur»). La ragione del «facta sunt» è il «mutantur enim» (Conf., XI, 4) e l’«enim» non è pleonastico, ma sta ad esprimere un rapporto causale. Il cielo e la terra gridano che «non si son fatti da sé»: prima di essere non erano, così da potersi fare da sé, altrimenti non sarebbero soggetti a mutamento e variazione. Queste frasi vive, concrete, quasi popolari, contengono nondimeno la più profonda metafisica. Ciò che è sottomesso al divenire deve trovare fuori di sé la sua spiegazione, cioè la sua causa. Non possiede infatti la pienezza dell’essere, perché là dove questa pienezza c’è, niente dell’essere può cessare e niente dell’essere può sopraggiungere. Ciò che muta, ciò che diviene non ha potuto darsi da sé l’essere, prendere in sé il suo essere, ma l’ha ricevuto da colui il cui nome significa «Io sono colui che è», Dio, l’Essere per essenza. Dio è la sorgente immutabile di tutto il movimento del nostro universo. Noi siamo ovunque nel campo del mutamento; ma senza l’attualità non diveniente di Dio, il movimento non sarebbe. Vi è il finito, il contingente, il diveniente perché l’Infinito, l’Atto Puro, l’Assoluto esiste. Noi lo chiamiamo Dio.

b) A Dio mediante la vita dello spirito

La prova, per cui si ascende a Dio mediante la vita dello spirito, rende quanto mai evidente il modo di argomentare tipicamente agostiniano e può essere così schematizzata: I. l’uomo apprende verità che sono al di sopra di ogni dubbio ed esprime giudizi aventi necessità logica; II. ciò è possibile in virtù di interiori regole di verità, che sono presenti alla nostra mente, ma di cui la nostra mente non può essere la causa produttrice; III. la ragion d’essere adeguata delle interiori regole di verità è Dio, Verità prima ed infinita a cui si accende la luce del nostro pensiero.

I. Contro gli scettici è stato dimostrato sia che ciascun uomo possiede la certezza invincibile di esistere, pensare e volere, sia che egli giudica secondo principi primi speculativi e pratici aventi universalità e necessità logica. Certo, anche l’evidenza dell’autocoscienza è una «evidenza sospesa», bisognosa essa stessa di giustificazione. Già nei Soliloqui (II, 1, 1) questa esigenza è espressa chiaramente:

«Ragione: – Tu, che vuoi conoscerti, sai di esistere (tu qui vis te nosse scis te esse)? Agostino: – Lo so (scio). Ragione: – Donde lo sai (unde scis)? Agostino: – Non lo so (nescio)»

La coscienza pensante attesta una realtà che vince ogni dubbio, ma neppur essa può essere considerata sufficiente a se stessa e assoluta. La sua verità pone dunque il problema della Verità assoluta, necessaria, trascendente, della condizione incondizionata del pensiero. Il problema si pone, del pari, appena ci si chiede qual è l’origine e la sorgente d’irradiazione dei principi primi speculativi e pratici, servendosi dei quali, correttamente e con sagacia, in rapporto a quanto entra a far parte della sua esperienza conoscitiva e morale, l’uomo può pensare secondo verità e volere ciò che è bene. Io sono causa di ciò che penso, per quanto riguarda la formazione di concetti e di giudizi; ma il mio pensiero non è il principio di se stesso, non si pone da sé nell’essere, così come non produce a suo piacimento né la realtà da conoscere, né i principi regolativi del suo stesso processo conoscitivo. Il mio interrogare consiste nel fissare nelle realtà che esperisco la mia attenzione e la loro risposta nel mostrarmi la loro natura («interrogatio mea, intentio mea, et responsio eorum species eorum», Conf., X, 6). Ma questa determinante oggettiva non potrebbe operare effettualmente, il reale non potrebbe essere esplorato nei suoi significati, insomma non si potrebbe formulare su alcunché un qualsiasi giudizio necessario e universale, se l’intelligenza non fosse partecipe di una legislazione interiore, se non fosse capace di usare principi logici universali assolutamente validi:

«Cercando qual giudizio mi soccorresse nel proferire un qualsiasi giudizio verace, avevo scoperto l’esistenza di una verità immutabile e veramente eterna al di sopra della mia mente mutabile (inveneram incommutabilem et veram veritatis eternitatem supra mentem meam mutabilem)» (Conf., VII, 17).

Sono presenti, dunque, in noi le interiores regulae veritatis (De lib. arb. II, 12, 34), e in ogni uomo si manifestano non come oggetto, ma come forza, energia, causa efficiente: sono nel soggetto «non come una pagina dove si legge, ma come una forza che capacita alla lettura» (Amato Masnovo, S. Agostino e S. Tommaso, Vita e Pensiero, Milano 19502, p. 168).

II. Presenti alla nostra mente, esse non possono però essere prodotte dalla nostra mente. La fonte delle nostre idee, con cui regoliamo ogni cosa, non sta in noi, ma sopra di noi. Chi sa leggere nella propria coscienza e ne interpreta correttamente i dati, è condotto a confessare la sua dipendenza da una luce più alta. Le ragioni di ciò sono due. La prima è che se fossimo noi stessi la nostra luce e la fonte delle regole che applichiamo alle cose, non avremmo in noi tanta ignoranza e tanti errori. La regola suprema non può essere sregolata e non ha bisogno di essere raddrizzata; soltanto ciò che è regolato può mancare alla regola. La seconda ragione è che noi ci sentiamo sottomessi a regole che non abbiamo fatte e che ci giudicano; sentiamo di essere avidi di lumi che non hanno in noi la loro sorgente. Negare la nostra dipendenza da quelle regole e da quella luce, sarebbe togliere ai nostri giudizi la loro intelligibilità e il loro valore. Se dipendiamo nell’atto di pensare da una verità che non è costituita da noi, a questa si deve riconoscere una realtà superiore alla nostra, poiché essa ci misura, ci dirige, ci perfeziona.

III. Una conclusione si impone. Le interiores regulae veritatis non sono affatto in noi come l’effetto nella sua causa. Esse, pertanto, esigono una intelligenza adeguata che le pensa e le partecipa alla mente umana. Dio solo, Verità prima, «in cui, da cui e per cui sono vere tutte le cose vere» (Solil., I, 1), è la loro fonte, il loro fondamento. L’esistenza delle interiores regulae veritatis attesta l’esistenza di Dio[19].

In tal modo la trascendenza di Dio si coglie nel punto massimo di interiorità, secondo le grandi parole che meglio esprimono e riassumono l’ascesa a Dio mediante la vita dello spirito:

«Non uscir fuori di te, torna in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità. E se trovi mutevole la tua natura, trascendi te stesso! Ma ricorda che, oltrepassandoti, trascendi un’anima razionale. Tendi là donde si accende il lume stesso della ragione (Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende te ipsum. Sed memento, cum te transcendis, ratiocinantem animam te transcendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur)» (De vera religione, 39, 72).

c) A Dio dal desiderio naturale di felicità e dal dinamismo dell’azione

È un fatto che tutti gli uomini, senza eccezione, cercano di essere felici. Comunque agiscano, quali che siano i differenti mezzi che adoperano, tutti tendono a questo scopo. Questo desiderio è il motore dell’azione umana. È un dato reale, rivelativo della condizione dell’uomo; è un’esigenza naturale, essenziale, universale. Tuttavia gli uomini non si accordano sulla natura e sulle condizioni della felicità: «Ciò che è in discussione è di sapere dove riporre la felicità da tutti cercata» (Sermo, 150). Occorre dunque domandarsi dove l’uomo troverà quel bene capace di soddisfare la sua natura. Per questo la ricerca si impone[20]. Ciò che differenzia gli uomini non è il desiderio della felicità, ma la scelta del bene in cui ciascuno ripone la sua felicità. È qui, pensa Agostino, che l’esperienza può aiutare la retta ragione a mettere la felicità là dove in realtà si trova. Ebbene, che cosa ci attesta l’esperienza? E quali problemi pone alla ragione?

I. In primo luogo l’esperienza ci attesta che ogni bene finito non è saturante. L’uomo non può contentarsi dei piaceri sensibili, avendo un’anima che nutre ben più alte aspirazioni; ma proprio le più alte aspirazioni dell’anima provano l’illusorietà di ogni pretesa autosufficienza. Questa insoddisfazione costitutiva prova la grandezza della nostra natura e del nostro autentico destino: il bene totale e infinito che solo può riempire la volontà dell’uomo non si trova che in Dio e solo in Dio. Come nessuna delle cose mutabili ha l’essere da sé e nessuna è l’essere per natura ed essenza, così ogni bene finito non è se non da lui, ma non è e non può essere ciò che egli è, il bene sommo del quale non v’è nulla di superiore. «Colui che è» è il sommo Bene, è il Bene per se stesso, per natura ed essenza e non per partecipazione, come ogni altro bene che non è sommo e, nella sua mutabilità e contingenza, può venir meno (De vera religione, 18, 35-36). «Non è che le cose create non siano e non siano beni, altrimenti come potrebbero essere tanto desiderate? Ma il Bene che ha creato i beni, come in senso proprio è il solo che è, così in senso proprio è il solo che è bene» (Enarr. in Ps., 126, 4).

II. In secondo luogo, tutti sperimentiamo che a ogni passo rinasce in noi la sproporzione fra il possesso dei beni finiti e l’incoercibile aspirazione al Bene sommo, fra gli oggetti di un volere determinato e ciò che è il principio e insieme il fine stesso della volontà, fra ciò che siamo e ciò che dovremmo e vorremmo essere. La filosofia prende criticamente coscienza dell’inquietudine in cui è radicata la natura umana, dello spirito dinamico che la regge ed è autorizzata, sulla base dei fatti, a concludere che l’uomo non realizza se stesso, non eguaglia se stesso, non può soddisfare la sua sete d’infinito, se non oltrepassandosi in direzione dell’Assoluto interiore e trascendente. L’Assoluto è il Bene nella sua sorgente creatrice e volere profondamente e compiutamente il Bene significa volere e amare Dio.

III. In terzo luogo, occorre «leggere» in profondità il significato dell’azione, perché essa ha una sua struttura essenziale, una sua logica implicita. L’uomo è posto fra un continuo sì e no, chiamato com’è a scegliere, a dare una risposta. Ma nell’atto di scegliere, chi sceglie opta, consapevolmente o no, per un ultimo fine di fatto, che informa di sé tutte le altre cose da noi volute e le avvalora ai nostri occhi. È fisicamente impossibile procedere a una qualsiasi scelta, senza procedere alla scelta di un ultimo fine di fatto; d’altra parte, è una necessità razionale che l’ultimo fine di fatto venga a coincidere con l’ultimo fine di diritto. In altre parole, noi dobbiamo preoccuparci che il fine da noi perseguito realmente rappresenti un vero valore, così da meritare di essere voluto per sé a preferenza del suo contraddittorio. In tal modo, commenta Amato Masnovo, «dal fondo della nostra vita razionale e volitiva, all’infuori di ogni particolare circostanza storica, sorge perennemente dinanzi alla nostra coscienza il problema dell’ultimo fine di diritto, cioè il problema dell’esistenza di Dio» (La filosofia verso la religione, Vita e Pensiero, Milano 19605, p. 17). La domanda «qual è l’ultimo fine di diritto dell’agire umano» comporta una sola risposta: Dio. L’opzione suprema a questo punto s’impone: o amare infinitamente l’Infinito, accogliendo nel nostro essere Colui che, essendo l’autore della natura umana, solo può colmare le esigenze più profonde dell’uomo; o pervertire l’aspirazione all’Infinito nell’infinitizzazione del finito, nella produzione incessante e nella idolatria dei falsi assoluti terreni. Agostino legge nel nostro desiderio di felicità l’effetto del rapporto della nostra natura al suo fine profondo, l’attestato di una destinazione al Bene supremo e insieme l’appello di Dio alla nostra volontà. Queste argomentazioni avranno interessanti sviluppi nei Pensieri (1657-1662, pubblicati per la prima volta nel 1669) di Blaise Pascal e soprattutto nell’Azione (1893) di Maurice Blondel.

  1. Il processo conoscitivo e l’illuminazione interiore

La gnoseologia agostiniana converge con la critica dello scetticismo, con la scoperta dell’autocoscienza – certezza irrefutabile e condizione di ogni altro atto conoscitivo – con la dottrina delle interiores regulae veritatis e con la conquistata affermazione di Dio, luce che fa percepire la verità. In essa altresì confluiscono la concezione realistica della mente, interiorità aperta all’essere, e la dottrina dell’unione sostanziale dell’anima e del corpo, senza di cui sarebbe impossibile spiegare la conoscenza sensibile.

Ciò che per primo è richiesto dalla spiegazione del processo conoscitivo è la presenza della mente a se stessa. «Lo spirito non è come l’occhio del corpo che vede gli altri occhi, ma non vede se stesso» (De Trinitate, IX, 3, 3). «Che sappiamo, infatti, se non sappiamo ciò che è nel nostro spirito, dato che tutto ciò che sappiamo non lo possiamo sapere se non con la mente»? (De Trinitate, XIV, 5, 8). L’autocoscienza, pur non pervenendo mai a possedersi in modo totale ed esaustivo, è presente, abitualmente, in ogni altra conoscenza. «Nulla può essere conosciuto – scrive epigraficamente Agostino – se non è presente a sé il soggetto da cui si diparte l’atto conoscitivo (nihil in conspectu mentis est, nisi unde cogitatur)»[21]. La mente dell’uomo è invece quell’occhio che, per vedere alcunché fuori di sé, deve innanzi tutto vedere se stesso. Ebbene, se per «intellettualismo» si intende la teorizzazione di una conoscenza senza autocoscienza, come mero rispecchiamento dell’oggetto, senza la partecipazione attiva del soggetto al conoscere, Agostino è il filosofo che per primo e meglio ce ne ha svelato l’insidia e ci ha premunito contro di essa.

La presenza del soggetto a se stesso è la prima condizione del processo conoscitivo, ma essa non è l’unica. Esistono realtà oggettivamente distinte da coloro che le percepiscono e le pensano, così come esistono principi regolativi universali del pensiero. Se così non fosse, non sarebbe possibile, sia nell’ordine sensibile che in quello intelligibile, a due persone percepire le stesse cose e le stesse relazioni, né pensare le stesse idee, né giudicare secondo gli stessi principi. Esistono tante menti quanti sono i soggetti pensanti e nessuno può penetrare nel pensiero di un altro («tot sunt mentes hominum quot homines sunt, nec ergo de tua mente aliquid cerno, nec tu de mea», De lib. arb., II, 9, 27 e 10, 28); e nondimeno gli uni e gli altri si trovano ad avere contenuti identici. Una stessa verità può essere conquistata da uomini diversi: non sono infatti gli uomini che creano la verità, sebbene siano essi a scoprirla e a farla propria. «Non è il ragionamento che fa le verità quali sono, ma le disvela («non ratiocinatio talia facit, sed invenit). Pertanto, prima di essere scoperte, esse esistono, e quando sono scoperte, ci rinnovano (ergo antequam inveniatur, in se manent, et cum inveniuntur, nos innovant)»[22].

Il realismo spiritualistico di Agostino trova un’altra conferma in campo gnoseologico proprio analizzando come in noi si produce la sensazione. Della sensazione si rivendica, contro gli scettici, la veridicità oggettiva e, nello stesso tempo, contro i sensisti, l’intima appartenenza all’attività della mente. Ogni conoscenza sensibile è generata simultaneamente da chi conosce e dalla cosa che viene conosciuta («ab utroque paritur, a cognoscente et cognito», De Trinitate, IX, 12, 18). La sensazione non è scienza ed i sensi di per sé non sanno nulla; tuttavia servono a sapere. Epicuro sbagliava mettendo il criterio di certezza nelle sensazioni. «Il giudizio di verità non risiede nei sensi (non judicium veritatis constitutum in sensibus)»[23]; ma i sensi, se sani e svegli, ci attestano la realtà di un universo e, considerati nei loro limiti, sono attendibili. Nello stato normale i sensi non ingannano; tuttavia il giudizio sui loro apporti è sempre opera della ragione, sia pure sul fondamento dei dati sensibili. La verità non è proprietà dei sensi, ma i sensi servono alla mente per giudicare veracemente. I sensi attestano ciò di cui l’intelletto conosce la verità. Gli occhi del corpo non vedono la verità, ma vedono di certo ciò che l’intelletto può conoscere e giudicare con verità. La sensazione è possibile e l’universo può fare irruzione in noi, può renderci partecipi delle sue qualità e dei suoi ritmi mediante la sensazione, perché l’anima e il corpo entrano nella definizione dell’uomo «animale razionale ». L’uomo non è l’addizione di due sostanze, delle quali l’una muoverebbe l’altra dall’esterno, ma una sola sostanza razionale composta di anima e di corpo («homo est substantia rationalis constans anima et corpore», De Trinitate XV, 7, 11). È falso dire che nella mente è l’uomo e che nella carne non è l’uomo («non enim in mente homo et in carne non homo», Sermo, 154, 10, 15). Il corpo e l’anima fanno un solo uomo, benché non siano una stessa cosa (Ep., 238, 2, 12). L’anima dà al corpo la sua struttura specifica di corpo umano, affinché esso assolva alle funzioni che gli sono proprie e concorra all’esplicarsi delle attività propriamente umane (De immort. animae, 15).

La sensazione implica, sì, un patire, una modificazione reale del corpo attraverso l’azione esercitata dall’esterno; ma essa è anche ed essenzialmente un agire dell’anima, una sua attività. «Sentire non è del corpo, ma dell’anima per mezzo del corpo» (De Genesi ad litt. lib. imp., V, 24). Più precisamente: «sentire è del senso e della mente (sentire est sensus et mentis)»[24]. Nel sentire l’anima aggiunge, al ruolo abituale di animatrice del corpo, uno sforzo supplementare di attenzione sopra le modificazioni del corpo che essa anima: senza questa intentio, non c’è sensazione. Così, ad esempio, un organismo può accogliere le modificazioni del suo apparato uditivo; ma se il soggetto non presta attenzione ai suoni che pure gli giungono, questi si trasformano in stati psichici inconsci. Il nostro corpo riceve di continuo l’azione dei corpi esterni che con esso formano l’universo. Se non ci fosse una reazione conveniente, il nostro organismo andrebbe danneggiato e distrutto. Ora l’anima mantiene il corpo in un’armonia suggestiva, opponendo alle azioni esterne la propria azione. Quest’attività dell’anima, in buona parte, rimane incosciente, perché consueta. Ma se l’attività dell’anima procede con speditezza particolare o, al contrario, con particolare difficoltà, l’anima allora ne prende coscienza con piacere o con sofferenza. In breve: il corpo, modificato da una passione, è vivo ed è senziente per l’anima, la quale produce appunto la sensazione con un atto di attenzione sopra le modificazioni del corpo che essa anima.

Ma da dove viene alla mente, all’anima intellettiva, il potere di conoscere e di giudicare che la rende di gran lunga superiore a tutte le cose corporee e a tutti gli altri esseri che popolano il mondo, dotati anche di vita, ma non di intelligenza? La mente non può conoscere e giudicare nulla, nemmeno le cose sensibili, senza usare i principi primi, senza le interiores regulae veritatis: ma queste come possono essere spiegate, da dove traggono origine? Noi non potremmo capire (intelligere), se non avessimo una mente, cui sono funzionalmente presenti i principi regolativi del conoscere e del giudicare: sono in noi, ma non sono da noi, e dunque attestano la presenza illuminatrice di Dio alla mente, la partecipazione del nostro spirito alla luce della verità immutabile. Ma in qual modo si esplica l’influsso di Dio sulla mente e come discernere nella nostra cognizione la sorgente divina del vero e l’aspetto umano e personale dei nostri pensieri? Per Agostino l’illuminazione è costitutiva della mente, cioè fa sì che l’uomo sia capace di conoscere e di volere; ed è, nel contempo, una relazione sempre attuale di Dio con la nostra mente, per l’intima, continua connessione della mente alle interiores regulae veritatis e alla loro divina sorgente. La mente ha la percezione intellettuale delle verità fondamentali e queste manifestano l’azione della Verità trascendente, facendola intravvedere indirettamente. L’illuminazione è essenziale alla creatura ragionevole, perché ne fonda la razionalità, la spiritualità, l’aspirazione alla verità e al bene.

L’illuminazione significa l’influsso di Dio nella umana conoscenza del vero e non la conoscenza stessa, la quale è effetto della nostra attività, mentre quella ne è la causa prima. Da Dio e per Dio l’uomo ha la capacità che fa di lui «un vivente che pensa», un essere cui spetta conoscere e vivere il vero; ma il compito di questa capacità è di essere, appunto, «una forza e non un oggetto» (Amato Masnovo, S. Agostino e S. Tommaso, ed. cit., p. 179), né un tertium quid tra la mente e Dio, non essendovi nulla di mezzo tra la creatura razionale e il suo creatore («nulla natura interposita praesidet [Deus]», En. in Ps., 118, 18). Agostino riassume con limpidezza il suo pensiero in un testo del De civitate Dei: «poiché la nostra natura per esistere ha Dio come autore, non vi è dubbio che per conoscere il vero dobbiamo aver Dio come dottore» (XI, 24). La verità eterna, il Logos divino, il Verbo di Dio, che si è rivelato all’umanità in Cristo, «illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv., 1, 9), rendendo l’anima partecipe, sia nell’atto di farla esistere sia attualmente, per una mirabile analogia della sua luce increata. Per questo l’uomo può dire col salmista: «È segnata su di noi, Signore, la luce del tuo volto (signatum est in nobis lumen vultus tui, Domine[25])». Dio è più presente ad ogni uomo di quanto l’uomo possa esserlo a se stesso («interior intimo meo», Conf., III, 6) ed è il divino «maestro interiore» che, pur ammonendo e sollecitando dal di fuori, cioè attraverso le più diverse situazioni ambientali e sociali, insegna sempre dal di dentro, nel cuore della ragione, nelle profondità più luminose dell’anima. «Ogni anima razionale lo consulta. Ma a ciascuno è dato quanto è capace di far suo, secondo la sua buona o cattiva volontà. E se qualcuno sbaglia, ciò non è per difetto della verità consultata, come non è per difetto della luce solare se spesso i nostri occhi vedono meno bene» (De magistro, II, 38). La luce non è assente, ma l’uomo può rendersi assente alla luce («lux non est absens, sed vos absentes a luce», In Jo. ev., I, 3, 5). Con questi stessi principi Agostino affronterà i problemi della grazia e del libero arbitrio, con una unità di metodo e di conclusioni che fa di lui uno dei pensatori più coerenti, pur nell’apparente asistematicità dei suoi scritti.

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San Paolo aveva ammonito che qualsiasi conoscenza umana di Dio qui è sempre «per speculum et in aenigmate, (come in uno specchio, in modo enigmatico)»[26]. Agostino era lettore troppo attento di san Paolo per postulare una intuizione immediata e diretta di Dio e delle idee in Dio, come poi alcuni studiosi medievali e, nell’età cartesiana, Malebranche, sia pure con sfumature diverse, sosterranno. «Nello stato presente non conosciamo gli esseri nelle loro ragioni eterne (in praesenti statu non vidimus in rationibus aeternis)». Se vedessimo le cose in Dio, l a creazione stessa sarebbe superflua; ma per Agostino senza la sensazione, senza l’esperienza delle cose, non c’è nozione di esse, e dunque l’illuminazione non rende affatto superflua la conoscenza sensibile. La verità è in noi («in interiore homine habitat veritas»), non nel senso della visione ontologistica o dell’innatismo, bensì in quello della costitutiva capacità dell’uomo di aprire il suo intelletto alla presenza illuminatrice attuale della verità, essendo stato creato capace di quella luce. La lettera e lo spirito dei testi agostiniani escludono che l’intelletto sia una facoltà passiva in relazione al proprio atto e che l’illuminazione creatrice di Dio sullo spirito umano possa essere concepita come trasmissione di idee già fatte, come rappresentazione di idee eterne che causa il nostro conoscere. L’interiorità del vero e la tensione etica che si accompagna alla ricerca si comprendono solo se si distinguono nettamente dall’influsso divino la forza di pensiero, la volontà, la responsabilità in surrogabile di ogni singola persona: «la facoltà che mi dava la possibilità di agire non eri certo tu [o Dio]» (Conf., X, 40). Agostino ha celebrato la calda appartenenza del vero, che è oggettivo, a colui che lo scopre, se ne appropria e lo genera, per così dire, nel suo spirito, con espressioni di straordinaria forza. «Quelle verità che si scoprono è come se fossero generate, per cui sono paragonabili a figli che nascono (quae reperiuntur quasi pariuntur, unde proli similia sunt)»[27]. Non c’è scoperta senza ricerca, non c’è autentica inventio senza inquisitio. E la ricerca deve essere inesausta, perché la Verità da conoscere e da amare è inesauribile. «Cerchiamo dunque con l’animo di chi sta per trovare e troviamo con l’animo di chi sta per cercare (sic ergo quaeramus tamquam inventuri, et sic inveniamus tamquam quaesituri)»[28].

  1. La creazione, il tempo e la coscienza

A spiegare l’origine della natura sensibile e degli spiriti finiti interviene il concetto di creazione. Agostino ha percepito con una potenza unica la dipendenza del creato dal Creatore, vincendo ogni forma di panteismo (un Dio ridotto a natura; oppure Dio e natura come espressioni bipolari della stessa realtà), di dualismo (atto divino demiurgico su di una materia increata, o peggio, in competizione con Dio) e di emanatismo (progressiva degradazione dell’essere divino fino alla opacità della materia). Dio crea dal nulla e le realtà create vengono dal potere e non dalla sostanza di Dio. La creazione non è svolgimento fatale di uno schema logico, ma atto libero di Dio[29]. Agostino stringe in sintesi robusta l’esigenza idealistica e quella realistica: ad un tempo il mondo è tutto contenuto nelle idee del pensiero divino, del Logos, ed è reale, per l’imponente realtà dell’atto a cui esso deve l’esistenza. Il creatore resta così nelle cose senza esservi incluso e sta fuori di esse senza esserne escluso («intra cuncta nec inclusus, extra cuncta nec exclusus»). Da una parte, Dio, in rapporto alle creature, è trascendente e non vi è misura comune tra esse e Dio. Dall’altra parte, Dio è presente alla sua opera più di quanto ciascuna creatura possa esserlo a se stessa: è in noi, più di noi medesimi. Occorre mantenere fino in fondo questo duplice punto dialettico riguardante il reale in tutta la sua interezza, senza che nulla venga presupposto e senza che nulla sia desunto dalla divina sostanza. La creazione significa la causalità radicale del Primo Principio. Non è da una realtà preesistente che Dio hafatto il mondo, ma solo dalla sua potenza e dal nulla di ogni altra cosa. Dio è l’Essere medesimo sussistente, «Colui che è», ed è la sorgente di tutti gli esseri. Nulla viene all’esistenza se non per una misteriosa comunicazione dell’essere creatore, e ciò che viene all’esistenza non entra in composizione, né fa addizione con ciò che è il suo principio. «Tutto ciò che esiste o è l’Essere per essenza o esiste per partecipazione» (De mor. Eccl. cath., II, 4, 6); le cose mutabili non sono Dio, ma procedono da lui.

Lo scoglio nello stabilire una dottrina coerente e profonda della creazione sta nell’antropomorfismo, cioè nella tendenza del nostro spirito a concepire e ad esprimere in modo umano, anzi troppo umano, il rapporto tra la durata propria di Dio e quella delle creature, dimenticando di continuo che la prima è di un’altra natura, è trascendente e non si compone affatto con la seconda. E l’antropomorfismo si supera solo, ammonisce Agostino, quando comprendiamo che non vi è di fatto nulla di presupposto alla creazione, che non esiste un tempo all’indietro, cioè un tempo prima del tempo, in una specie di anteriorità illusoria e assurda[30], che il mondo è stato fatto «non in tempore, sed cum tempore» (De civ. Dei, XI, 6); e che, infine, concetto ancora più profondo, mentre noi continuiamo ad essere per l’atto creatore che ci ha chiamato all’esistenza, la creazione è di per sé atto intemporale e indivisibile in quanto dipendenza dell’essere creato dal suo principio[31].

In un testo dell’Ecclesiastico (18, 1) si afferma: «Colui che vive eternamente creò ogni cosa simultaneamente». Il termine reso una volta con «simultaneamente » oggi è tradotto «senza eccezione», ma il problema rimane. I giorni nel racconto della Genesi possono essere spiegati senza introdurre una divisione nel tempo? Dio ha creato all’inizio tutte le cose e dal nulla e ora produce tutto ciò che viene all’esistenza senza per questo produrlo dal nulla. Le cose, dunque, sono prodotte in due tappe. All’inizio, alcune sono prodotte nella loro determinazione e compiutezza, altre, come in germe, relativamente indeterminate e incompiute, nelle loro cause e ragioni seminali. Più tardi, anche queste, venute per così dire alla maturità, appaiono nella loro forma propria. Le ragioni seminali rappresentano le cose future nella loro condizione primitiva. Le ragioni seminali fanno quindi parte del mondo creato, sono forze primordiali, virtualità in sviluppo la cui attività successiva, più o meno prolungata, più o meno complessa, secondo i casi, condurrà all’esistenza attuale sia germi propriamente detti, sia individui compiuti di una data specie. L’azione di Dio, che muove e governa il mondo attraverso l’esplicitazione e il divenire delle ragioni seminali, è sempre creatrice, pur facendo venire all’esistenza gli esseri da ciò che già esiste, attraverso il concorso di molteplici forze e circostanze. Tutto ciò costituisce la storia del mondo, la realtà accertabile di un’invisibile, ma effettiva «creazione continua», in cui le ragioni causali degli avvenimenti, le loro possibili linee di svolgimento sono inscritte nelle cose stesse. Al primo istante dello slancio creatore risale l’esistenza delle ragioni seminali di ciascuna delle innumerevoli specie che, più tardi, e ciascuna a suo tempo, sono apparse nel nostro globo. Inoltre il concetto di ragione seminale non si applica solo alla produzione di un essere, ma anche ai diversi stati di un essere compiuto e perfetto, relativamente ai suoi stati seguenti. Tra lo stato di potenzialità, d’implicazione, di abbozzo delle ragioni seminali e l’effettivo attuarsi delle loro linee di sviluppo in individui dell’una o dell’altra specie, che a loro volta si fanno portatori della ragione seminale di altri esseri della propria specie, vi è progresso e progresso reale, sostanziale. L’evoluzione ipotizzata da Agostino è profonda, ma è evoluzione in cui c’è creazione, svolgimento di una finalità intrinseca, concorso e interazione di cause diverse. Le forze naturali in gioco producono risultati veramente nuovi, la mobilità del mondo non è un’illusione, così come la molteplicità degli esseri e l’emergere di perfezioni che prima non erano.

Denunciata l’assurdità di un tempo vuoto, presupposto esistente anteriormente agli esseri di cui dovrebbe misurare il divenire, rimane però da spiegare che cosa è propriamente il tempo. L’excursus sul tempo, uno dei vertici della speculazione agostiniana, è nell’XI libro delle Confessioni. Il tempo ha indubbiamente qualcosa che sfugge alla nostra presa. «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so, se voglio spiegarlo a chi me ne domanda, non lo so più» (Conf., XI, 14). Sembra che l’essenza del tempo sia di non averne una. Le tre dimensioni del tempo sono: il passato, il presente, il futuro. Ma il passato non è più, il presente scivola inesorabilmente nel passato, il futuro non è ancora. La radicale frammentarietà del tempo esclude dunque una sua propria durata? E tuttavia, non senza ragione, noi parliamo con certezza di eventi del passato e del presente e giudichiamo il tempo del loro svolgimento lungo o breve; e così pure misuriamo il tempo che ci separa da eventi futuri. Com’è possibile ciò?

Per risolvere questo problema, c’è chi propone di identificare il tempo con il movimento. Ma una cosa è il movimento che il tempo misura, altra cosa è il tempo che lo misura. Col tempo misuriamo il movimento, ma il tempo con che cosa lo misuriamo? La lunghezza di un verso è data dalla combinazione delle sillabe; ma una tale misura coincide solo con l’estensione spaziale del verso. Infatti un verso, pur essendo breve, può essere opportunamente pronunciato in modo da durare molto di più di un verso lungo, e inversamente. Non è dunque nella dimensione spaziale, di un verso o di qualsiasi altra cosa, che occorre cercare la vera misura del tempo reale, vissuto. «È in te, anima mia, che misuro i tempi (in te, anime meus, tempora metior)»[32]. È nell’anima che si trova l’estensione del tempo. «Mi è sembrato che il tempo non è altro che estensione; ma di che cosa? Non lo so, ma sarei sorpreso se non fosse estensione della stessa anima» (Conf., XI, 26). Il tempo è una distensio animi, un modo di essere dell’anima, una dimensione propria della coscienza, reale quanto reale è l’anima.

La durata reale dell’anima non è un punto indivisibile, ma un’estensione sui generis, una praesens attentio, un’attenzione attiva, in cui la coscienza rende possibile, con l’intuizione del presente, la memoria del passato e l’attesa del futuro (Conf., XI, 28). Nella coscienza, sotto il suo sguardo attento, noi sperimentiamo la durata del nostro io e misuriamo il tempo in quanto presenza di un ricordo, presenza di un’attesa, presenza di un’intuizione attuale. Grazie all’attività spirituale dell’anima umana, le tre dimensioni del tempo vengono a coincidere e così, pur nella sua finitezza, l’anima umana scopre in sé un’immagine, inadeguata ma vera, dell’Assoluto in quanto «eterno presente ». Che senso può avere allora chiedersi che cosa faceva Dio prima di creare, dal momento che anche una coscienza umana raccoglie nella sua attenzione presente il passato e il futuro? E nondimeno l’uomo non può comprendere appieno le relazioni del tempo creato all’eternità creatrice se non nell’istante in cui egli stesso passa dal tempo all’eternità (Conf., XI, 11).

  1. Il problema del male

Al problema del male Agostino dedicò un’attenzione continua, prima e dopo la conversione. Il suo contributo fu così decisivo da passare per intero nel pensiero cristiano. Da giovane, Agostino incontrò il dualismo manicheo, secondo cui il male è una sostanza reale, un assoluto cattivo, e l’uomo è ridotto a teatro di una lotta cosmica tra il bene e il male. Agostino, convertito, pervenne invece alla conclusione che il male non è un supremo principio metafisico, né una fatalità che la coscienza debba subire passivamente. Plotino suggeriva al problema una risposta simile a quella di Platone: il male è la materia. Plotino afferma che i mali derivano dalla «natura originaria», come egli chiama la materia (Enneadi, I, 8, 7). «La materia – scrive testualmente Plotino – è, per l’anima, causa di debolezza e causa di malvagità. Già cattiva in precedenza, essa, anzi, è il primo Male; e, difatti, quando l’anima si accomuna alla materia e diventa cattiva, la causa della sua malvagità è sempre la materia, con la sua semplice presenza» (Enneadi, I, 8, 14). Agostino rifiuta la tesi di Plotino perché, a suo avviso, non è una soluzione, ma solo un alibi per un Dio non creatore. Per Agostino, pervenuto all’affermazione razionale dell’esistenza di Dio creatore, l’ipotesi di una materia increata, coeterna a Dio e responsabile del male, è un politeismo ridotto; e, d’altra parte, ammettere che la materia sia al tempo stesso creata da Dio e cattiva è un pessimismo impossibile, un assurdo logico. Il principio della materia come male è una scappatoia: se la materia esiste, è anch’essa opera dell’unico Dio creatore, «il Padre dal quale derivano tutte le cose e a causa del quale noi esistiamo» (1Cor., 8, 6) – e in ciò si ingannavano i manichei; e se la materia è opera di Dio, anch’essa è buona – e in ciò si ingannava Plotino. La materia non è il principio del male e del male si dovrà cercare la causa altrove e non nella materia[33], nel corporeo, nel biologico. Un Dio buono, che fa tutto dal nulla e conferisce gratuitamente agli esseri che crea l’esistenza e la natura, assume della sua opera, poiché ne è il solo autore, tutta la responsabilità[34]. Ma allora come spiegare la presenza del male in un universo creato da Dio? Se Dio esiste ed è creatore, di dove viene il male?

La considerazione-chiave con cui Agostino rovescia la prospettiva, sostituendo la ricerca allo scandalo, è straordinariamente semplice e penetrante: «il male non è una sostanza perché, se fosse una sostanza, sarebbe bene» (Conf., VII, 12); «il male non rappresenta nessuna natura e non sta a significare altro che la privazione di un bene» (De civ. Dei, XI, 22). Il male, come male, non è una sostanza, una positività, un essere, ma è privazione e accidentalità. È privazione di un bene inerente alla natura di un essere, è assenza di un bene dovuto, così come la cecità è per l’uomo privazione della capacità di vedere. Tanto è il male, quanto è il grado di corruzione di ciò che fa la bellezza, l’ordine, la funzionalità di un essere. Non si può, quindi, pensare un male se non in relazione a un bene: ogni volta che si parla di male, si suppone implicitamente la presenza di un bene. Il male è una privazione che sta in un bene come nel suo soggetto. Ha senso solo in rapporto a un bene positivo a cui manca la propria perfezione. Ciò che non esiste non soffre certo deficienze e mali; mentre ciò che esiste è in sé buono, altrimenti non potrebbe corrompersi. Il male non ha una sussistenza propria e se il bene di un essere sparisse interamente svanirebbe l’essere stesso. Occorre sempre distinguere nell’essere ciò che costituisce la sua natura – il che è positivo – e ciò che la altera, la devia – ciò che, invece, è privativo. L’essere esiste come realtà positiva, il male esiste come privazione[35]. Agostino non nega affatto la realtà esistenziale del male, la carica negativa di ogni positività capovolta. Il male non è sostanza, ma non per questo è inesistente. Nella dottrina agostiniana si evita rigorosamente il dualismo, ma il male non è vanificato con qualche artificio dialettico, come succederà a Spinoza e a Hegel[36].

Il male è privazione e la privazione è in rapporto all’essere che colpisce; essa varierà, pertanto, a seconda di come varieranno le forme dell’essere. Vi è, quindi, un male fisico nel mondo della natura e dei corpi, e vi è un male morale, che nasce dall’esercizio della libertà. Prima, però, di esaminare l’una e l’altra forma di male, è opportuno sgombrare il terreno da uno pseudo problema – quello che poi sarà indicato col termine di male metafisico, da Leibniz, nei Saggi di teodicea (1710) – per cui si considera male non la privazione di un bene dovuto, la deviazione di una positività, ma la stessa limitazione che è essenziale ad ogni creatura in quanto tale. Come si fa a dire – protesta Agostino – che un essere è imperfetto e persino cattivo perché non ha la natura di un altro essere, avendo il bene che è proprio del suo essere? Un concetto così falso e deviante confonde il male con ciò che non è più il male e serve ad alimentare in ogni tempo le più assurde fantasticherie («se Dio esistesse, come potrei sopportare di non essere Dio?», scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra, «Sulle isole beate», 35). Create ex nihilo, le cose sono e sono buone; ma la finitezza è inscritta nella loro natura, è inerente allo stato degli esseri creati. La loro perfezione sta nello sviluppo di ciò che fa l’armonia, l’ordine, la bellezza del loro essere. È del tutto impossibile pretendere che Dio crei creature immutabili e, in ultima analisi, identiche a se stesso. Se le creature fossero identiche a Dio, sarebbero Dio e non ci sarebbero affatto creature. Il limite, la determinazione di un essere attesta il possesso, la positività di una natura; la mutabilità, la contingenza non è il male, ma tutt’al più la sua possibilità, la quale a sua volta non esclude, anzi esige, la positività di ciò che è, perché ciò che esiste, in quanto esiste, è essere e quindi bene.

Per quanto riguarda il male fisico, cioè nel mondo della natura e dei corpi, occorre considerare che la creazione risulta buona e bella a causa della sua diversità, del suo ordinamento, e quindi anche a causa delle opposizioni che inevitabilmente ne derivano e malgrado alcuni particolari inconvenienti che l’insieme dell’universo comporta. Ciò che a una visione parziale può apparire imperfezione di dettagli, a una riflessione più attenta si disvela coefficiente di armonia del tutto. Se ciascuna cosa è buona, l’insieme lo è assai di più. Vi è bellezza e perfezione nella grandiosa, ininterrotta successione degli esseri, nel loro continuo sparire e rimpiazzarsi. In un discorso ben strutturato è bello che le sillabe che lo compongono scorrano senza sosta e che ognuna di esse muoia per lasciar nascere quella che la seguirà; allo stesso modo, l’universo dura come un poema il cui svolgimento, nel succedersi dei suoni e degli stessi silenzi, ne fa la bellezza (De ordine, I, 1, 2; De civ. Dei, XI, 22 e XII, 4, 5; De natura boni, 8). Nondimeno il dolore, la malattia, la morte rimangono qualcosa di inesplicabile quando si tratta, appunto, di un male che colpisce gli esseri umani. Il dolore di un uomo è il dolore di una persona, di un soggetto che ha dignità di fine, e non è soltanto un animale di natura, una parte infinitesimale dell’universo fisico e storico. Ciò che nel resto della natura non è che privazione e corruzione, per gli uomini è miseria; per cui proprio su questo aspetto della vita si deve invocare la luce della rivelazione. Il male fisico si spiega solo in quanto conseguenza di un male morale: «ogni male o è peccato o conseguenza del peccato (omne quod dicitur malum, aut peccatum est, aut poena peccati)»[37]. Penetrando nell’anima, il male sregola nello stesso tempo il corpo che l’anima ravviva, così come il disordine si introduce in una casa quando penetra nel cuore del padrone. La sofferenza fisica attanaglia l’uomo e non c’è sofisma che possa dissolvere un’esperienza così universale. Non è lecito cavarsela con l’affermazione che tutto dipende dal giudizio che diamo su quello che accade a noi, pur essendo fuori della presa del nostro volere. Certo gli stoici hanno visto giusto quando hanno affermato che, dal punto di vista morale, si può far buon uso anche della malattia e cattivo uso della salute; ma è assurdo porre sullo stesso piano salute e malattia e giudicarle indifferenti. È invece più che naturale che alla presenza del male fisico si accompagnino la tristezza e il dolore; la loro assenza, infatti, significherebbe che il male non è sentito o non è stimato tale. Il dolore è la coscienza di uno strappo, di un bene che ci viene tolto, ed entra nel vivo della nostra esistenza. Nel soffrire, però, si manifesta la serietà che siamo capaci di attribuire alla vita e l’uomo può, con l’aiuto di Dio che sorregge e avvalora il suo sforzo, dare un significato positivo alla sofferenza.

La tesi centrale di Agostino, come si è visto, è che il male non è solamente una privazione, ma una privazione che si annida in un bene come nel suo soggetto. Questo principio va specialmente applicato al male morale, o peccato. Ciò che deforma la proporzione, l’ordine, la bellezza di un atto libero, lo rende cattivo; ma l’atto libero e la capacità di scelta da cui emana, la volontà libera, il libero arbitrio, sono di per sé beni. Nel mondo dei corpi vi sono molte cose di cui noi possiamo fare cattivo uso; ma questa non è affatto una ragione per dire che sono cattive. Le mani sono organi preziosi del corpo, anche se un malfattore se ne serve per compiere un delitto. Allo stesso modo la volontà è in sé buona, poiché senza di essa nulla si potrebbe compiere di ciò che è bene; ma essa può essere male usata. La possibilità di questo uso cattivo della volontà è condizione perché anche il bene morale esista. È dunque vano chiedersi come un Dio perfetto abbia potuto dotare l’uomo di una volontà che può peccare. Soggetto personale di una volontà libera, l’uomo può venir meno al suo compito e alla dignità che gli è propria. Essere liberi significa poter scegliere e poter scegliere è per definizione poter scegliere anche il male. Se gli uomini fossero sottomessi alla necessità di peccare, sarebbero mostri assurdi; ma se non avessero la possibilità di peccare sarebbero creature immutabili, ossia contraddizioni metafisiche realizzate.

Ma in che cosa consiste il male morale? Come si produce nella volontà? E può forse il male dell’uomo esser fatto risalire all’Autore stesso dell’uomo? Il male morale nasce da una privazione di rettitudine, da un’intenzione contraria all’ordine proprio della natura di chi lo compie. Il peccato, il vizio, la malvagità sono forme diverse di uno stesso rifiuto, il rifiuto dell’ordo amoris (De civ. Dei, XV, 22) che ci è comandato dalla ragione, e dunque risale alla sapienza creatrice di Dio. Dio ha «concreato» la legge naturale insieme agli esseri chiamati all’esistenza, per il fatto che la regola della loro attività è inscritta nella loro essenza, nella struttura del loro essere. Se un fatto è moralmente buono, quando si accorda con la natura razionale di colui che lo compie, un atto moralmente riprovevole è prima di tutto un far tacere la ragione, un distorcerla, un estraniarsi dell’uomo dal suo io profondo. Si comprende allora perché suoni così categorica l’espressione di Agostino: «ogni vizio, per il fatto di essere tale, è contro natura (omne vitium eo ipso quod vitium est, contra natura est)»[38]. Violare la ragione, regola prossima dei nostri atti, è violarne la regola prima e fondamentale, cioè la legge eterna, da cui deriva la legge naturale della ragione che di quella è l’analogo creato. Se la ragione è la regola che misura la bontà o la malvagità del nostro volere, essa lo è grazie alla legge divina, splendente in noi per via di partecipazione, secondo le memorabili parole del salmista: «Molti dicono: chi ci mostrerà ciò che è bene? Segnato è su di noi il lume del tuo volto, Signore (Multi dicunt: quis ostendit nobis bona? Signatum est in nobis lumen vulti tui, Domine)»[39]. In tal senso, la misura della nostra ragion pratica è Dio e la sorgente rimane tutta interiore, perché la legge divina, che ci governa, si coglie e si esprime in noi con l’organo della ragione. Se il bene e il male morale si definiscono in rapporto alla ragione informata dalla legge divina, se la radice e la regola prima della ragione è in Dio, ogni misconoscimento pratico e ogni rifiuto della ragione è, nello stesso tempo, misconoscimento pratico e rifiuto di Dio.

La volontà è veramente buona quando ogni sua scelta è nella linea dell’ultimo fine di diritto della vita umana, del sommo bene oggettivo e trascendente. Rivolgendo altrove la nostra intenzione, noi non possiamo che renderla oggettivamente cattiva (En. in Ps., 57, 1). Sovvertendo l’ordine dei valori, l’uomo sovverte il disegno della creazione, invece di lavorare a restituire l’universo all’intenzione per cui fu creato. Nel momento in cui manca alla razionalità della sua natura, diminuisce la sua umanità e mette direttamente in gioco la relazione fondamentale che lo unisce a Dio. In tal senso ogni peccato è sempre aversio a Deo, separazione da Dio. Volgendo le spalle alla legge morale e alla sua divina sorgente, l’uomo si priva del solo fine in cui si trova la sua beatitudine, poiché chi fece l’uomo, è pure il solo che possa farlo felice. Non scegliere un bene che mi elevi e mi avvicini al mio ultimo fine di diritto: ecco il male morale. Il male morale, infatti, non consiste nel desiderare un oggetto cattivo in sé, poiché, come si è visto, la nozione di un tale oggetto è contraddittoria: il male morale sta nel disertare i beni migliori («iniquitas est desertio meliorum», De natura boni 20), alla cui scelta l’uomo è sollecitato. Ogni scelta che sia moralmente qualificabile avviene tra beni di diverso valore, entrambi capaci di sollecitare il nostro desiderio, e quindi anche in fondo al peggior peccato c’è sempre un bene di cui si vuol fruire, un bene parziale indebitamente assolutizzato. Il male non può essere voluto dall’uomo se non sub ratione boni (Agostino ha analizzato magistralmente questo aspetto del problema nel II libro delle Confessioni). Non si desidera il male per il male, nessuno vuole la privazione in quanto privazione; si spera sempre un qualche guadagno, un bene. E tuttavia, essendo voluto fuori e contro la legge morale, il bene desiderato o acquisito è pagato a caro prezzo. Il male sarà tanto più grande quanto maggiore è il bene che ad esso si aggrega e che ne viene deformato.

In conclusione: il male morale nasce da un «movimento di deficienza» (De lib. arb., II, 20, 54), cioè da un «no», da una non-considerazione, da un rigetto della legge morale. Il carattere formale per cui un atto è peccaminoso sta proprio nel suo deficere, cioè nel venir meno, nel sottrarsi alla legge morale:

«Nessuno pertanto chieda la causa efficiente della volontà cattiva; questa, infatti, non è efficiente, ma deficiente e la sua non è un’azione, ma una defezione. […] Voler cercare la causa di una defezione, di una mancanza di essere, è come voler sentire il silenzio e vedere le tenebre» (De civ. Dei, XII, 7).

La volontà basta a se stessa per farsi cattiva. Cercare al di là di essa l’origine dell’atto peccaminoso non si può, così come «non possiamo cercare la radice della radice (radicem radicis quaerere non possumus)»[40]. La sintesi perfetta del suo pensiero sul male morale Agostino ce la offre in un passo del De civitate Dei:

«La volontà sta in una natura che fu fatta buona da un Dio buono, mutabile però da un Dio immutabile. Perciò può essa deviare dal bene per fare il male, il che si fa col libero arbitrio; e può lasciare il male per fare il bene, il che non si fa senza il divino aiuto» (XV, 21).

  1. Libero arbitrio, libertà morale, grazia

Strettamente congiunto al problema del male è il problema della libertà, anch’esso presente alla mente di Agostino dalla prima gioventù fino alla morte. Contro i manichei, che dissolvevano la responsabilità del male in un emanatismo originato dal principio del male, difese la realtà metafisica, psicologica e morale della libertà; contro i pelagiani dovette insieme affermarla e mantenerne i limiti, precisare le condizioni del suo esercizio. L’autocoscienza mi fa constatare che io sono, penso, vivo. Ciò è evidente. Ma che io voglia vivere, ciò non è meno evidente. La mia volontà, dunque, è un fatto sottratto a ogni discussione possibile. Volere significa usare il libero arbitrio, esercitare la capacità di scegliere. Certamente la scelta volontaria, qualità precipua dell’agire umano, non è mai un volere bruto, non è mai senza motivo. Una pietra non cade senza una causa, ma cade senza motivi; il libero arbitrio, al contrario, sarebbe una nozione impossibile e contraddittoria se non fosse una scelta che si esercita in virtù di motivi e di intenzioni. I motivi e le intenzioni non sono esteriori però alla volontà, perché la volontà manifesta se stessa proprio nel far suoi alcuni di essi piuttosto che altri. È ciò che la volontà ama che dà peso e consistenza (pondus amoris) alle sue scelte. Sul dato di fatto, da tutti sperimentabile, del nostro potere di fare o non fare una certa cosa, nelle Confessioni si invoca l’immediata testimonianza della coscienza. «Mi confortava il sentirmi certo di possedere una volontà, così come mi sentivo certo di vivere. Perciò nel volere o nel non volere ero sicurissimo che io e non altri era colui che voleva o non voleva» (VII, 3). Possiamo essere costretti a fare qualcosa, ma nessuno può costringerci a volerla. Un uomo non può essere buono o felice per comando, per decreto altrui, così come non può possedere la prudenza e la fortezza di un altro. Nessuno può mangiare con la bocca di un altro; nessuno può volere con la volontà di un altro. L’uomo non sarebbe quello che è, se non avesse una volontà personale, se non fosse costitutivo (congenitum) del suo essere il libero arbitrio.

L’uomo, perché libero, ratifica col suo fiat il bene che gli è proposto, ma non imposto. Dio crea l’uomo libero, ravvisando in ciò un’alta perfezione per la creatura razionale e la condizione di ogni suo ulteriore perfezionamento. L’uomo è pertanto chiamato a crescere e a cooperare alla propria genesi, per consenso libero e personale, e osserva volontariamente la volontà di Dio, come volontariamente la disattende. L’uomo non è costretto da Dio, perché «in Dio non esiste violenza», secondo la profonda espressione di Ireneo (Adv. Haer., IV, 37, 1). È vano, osserva Agostino, negare, come fanno gli eretici, il bene fondamentale del libero arbitrio a causa delle conseguenze spesso infelici che derivano dal suo esercizio. Il libero arbitrio è la libertà di scelta o libertà psicologica, la possibilità del bene o del male volontario («boni malique volontarii possibilitas», Opus imp. contra Julian. VI, 11). È un bene, e un gran bene, e tuttavia è ancora una «libertas minor». La libertà di scelta è un bene, ma non per questo la volontà è sempre buona. Non basta poter scegliere; occorre anche scegliere e attuare ciò che è bene. Nessuno può minimizzare e tanto meno negare la tremenda negatività del male morale. Solo l’esercizio perfettivo della libertà di scelta mette capo a un’altra libertà, alla «libertas maior», alla libertà morale, o «bene operandi libertas» (Enchiridion, 32).

Ma come è possibile operare il passaggio dalla «libertas minor» alla «libertas maior», dalla libertà di scelta alla libertà morale? Se per fare il male l’uomo basta a se stesso, il bene lo opera sempre in unione con colui che è il Bene stesso, aprendosi al suo soccorso e alla sua ispirazione. Il bene l’uomo lo compie in sinergia con Dio, perché ogni vero bene morale tende a Dio e ha Dio per autore. Ciò è vero sempre, in ogni stato e condizione dell’uomo: vale per Adamo, qual era al mattino della creazione, e vale ancor più per noi che sperimentiamo ogni giorno la possibilità dell’errore, il disordine di certe inclinazioni, la debolezza del volere. La libertà morale, che completa nell’uomo l’immagine divina, è sempre una creazione di vita, e della più alta vita, creazione che ha Dio per autore e l’uomo per insostituibile cooperatore. Di qui l’invocazione breve e ardente: «dammi [Signore] ciò che tu comandi, e comanda ciò che tu vuoi (da quod jubes, et jube quod vis)»[41]. Questa concezione agostiniana e la formula stessa, ora citata, che la riassume furono ben presto animatamente contraddette e respinte[42] da Pelagio – un monaco «laico», cioè non investito del sacerdozio, inglese di origine, che Gerolamo dipinge «largo di spalle e corpulento» (Ep., 50, 4), «dal passo lento e grave di tartaruga» (Dial. adv. Pelag., III, 16). Per Pelagio, campione dell’ascesi pura, Agostino era rimasto manicheo, senza saperlo: negava il libero arbitrio nel momento in cui affermava che nessuno può agire con rettitudine senza l’aiuto di Dio. L’uomo, infatti, secondo il monaco inglese, perviene alla perfetta giustizia con i soli suoi meriti. La grazia è nient’altro che il dono con cui Dio corona i meriti dell’uomo. La grazia è anche perdono dei peccati, una volta che questi siano stati commessi; ma non è affatto un soccorso che muove al bene la volontà dell’uomo, perché questa, conservando intatto, con la sua bontà naturale, il potere di fare il bene con le sole sue forze, non ha bisogno di alcun aiuto. L’essenza del pelagianesimo, quale Agostino la comprese, si può riassumere in due proposizioni. La prima è: «Dio mi ha fatto uomo, io mi faccio giusto (Deus me hominem fecit, iustum me facio)». La seconda: «Deve l’uomo essere senza peccato? Senza dubbio lo deve. Se deve, può (Debet homo sine peccato esse? Procul dubio debet. Si debet, potest)». Come si vede qui si va a un tempo alla radice di alcuni grandi problemi filosofici e ai fondamenti della fede cristiana. Agostino fu impegnato nella controversia pelagiana dal 412 alla morte e con avversari di «forte e vivace ingegno», di grande levatura: Pelagio e il discepolo cartaginese Celestio; il focoso Giuliano, vescovo di Eclano, in Campania; i monaci di Adrumeto e di Marsiglia. Il primo periodo fu quello del dibattito positivo e sereno; il secondo, il periodo dell’accesa polemica; il terzo, il periodo dei chiarimenti in famiglia.

Agostino loda in Pelagio lo zelo «contro coloro che, peccando, invece di accusare la volontà umana, cercano di scusarsi accusando la natura umana » (De natura et gratia, I, 1); ma vede nella tesi pelagiana, di là delle buone intenzioni dell’asceta e del credente, un’oscillazione inevitabile fra il pieno riconoscimento del legame profondo che unisce l’uomo a Dio e il naturalismo assoluto di chi non vuol esser debitore ad alcuno di alcuna cosa, di chi basta a se stesso, come presumeva il saggio stoico, e pretende di essere beato entro i limiti della propria natura. Secondo Agostino, il pelagianesimo si fonda su di una visione astratta della vita umana, del tutto inadeguata alla complessità delle motivazioni del nostro agire. Il rapporto tra l’uomo e Dio, come Pelagio lo concepisce, non può sfuggire al più radicale e deprecabile «estrinsecismo». Come ironicamente notava Gerolamo, Pelagio pensa che Dio abbia caricato l’uomo, una volta per tutte, come un orologio, e poi si sia messo a dormire. Agli occhi di Agostino, invece, l’uomo e Dio non sono due forze parallele, una di fronte all’altra, né due individui estranei. A quale falsa rappresentazione di Dio pensa il pelagiano, si chiede Agostino, per vantare nei confronti dell’Assoluto i suoi diritti di «adulto», di «sottratto alla dipendenza paterna», di «emancipato da Dio (emancipatus a Deo)»[43]? La grazia di Dio è il suo amore per noi e non è affatto riducibile né alla stessa libertà di scelta dell’uomo, né a una notarile «presa d’atto» da parte di Dio, a evento concluso, di ciò che l’uomo ha fatto con le sole sue forze, senza Dio[44]. Agostino, come san Paolo (1 Cor., 4, 7), fa sua la protesta del Salmista «Che cosa hai tu [uomo] che non abbia ricevuto? (Quid habes, quod non accepisti?)»[45]. Ma proprio questa celebre espressione, lungi dal negare il libero arbitrio, lo implica. Infatti ricevere significa accogliere, aderire, e «consentire all’appello di Dio o dissentire da esso è della propria volontà» (De spiritu et litt., 34, 60), della volontà personale del singolo. Dio non esige ciò che è impossibile («Deus impossibilia non jubet», De natura et gratia, 43, 5). Egli viene in aiuto all’uomo, non per dispensarlo dall’agire, ma perché agisca bene. Il libero arbitrio non è tolto perché è soccorso dalla grazia divina, ma è soccorso perché sia reso capace di conseguire la libertà morale, la libertas bene operandi[46]. Non c’è una grazia vittoriosa contro la volontà, ma una volontà vittoriosa per mezzo della grazia:

«Annulliamo il libero arbitrio per mezzo della grazia? Non sia mai. Anzi stabiliamo il valore del libero arbitrio. Il libero arbitrio non viene annullato, ma viene stabilito per mezzo della grazia, perché la grazia sana la volontà e la volontà sanata ama liberamente la giustizia» (De spiritu et litt., 30, 52).

La libertas bene operandi non si consegue di colpo, né mai interamente; si articola in tappe progressive e non ha nulla a che fare con «l’impeccabilità» di cui parlava Celestio. Come e quando, si chiede Agostino, può essere realizzato uno stato di perfetta giustizia, cioè di santità e amore? L’impeccabilità non è la condizione dell’homo viator e ogni progresso nel bene non è ancora la libertà piena dei figli di Dio. Il rinnovamento dell’uomo vecchio non è mai totale ed è sempre da portare a compimento, fino all’ultimo respiro. Finché sono in cammino, anche i buoni devono gemere e lottare duramente perché anch’essi sentono nelle loro membra un’altra legge in conflitto con la legge della ragione. Sperimentano la libertà morale, ma solo in parte. «La libertà non è ancora tutta, non ancora pura, non ancora piena, perché non siamo ancora nell’eternità» (In Jo. ev., XL, 13).

«Il problema della grazia e della libertà è così difficile da essere analizzato e compreso – notava giustamente Agostino – che quando si difende la libertà, pare di negare la grazia divina e quando invece si sostiene la grazia, sembra che se ne vada la libertà» (De gratia et lib. arb., 52). E accade che «quando insistiamo presso i pelagiani perché non neghino certe verità […] ci rispondono con le nebbie di altre questioni: la lode delle creature, la lode delle nozze, la lode del libero arbitrio, la lode dei santi; quasi che tra noi qualcuno vituperi queste cose» (Contra duas epistulas Pel., III, 8, 24). Questo rilievo acuto e semplice – che aiuta a capire un certo modo sofistico di discutere e, per contrasto, la linearità e il fondamentale equilibrio del pensiero agostiniano – fa toccare con mano quanto immeritata sia stata per un pensatore come Agostino la disgrazia postuma che gli è toccata di veder trarre dai suoi principi le più paradossali conseguenze[47]. Se Pelagio e i suoi non compresero il rigore e la profondità del pensiero di Agostino, la rappresentazione «manichea », pessimista e disumana che essi ne dettero, divenne, paradossalmente, per Lutero, Calvino e Giansenio (non agostiniani «eccessivi», come si suol dire, ma fautori di un agostinismo falsato) il «vero» Agostino. E così fu deformata in un rigorismo meschino e angusto «una delle dottrine più fluide forse e allo stesso tempo più vaste che siano mai esistite; in ogni caso, la più consapevole delle complessità e delle profondità della vita spirituale» (Henri de Lubac, Agostinismo e teologia moderna, trad. it. Jaca Book, Milano 1978).

  1. Il valore della storia

La vita dei singoli e dei popoli è nel tempo, è sempre nella storia e costituisce essa stessa la storia. Bisogna riconoscere un valore, un senso al cammino umano, ora trionfale ora doloroso, che si svolge attraverso la durata della storia, o la storia è nient’altro che un tessuto di cose labili, che inesorabilmente svaniscono nel nulla, col passare del tempo? A questa domanda Agostino risponde nel De civitate Dei, che già nella dedica dei primi tre libri, tredici anni prima di compierla, prevedeva «opera grande e ardua (magnum opus et arduum)» (I, 8)[48]. Il De civitate Dei meriterebbe già un posto di primo piano nella storia della cultura per il grande «lavoro di sgombro» compiuto con il triplice rifiuto della teoria dell’eterno ritorno, del perfettismo utopistico[49] e del conservatorismo come categoria storiografica e come forma mentis. Con il creazionismo un nuovo senso della storia si sostituisce a quello del ciclo. L’eterno ritorno – così ossessivamente presente nel pensiero greco – è per Agostino un mito che nega il carattere originale e contingente di ogni evento storico ed è pessimo surrogato dell’eternità di Dio. Per Agostino, invece, è impossibile trasformare il relativo, il contingente – ciò che l’esperienza e il ragionamento ci attestano che può essere o non essere, e può essere in un modo piuttosto che nell’altro – in qualcosa di assoluto e di necessario. Nel flusso della storia c’è compenetrazione del passato, del presente e del futuro atteso o temuto, c’è continuità nella novità, come in una coscienza, ma non c’è mai ripetizione dell’identico. Ciò che è stato è unico: fiorisce una sola volta, come l’agave mediterranea. Vi sono spesso analogie significative, talora fortemente ammonitrici, poiché la natura umana accomuna tutti i figli degli uomini, anche in tempi diversi; ma i soggetti, gli operatori degli eventi sono altri e altri sono gli eventi stessi. Agostino ha messo in luce a quale ludibrio sarebbe esposta la persona umana se fosse sottoposta al rinnovarsi perenne di un ciclo di vicissitudini e come sarebbe vana e inconsistente la beatitudine temporanea supposta dagli stoici (De civ. Dei, XII, 14, 21).

Né meno energica è la critica del perfettismo utopistico. Allora il perfettismo utopistico aveva un nome, il millenarismo; oggi ne ha altri, ma continua a portare con sé una forte suggestione ipnotica. La sostanza di ogni millenarismo è questa: prospettare una felicità terrena totale ed assoluta. Per Agostino, invece, una tesi del genere è fuori della storia ed implica una sospensione o la fine del corso storico. La storia, finché si va svolgendo, è invece progresso e regresso, è «militia et peregrinatio», è lotta, esodo, ricerca: non è la «Gerusalemme celeste». È assurdo confondere l’impegno perché questo mondo sia umanizzato, con il mito che fa della storia il luogo di una parusìa definitiva in terra, di un regno della giustizia piena e perfetta, senza errore e senza scacco, l’avvento di una società idilliaca i cui membri dovrebbero essere immutabilmente perfetti per rendere superflui ogni obbligo e vincolo giuridico! Se l’eterno ritorno annulla il relativo e il contingente, il perfettismo utopistico li divinizza, confondendo il fine subordinato della costruzione della città politica con il fine supremo e trascendente della vita umana. Di qui il carattere inevitabilmente idolatrico, illusorio, alienante di ogni ottimismo prognostico, il suo cader preda della corrente del divenire. La storia ci attesta che non vi è mai successo perfetto all’interno della storia temporale. Ogni civiltà è sempre perfezionabile, proprio perché non esiste «in nessun luogo» (utopia), né poté mai esistere, una civiltà perfetta. Costruire una civiltà è un compito sempre incompiuto e sempre da riprendere. Ogni millenarismo è una menzogna. Solo la città di Dio potrà darci la felicità vera e sicura, perché piena ed eterna. Ma non qui, ribadisce energicamente Agostino. Qui la possiede nella speranza, non nella realtà; e «la realtà presente, senza quella speranza, è una beatitudine falsa e una grande miseria» (De civ. Dei, XIX, 20).

Agostino ha anche attaccato l’assunto conservatore, fatto proprio da Porfirio, secondo cui ogni trasformazione è trasformazione in peggio, la novità è peggiore della stabilità e il presente non è da preferirsi al passato (Ep., 136, 2). «Ogni uomo sagace può constatare – scrive Agostino – la falsità di questa tesi, solo guardandosi attorno» (Ep., 138, 1). Non per questo, però, diventa ipso facto vera la tesi opposta. In realtà occorre far riferimento a ben altre categorie, che non il vecchio e il nuovo, la stabilità e il mutamento, quando si vuol afferrare il carattere intensamente drammatico della storia. Non ogni novità è condannabile e non è vero affatto che tutto il passato sia degno di essere giudicato positivamente. Certo, ciò che è assai distante può essere idealizzato senza pericolo, ma non è lecito confondere storia e mito. La critica di Agostino a non pochi tabù della storia romana si fa spesso radicale e penetrante; a lui sembrava che fosse ormai l’ora di dire «basta con i vani schermi dell’opinione corrente», «basta con la vernice» (De civ. Dei, III, 14, 40; 14, 60), «basta con tutte queste millanterie» (De civ. Dei, V, 17, 20). I meriti grandi di Roma e il suo effettivo contributo alla civiltà non legittimano la menzogna celebrativa, né l’occultamento dei lati negativi della sua pur straordinaria vicenda. Le qualità morali dei romani, assai più che l’estensione delle conquiste, avevano fatto sì che il loro impero, se non lo si poteva considerare privilegiato come nessun altro e meritevole di durare indefinitivamente, come pretendevano i pagani, fosse almeno migliore di tutti quelli che l’avevano preceduto. L’atteggiamento mentale per cui ci si rifiuta di considerare relativi i valori terreni realizzati nel corso di qualsiasi epoca storica, è acritico e improduttivo: chi si rinchiude nel fragile mondo che ha ereditato o che ha contribuito a costruire, è costretto a idealizzarlo ad oltranza, negando la presenza di ogni male nel suo passato e la certezza della morte nel suo futuro. Tentazione del resto spiegabile, come quella antitetica del perfettismo utopistico, persino per un ingegno onesto e acuto, qualora non abbia altra città da lodare che quella politica (De civ. Dei, III, 17, 34–37) e se il suo orizzonte coincida inesorabilmente con essa[50].

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Il senso profondo della storia sta nell’intreccio di bene e male, di valori e disvalori che la caratterizzano in ogni momento, nel bene che in essa si compie e nella lotta che in essa si combatte. La storia ha un significato profondo, universale, proprio perché l’agire umano rinvia sempre a un duplice atteggiamento spirituale, che si ritrova nei tempi e nei luoghi più diversi. Agostino riconduce la storia del mondo non, come farebbero i manichei, a due realtà, ma a due atteggiamenti opposti, che i singoli e i popoli assumono di fronte a una stessa realtà. Il duplice atteggiamento spirituale consiste in due principi diversi, in due modi di intendere e di vivere la storia. La radice ultima della intelligibilità della storia sta nei due amori che la caratterizzano e che sono all’origine delle due città[51]. Fecerunt civitates duas amores duo: «due diversi amori generarono le due città: l’amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio, generò la città terrena; l’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé[52], generò la città celeste» (De civ. Dei, XIV, 28). Non vi sono che due movimenti reali nel mondo umano: quello che va verso l’alto e verso la verità, o caritas, e quello che va verso il basso e s’allontana dalla verità per andare verso l’apparenza, o cupiditas. La civitas terrena è «la città dei figli della terra», cioè è quella società i cui membri, legati come sono dall’amore esclusivo o preponderante delle cose della terra, considerano questa la loro unica, vera città. È la città in cui l’uomo, dimentico di Dio, diventa idolatra di se stesso e dei suoi poteri. È la città in cui l’uomo calpesta o deforma la legge naturale, rifiuta la sua vocazione all’Eterno e si chiude nella finitezza dell’aldiquà, nell’ebbrezza di sé e dei suoi compiti terreni, conferendo ad essi, quali che siano, un valore assoluto o totale. La civitas terrena si compiace tanto più della sua libido dominandi quanto più è premuta dall’oscura coscienza di essere prigioniera dei suoi vizi. Un freudiano oggi parlerebbe di compensazione a un complesso di inferiorità. Altre connotazioni importanti, anche se variamente mascherate e associate, sono: la libidine del potere all’interno di una società e tra nazioni diverse; la violenza eretta a sistema; l’emarginazione e l’oppressione delle coscienze che non si piegano alla menzogna e alla brutalità; una falsa concezione del bene comune e l’appropriazione dei beni con ingiusta esclusione degli altri; la chiusura ad ogni autentica comunione con gli altri uomini e con Dio, la faziosità, il razzismo[53].

La città di Dio è la comunità invisibile, che si estende di là da ogni confine di tempo e di luogo, di quanti cercano, amano il bene e lottano per attuarlo nella situazione storica in cui sono chiamati a vivere. I suoi connotati sono esattamente opposti e irriducibili a quelli della città terrena e stanno ad essi come il valore al disvalore, il bene al male, la luce alle tenebre. In particolare alla libido dominandi essa oppone il servitium: nella casa dei giusti, quelli che comandano lo fanno non per orgoglio, per volontà di asservire, ma perché hanno il dovere di rendersi utili e il desiderio di provvedere. Dio ha stabilito che «l’essere ragionevole, creato a sua immagine, non dominasse che sugli esseri irragionevoli: non l’uomo sull’uomo, ma l’uomo sulle bestie » (De civ. Dei, XIX, 15). Non vi è che un unico genere umano diviso in due popoli, in due società umane, in due città. In ultima analisi, tutto ciò che si realizza nella storia in qualche modo appartiene alla città di Dio o alla «città avversa». L’umanità è come un unico uomo, le cui membra sono sparse su tutta la terra e che va crescendo attraverso lo scorrere dei secoli («tamquam in uno quodam homine diffuso toto orbe terrarum et succrescente per volumina saeculorum», Enarr. in Ps., 118, 16, 6)[54].

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Ma non basta distinguere le due città e metterle a confronto; occorre anche precisare i loro mutui rapporti come ci sono dati nell’esperienza storica. «Le due città in questo mondo sono intricate tra loro e confuse (perplexae quippe sunt istae duae civitates invicemque permixtae)»[55]. La formula è giustamente famosa e lo stesso Agostino per primo l’ha ripresa molto spesso. Infatti questa nozione di mescolanza inestricabile – permixtio, come per i gambi di vimini di un paniere, commixtio, come in una emulsione chimica – richiama esplicitamente la parabola evangelica della zizzania e del buon grano (Mt., 13, 24-30 e 36-43). Chi comprende una tale dottrina, non potrà mai più giudicare manicheisticamente (di qui tutti i buoni, di lì tutti i malvagi). Il limite che separa queste due città è praticamente indiscernibile ai nostri occhi e passa attraverso l’intimo del nostro cuore. Il sembiante interiore di ognuno, la sua vera bellezza o bruttezza, il suo grado di responsabilità morale non sono conosciuti appieno che da Dio. I fini su cui le due città effettivamente si fondano sono qualitativamente eterogenei, irriducibili, incommensurabili tra loro, riconoscibili in base all’universale esperienza morale e psicologica; ma l’appartenenza reale dei singoli all’una o all’altra città non è in potere dell’uomo discernerla.

Da un punto di vista più particolarmente sociale, Agostino constata che la storia ci mostra paurosi egoismi collettivi combattersi fra loro: si combattono fra loro i cattivi («pugnant inter se mali et mali»). Una banda di delinquenti elimina associazioni concorrenti, due imperialismi rivali si aggrediscono a vicenda. Più spesso sono alle prese i buoni e i cattivi («item pugnant inter se mali et boni»). E i buoni possono combattere fra loro? Non lo potrebbero fare, se tutti fossero perfetti; ma questa condizione è ben lungi dall’avverarsi nella realtà della storia. Ecco perché anch’essi si combattono, ciascuno attaccando, in nome del bene a cui tende, il male che vede nell’altro.

Un altro punto di contatto e di differenziazione tra le due città è costituito dalla ricerca della pace. La pace è un fine non solo normativo, ma anche, in un certo senso, costitutivo della società umana. Vi può essere una qualche pace senza guerra; ma una guerra ininterrotta senza pace, non ci può essere, perché porterebbe alla distruzione qualsiasi organismo sociale («est pax quaedam sine ullo bello, bellum vero sine aliqua pace non potest»)[56]. Per questa fondamentale ragione la pace temporale può, sotto un certo aspetto, costituire un terreno comune d’incontro tra le due città: «bonis malisque communis est» (De civ. Dei, XIX, 26). Per quanto opposte nelle loro finalità ispiratrici, l’una e l’altra, infatti, per sussistere hanno bisogno della pace, di un minimo di unione delle volontà nelle opere di pace, quali la produzione di quei beni adatti alla nostra condizione terrestre («bona huic vitae congrua») e indispensabili alla nostra vita mortale («res huic vitae mortali necessariae», De civ. Dei, XIX, 13, 14, 17). Gli abitanti della civitas terrena, malgrado tutto, possono benissimo desiderare e perseguire la pace, non fosse altro che per meglio garantirsi il godimento utilitario e voluttuario dei beni di questo mondo (edonismo). I cittadini della civitas Dei, quaggiù inseparabili dagli altri, non esagerano il valore dei beni del mondo, dei quali si servono con animo libero, anche per non accrescere la dipendenza dal corpo; dipendenza che rende più difficile l’esercizio retto dei poteri costitutivi della persona («aggravat animam», De civ. Dei, XIX, 17). L’uso dei beni è comune alle due città, ma il fine è profondamente diverso: l’una usa del mondo per ascendere a Dio e godere Dio; l’altra, anche se riconosce un Dio, pretende addirittura di usarne per godere il mondo (De civ. Dei, XV, 7, 1; XV, 15, 1; XIX, 17).

Lo Stato non è affatto la civitas terrena e la Chiesa visibile non può essere identificata ut sic con la città di Dio. Concezioni del genere, che autorizzerebbero soltanto un radicale pessimismo sul terreno politico-sociale e un grossolano trionfalismo in campo religioso, sono esplicitamente criticate da Agostino. Al contrario di quanto pensava Cicerone, possono esserci un popolo e uno Stato, senza che vi sia giustizia: allora le leggi e gli organi della struttura politica opprimono le persone, invece di servirne l’ordinato sviluppo. Allora lo Stato si fa totalitario, pagano e tende a identificarsi con la «città perversa». Nondimeno questo è pur sempre un processo di paurosa perversione, non qualcosa di connaturato alla realtà statuale e alla città temporale. Analogamente, la Chiesa visibile, per la sua missione e per la sua universalità, è sulla terra la prefigurazione meno inadeguata della città di Dio; è per tanta parte incamminata verso la città di Dio, ma non coincide puntualmente con essa. Società dei chiamati ad essere santi, empiricamente essa è composta soprattutto non di santi, ma di peccatori, di una umanità piagata negli spiriti e nei corpi, bisognosa di luce e di perdono, di comprensione e di aiuto. Tra i nemici della Chiesa ci possono essere eletti che si ignorano e che, per le più diverse circostanze di educazione e di esperienza, ignorano senza colpa la casa del Padre, la patria a cui anelano le loro anime generose; e tra i fedeli che riempiono le basiliche, mescolati a uomini che testimoniano la straordinaria bellezza di tutto ciò che è autenticamente cristiano, non mancano coloro la cui vita è essa stessa un tradimento della fede professata a parole, un ateismo pratico, un oltraggio a Dio e ai fratelli (De civ. Dei, I, 35).

La struttura stessa del «magnum opus et arduum» porta in primo piano il problema della presenza del male nella storia. Soprattutto nelle grandi dimensioni il male sembra avere la sua più tragica fecondità: celebrano le loro infami vittorie in questo mondo l’ingiustizia, la sopraffazione, il dispotismo, il razzismo, lo sfruttamento, il disordine costituito. Una collettività è tanto peggiore, precisa Agostino, quanto peggiori sono le cose che ama, quanto più immorali sono i fini a cui tende. Un egoismo non è mai «sacro» per il solo fatto di essere egoismo di una collettività; anzi diventa per questo più mostruoso e fuorviante. Ma anche qui, a ben vedere, il male appare come il rovescio e la perversione di un bene, nasce da una dedizione spesso eroica a ideali sbagliati (spesso alle forze del male sono associate le più alte virtù e allora queste si trovano mutate nella loro più orribile caricatura): è fuorviamento di energie e di istituzioni originate dagli uomini e che non sono condannate inesorabilmente a operare l’iniquità. La storia è ambivalente (anceps), come ambivalente, radicalmente ambivalente, è l’uomo che la fa. Il mistero della storia implica pertanto il mistero della nostra libertà e del suo rapportarsi a Dio. La storia, per quanto grande sia l’importanza dei fattori materiali che la condizionano, è fatta prima di tutto dall’incontro e dal conflitto fra la libertà increata di Dio e la libertà creata dagli uomini. Se l’iniziativa del bene è da Dio, pur esplicandosi con le invenzioni più diverse, a seconda delle personalità singole e delle situazioni storiche, l’iniziativa del male non può essere che dalle sole creature che operano senza o contro Dio. Il male non può esistere, a nessun titolo, nella volontà divina. È blasfemo pensare che Dio procuri il male per arrivare al bene, che voglia il peccato per arrivare alla redenzione. Una concezione del genere snatura l’uomo ed è indegna di Dio. Il male morale tende a distruggere l’opera divina e non si può supporre neppure per un istante ch’esso possa, anche indirettamente e per accidente, essere voluto da Dio[57]. La colpa morale non sarà mai, sotto nessun punto di vista, un bene in rapporto ad un ordine superiore qualsiasi; essa resterà sempre, in se stessa, un male ed è in ciò la sua tragica negatività. Ciò non toglie, ma questa è un’altra questione, che, essendo compiuto il male con la responsabilità della sola volontà creata, Dio, nella sua provvidenza («tutte le vie del Signore sono misericordia e carità,» Ps., 25, 10), lo faccia concorrere al bene del tutto e, fin dove lo permette l’umana capacità di rifiuto, al bene della stessa volontà peccatrice. «Dio non è artefice (operator), ma ordinatore (ordinator) dei peccati» (De Genesi ad litt., I, 33). Dio non può impedire ogni male, se non spegnendo il libero arbitrio di cui gli uomini sono ontologicamente dotati e senza di cui non ci sarebbe non solo il male, ma nessun bene morale, nessun dono di sé, nessuna vera grandezza e bellezza tra i figli degli uomini (ed in questo senso è vero che se tutti i mali fossero impediti, molti beni scomparirebbero). Del male, però, non si può attribuire la causa a Dio, poiché gli effetti che procedono dalla volontà creata si riconducono alla causa prima solo se conformi alla direzione di essa, non quando procedono da un volere orientato in senso contrario alla causa prima[58]. Dio non vuole, ma permette il male, in ragione del bene stesso e non del male che sfrutta o condiziona quel bene:

«Dio non permetterebbe mai ad un male qualsiasi di esistere nelle sue opere, se la sua onnipotenza e bontà non fossero tali da compiere il bene facendolo derivare anche dal male (ut bene faceret et de malo)» (Enchiridion, XI, 3).

Anche dallo scandalo del male può derivare il bene di un monito, un’occasione di risveglio della coscienza morale; ma guai agli operatori di scandali. La pazienza dei martiri suppone la persecuzione dei tiranni; ma questa rimane inescusabile. La provvidenza di Dio, che ricrea sempre di nuovo le potenzialità di bene nel mondo, non cancella la distinzione tra bene e male, tra vittime e carnefici, tra oppressi e oppressori. I fatti non sono tutti giustificati perché accaduti – come sostiene lo storicismo hegeliano e non hegeliano – ma esprimono o negano, attestano o conculcano quella legge morale che deve regolare la vita degli esseri razionali e che ha la sua fonte in Dio stesso. La provvidenza può piegare certi fatti a conclusioni del tutto impreviste e non volute da chi pure li aveva posti in essere: ma essa attua la sua economia di bontà, fa rientrare in un ordine superiore i mali che non può volere, orientando al bene ciascun essere secondo la sua natura (e la natura propria degli esseri intelligenti è di portarsi liberamente verso le cose che vogliono).

Contro il facile ottimismo, Agostino mette in rilievo le lotte che solcano la storia e la presenza del male nella storia. Ma contro la tentazione del pessimismo, così forte in ogni epoca di grave crisi, Agostino ricorda che la legge del progresso reale è di poter avanzare anche tra ostacoli e malvagità e che, in ultima analisi, il senso della storia è racchiuso nelle parole dell’Ecclesiaste: «contra malum bonum, et contra mortem vita».

  1. La città politica

La storia ha per oggetto la vita sociale dell’uomo («socialis vita hominis», De civ. Dei, XIX, 5). Era pertanto inevitabile per una grandiosa visione della storia, come quella agostiniana, prendere in esame i problemi essenziali della filosofia politica. Un luogo comune, in verità sfatato dalla critica, continua a circolare nella polemica di parte e nei manuali. L’autore del De civitate Dei non risparmiò critiche, come non lesinò ammirazione, alla civiltà e all’impero dei romani, onde si ritenne di poter concludere che Agostino, e per lui il cristianesimo, avesse condannato lo Stato in quanto tale. Il passo che si suole addurre per documentare il presunto odio di Agostino per lo Stato è il paragone, frammentariamente riferito, tra i regni (regna) e i grandi brigantaggi (magna latrocinia)[59]. Ma l’espressione autentica di Agostino include, e proprio nelle prime parole, un’ipotesi di non secondaria importanza: «tolta, infatti, la giustizia (remota itaque justitia), che cosa sono i regni, se non grandi brigantaggi (quid sunt regna nisi magna latrocinia)?». Saltare quell’ablativo assoluto, significa tradire il senso condizionale del celebre e tutt’altro che retorico paragone. La giustizia è la caratteristica essenziale della legittimità di uno Stato, il suo fondamento. La vita sociale e politica, la società temporale, lo Stato non sono un ordine di realtà condannabile, ma costituiscono il quadro normale in cui si dispiega la condizione umana creata da Dio. È naturale all’uomo la dimensione sociale e politica: a viverla nei suoi vari gradi e momenti egli è spinto «in un certo senso dalle leggi della natura (quodammodo naturae suae legibus)»[60]. La natura umana è sociale per essenza[61] e la tendenza associativa degli uomini («generale pactum societatis humanae», Conf., III, 8) non è solo istintiva e chiusa, come quella degli animali, ma anche razionale e progressiva, essendo orientata ad attuare i valori morali e l’unità della famiglia umana. Per queste profonde ragioni la domus e l’urbs, la famiglia e la società politica, pur avendo una loro consistente realtà specifica e una loro legittimità, non segnano il limite della vita sociale e politica: questa deve aprirsi, di continuo, alla società umana del mondo, l’orbis, se non vuole spezzare e pervertire la tensione teleologica impressa dal Creatore alla natura umana. Lo Stato che Agostino respinge con tutta l’anima è quello che si presenti con i caratteri dell’assoluto terreno, con la pretesa di essere fine e valore supremo, l’unico orizzonte della vita umana, è l’antico idolo pagano dello Stato sovrano, la concezione che di fatto è alla base del totalitarismo di tutti i tempi. Ma al di là e contro tale perversione, la natura umana domanda allo Stato una società conforme al suo fine. Con i mezzi che gli sono propri, che sono essenzialmente giuridici e non attingono direttamente al piano della coscienza morale, lo Stato deve garantire i diritti dei cittadini e attuare la giustizia, senza la quale non è possibile, a nessun livello, una vera e stabile pace. La società civile e politica, per Agostino, non può agire senza esercitare o violare la giustizia: se l’esigenza della giustizia non è soddisfatta, lo Stato non è neutro e indifferente alla moralità, ma è moralmente cattivo. Una legge ingiusta non è legge («lex esse non videtur quae justa non fuerit», De lib. arb., I, 5, 12) e se il danno che ne deriva investe in modo grave la coscienza morale, ad essa si deve resistere: con senso di responsabilità, facendo ricorso normalmente a mezzi pacifici, a metodi di lotta che non moltiplichino il male, pur opponendoglisi con fermezza.

La visione etico-politica di Agostino appare in tutta la sua coerenza e organicità, se si lumeggia la «tricotomia» della legge, cioè il rapporto tra lex aeterna, lex naturalis e lex temporalis o legge positiva. Per Agostino Dio creatore non è la Mente anassagorea che dà origine all’universo comunicando il movimento in senso meccanico alla materia (dà «la spintarella», dirà Pascal nei Pensieri, fr. 77 ed. Brunschvicg, fr. 194 ed. Chevalier):

«Dio non solo creò tutte le cose, ma ad esse diede un ordine. […] La connessione delle cose create conferisce all’universo l’ordine e la sua profonda bellezza» (En. In Ps. 144, 13).

L’ordinis modus, il principio ordinativo, per cui ogni creatura è chiamata ad attuare la sua natura per non cadere nel caos e nel nulla, è la lex aeterna, che non è nulla di impersonale, né qualcosa di indipendente da Dio, ma «è la stessa ragione e volontà divina, che comanda di conservare e proibisce di turbare l’ordine naturale» (Contra Faustum, XXII, 27). Sempre viva, sempre nuova, la lex aeterna «s’innalza infinitamente vasta sopra ogni luogo ed eternamente salda sopra ogni tempo» (De vera religione, 43, 18). Essa si traduce in due direzioni: una di necessità, nel mondo della natura fisica; una di libertà, nelle creature razionali. Con l’esercizio dell’intelligenza e del libero arbitrio, l’uomo intuisce e usa quei supremi principi etici, che sono regola e luce di ogni vita virtuosa («regulae et quaedam lumina virtutum», De lib. arb., II, 10, 29) e che egli reca nel suo intimo, anche quando li disconosce e li viola, essendo scritti nelle tavole di carne del suo cuore. La legge naturale è l’umana partecipazione alla legge eterna, il suo riflesso nella coscienza dell’uomo. La legge eterna illumina la nostra coscienza come l’intelligenza creatrice illumina la nostra intelligenza. Tutto ciò che vi è di buono e di legittimo nell’individuo come nella città deriva dalla legge naturale. Il bene morale non è solo un imperativo divino, ma è un criterio, una norma, che l’illuminazione morale ci aiuta a scoprire nell’intimo della coscienza (Conf., II, 4). Quella norma oggettiva e universale è a portata di ogni volontà retta e impernia tutti i suoi comandi su un principio immediatamente accessibile a ogni uomo: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te («quod tibi non vis fieri, non facias alteri»). Persino il ladro non vuol essere derubato e non c’è uomo, per quanto ingiusto, che non possa facilmente parlare il linguaggio della giustizia[62]. La misura di ciò che dobbiamo fare e non fare è dentro di noi. Non la volontà di un qualsiasi legislatore umano, ma la contraddizione con la natura umana razionale forma la base dell’intrinseca, immanente immoralità di determinate azioni. Si compie un effettivo sforzo di umanizzazione della vita sociale e politica, vi è effettivo progresso, quando la legislazione positiva sia orientata il più possibile alla legge naturale e cerchi di tradurre le alte ispirazioni in ordinamenti giuridici, tenendo conto delle reali situazioni e delle necessità del divenire storico di un popolo, oltre che del carattere di medietà proprio di ogni legge positiva umana.

Agostino, mentre sottolinea la doverosa, progressiva connessione tra diritto positivo e legge naturale, ne coglie la differenza. Nel De libero arbitrio (I, 5) Agostino mette in luce il carattere di medietà della legge giuridica, la sua approssimazione alla legge morale. «Evodio: Mi sembra che la legge temporale permetta giustamente alcune cose che la legge della provvidenza punisce. Ciò perché quella prende in considerazione solo ciò che è necessario e sufficiente a conciliare la pace sociale degli uomini. Agostino: Approvo e lodo questa tua distinzione riguardante la legge positiva che, pur essendo imperfetta, confida di sublimarsi in un ordine etico superiore (fidentem et sublimia quaedam petentem). La legge temporale, quella per mezzo della quale si reggono gli Stati, rettamente concede e lascia impunite molte cose che la divina provvidenza punisce. E ciò è giusto: né per il fatto che non comanda tutto ciò che dovrebbe, secondo la morale, si deve dire che siano riprovevoli quelle cose che comanda».

La legge positiva è giusta nella misura in cui si ispira alla legge naturale e la interpreta in rapporto a «ciò che di tempo in tempo debba essere comandato e proibito» (De vera religione, 31). Agostino difende l’universalità e l’oggettività della legge naturale e, nello stesso tempo, avverte il carattere propriamente storico dell’umano accostarsi ad essa ed allontanarsi da essa, tenendo presente la mutabilità, nel positivo e nel negativo, degli istituti, dei costumi, dell’orientamento degli spiriti. Così, ad esempio, «una legge temporale, per quanto giusta, può tuttavia giustamente cambiare di tempo in tempo, se un popolo diviene maturo, erigendosi a custode scrupoloso del bene pubblico più che del privato» (De lib. arb., I, 6). C’è una progressiva educazione del genere umano sia alla scoperta delle feconde applicazioni della legge naturale, nell’ambito proprio della storia, sia all’assimilazione di ciò che oltrepassa la stessa legge naturale, appartenendo all’ordine della grazia e della carità portata dal Vangelo nel mondo. La diversità delle leggi positive sulla faccia della terra non deve farci pensare che la giustizia, cioè il valore e il fondamento di ogni giusta legge temporale, sia differente e variabile. «No – esclama Agostino – sono i tempi che cambiano nella loro corsa, proprio perché sono tempo» (Conf., III, 7). E sarà sempre vero che non sono né le maggioranze, né la forza di chi detiene il potere, né le consuetudini a rendere giusta una legge, ma soltanto un principio razionale, la sua conformazione, anche se relativa e progressiva, a un insopprimibile ordine morale, a una legge di natura che non muta, pur essendo nel tempo mutevoli e perfettibili le possibili applicazioni di essa a situazioni storiche diverse. D’altra parte (e questo sarà l’errore del giusnaturalismo e di tanti illuministi), non bisogna essere uomini di vista così corta da erigere un momento della storia a giudice e a modello di tutti gli altri momenti. Se così facessimo, ci atterremmo fanaticamente ad una considerazione particolare e perderemmo di vista l’insieme, il senso del processo storico, snaturando il carattere vivo e dinamico, eticamente doveroso ma privo di necessità fisica, delle supreme verità morali che orientano le coscienze degli uomini anche nella sfera del diritto e della politica.

In conclusione: è sempre possibile e doveroso migliorare lo Stato, agire con eroica dedizione per inserire nei rapporti civili e politici, nelle leggi, nelle istituzioni qualcosa di quei valori che chiamiamo verità, giustizia, fraternità; ma è del pari indubbio che la città politica rimane sempre qualcosa di limitato nella sua sfera, onde non può soddisfare tutte le aspirazioni della spiritualità umana. Anche nella costruzione della città temporale, la traiettoria disegnata dall’azione umana, almeno finché dura nella sua energia realizzatrice di giustizia e nella sua generosità magnanima, può essere omogenea con l’itinerario della città di Dio[63] e confluire in esso. Ma solo parzialmente. Ciascun bene o valore di questa terra – si chiami pure il bene della città temporale, l’arte, la scienza, la filosofia – per quanto prezioso, si corrompe, diventa la caricatura di ciò che avrebbe potuto essere, quando è innalzato a fine ultimo, télos, mentre lo si dovrebbe solo considerare come fine intermedio, scopós, realtà trasparente attraverso cui e per mezzo della quale l’uomo raggiunge la meta, il traguardo supremo dell’esistenza, l’unica fonte dell’essere e di ogni dono perfetto. A conclusione del suo Sant’Agostino, trad. it. Queriniana, Brescia 1990, p. 87-88), Henri-Irénée Marrou ha scritto:

«La tentazione più grande che si presenta all’umanità nel suo pellegrinaggio attraverso il tempo storico, sedotta dal fascino reale di taluni valori propriamente terreni, è quella di dimenticare il Bene supremo, la meta finale del nostro viaggio. L’artista è portato ad idolatrare la propria arte, l’amante l’oggetto del proprio amore e l’uomo d’azione la città che si è prefisso di costruire. A costoro sant’Agostino ripete che l’uomo non è sulla terra per se stesso o per la terra, ma per Dio. L’uomo non è una specie di animale a cui è demandato il compito di elaborare civiltà, una dopo l’altra, così come le formiche e le termiti lavorano incessantemente per fare o rifare le loro magnifiche e fragili dimore. È bene ed è salutare ricordare di tanto in tanto che sulla provvisorietà delle costruzioni umane il divino Architetto costruisce la città di Dio, la sola dimora definitiva (Architectus aedificat per machinas transituras domum manentem)»[64].

La città di Dio è la patria universale dello spirito, ove si realizza quel «regno dei fini»[65] a cui l’umanità migliore in ogni tempo anela, ed è un ideale, già operante in questa vita – come fermento, imperativo, speranza – «in mezzo a noi, dentro di noi» (Lc., 17, 21), sebbene esso si compia nella sua pienezza solo oltre l’esperienza storica, nel gaudio della Verità. Il regno di Dio – che è «dentro di noi», ma che «non è di questo mondo» – e la città di Dio sono espressioni equivalenti e designano ciò che in linguaggio filosofico si direbbe il mondo degli spiriti e dei suoi valori, la comunità invisibile di quanti amano il bene. Fin d’ora, però, ogni istante, ogni uomo, ogni generazione sono in rapporto a Dio[66]. Ed è per la contemporaneità di Dio ad ogni avvenimento storico, che la storia diventa tessuto di azioni umane qualificabili in senso positivo o negativo:

«La storia – sostiene Nicola Petruzzellis – si svolge nel tempo, ma nella storia s’instaurano valori che trascendono il tempo, si prepara e, in un certo senso, si attua, in quanto si sceglie irrevocabilmente, l’eterno destino dell’uomo. Il significato della storia è nel bene che in essa si compie, nella lotta che in essa si combatte; il progresso per il singolo come per l’umanità è nelle affermazioni e nelle conquiste dello spirito» («La visione agostiniana della storia», in I valori dello spirito e la coscienza storica, Istituto editoriale del Mezzogiorno, Napoli 19653).

Il valore reale, il valore profondo e definitivo dei nostri atti sta nella loro trascrizione in città di Dio.

  1. Le Confessioni, manifesto della vita interiore

A quarantatré anni, dodici dopo la conversione, Agostino scrisse le Confessioni, per aprirsi al genere umano, al cospetto di Dio: «apud te, haec narro, generi meo, generi humano». Nessun’altra sua opera ebbe maggior diffusione. Intorno ai settantaquattro anni, quando si volterà a giudicare le sue opere, parlerà delle Confessioni con tenerezza e in termini di netta predilezione: «esse mi commuovono ancora, quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (Retract., II, 32). Le Confessioni non sono soltanto un capolavoro di autobiografia intellettuale: esse sono il manifesto della vita interiore. Per colui che ha potuto scrivere: «Sono entrato in ciò che ho di più mio (intravi in intima mea)»[67], l’alienazione più profonda sta per l’uomo nel non conoscersi, nel non pensarsi.

«Gli uomini guardano pieni di stupore alle vette delle montagne, al flusso ininterrotto delle maree, all’ampia distesa dei fiumi, agli oceani che li circondano e al movimento delle stelle; e tuttavia essi passano inosservati a loro stessi, non sono oggetti del loro stupore» (Conf., X, 8). L’esperienza dell’uomo diventa autentica nella misura in cui si fa interiore (Conf., X, 6). L’anima non riesce a trovare Dio se non mediante un ritorno su se stessa e una specie di progressione ab intus. Solo chi ha il coraggio di esplorare se stesso ritrova in sé la comunanza di sentimenti, aspirazioni, debolezze che lo unisce ai suoi simili, riscopre in sé «quel che l’uomo è – può – deve» e incontra Dio. Un uomo non può sperare di trovare Dio, se prima non ha trovato se stesso, poiché il Dio vivente è presente all’interiorità più profonda dell’uomo ed è più intimo all’uomo di quanto egli possa essere a se stesso («interior intimo meo», Conf., III, 6). Agostino fa dell’anima umana e di Dio il centro di gravitazione, l’oggetto precipuo di una stessa ricerca: la ricerca del senso della vita. Per questo le Confessioni oltrepassano di continuo il piano dell’analisi psicologica, per darci un’antropologia filosofica, una teologia, una morale, una spiritualità.

Che cosa fa sì che l’uomo si conosca indubitabilmente come capace di conoscere? Perché l’uomo è chiamato ad esercitare la sua signoria sul mondo, a usarne secondo i suoi bisogni? Perché è l’unico animale che fa storia? Quali sono le ragioni della sua libertà di scelta? Qual è la sorgente delle regole di verità e di bene, interiori e trascendenti, nella cui attuazione si celebra l’eminente dignità della persona umana? Interrogarsi in profondità sull’uomo significa aprirsi a Dio. «Il filosofo è con Dio perché ha coscienza della propria interiorità (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intelligit sapiens)»[68]. Una partecipazione analogica e insieme realissima fa dell’uomo un’immagine di Dio. Tuttavia l’immagine divina nell’uomo non è solo, né principalmente, il pensiero e la libertà. Ciò in cui l’uomo rassomiglia effettivamente a Dio è la spinta dinamica, la tensione teleologica per cui l’anima, traversando in certo modo se stessa, usa questa similitudine appunto per raggiungere Dio. Questo pensiero, che pervade le Confessioni dall’inizio alla fine, Agostino lo ha bene precisato nel De Trinitate (XIV, 12). Tommaso, citando esplicitamente il passo agostiniano, ribadisce lo stesso principio: «l’immagine di Dio si trova nell’anima, in quanto l’anima si innalza verso Dio, o in quanto la sua natura le permette di innalzarsi verso di lui (imago Dei attenditur in anima, secundum quod fertur vel nata est ferri in Deum)»[69]. Immagine di Dio, l’uomo non può conoscere veramente se stesso senza conoscere qualcosa di Dio. L’uomo, il cui spirito si scopre in relazione costitutiva con Dio, acquista così una profondità nuova, insospettata dagli antichi. Noi siamo inscrutabili a noi stessi perché partecipiamo in qualche misura alla profondità di Dio: «il pensiero stesso non può essere compreso, neppure da sé stesso, in quanto è un’immagine di Dio (mens ipsa non potest comprehendi, nec a seipsa, ubi est imago Dei)»[70].

Tutte le opere di Agostino, e in particolare le Confessioni, conducono a quell’affermazione e ne sono quasi il commento e la giustificazione. Si pensi alla dottrina della memoria, sviluppata in capitoli indimenticabili nel libro X delle Confessioni (8-27). Nello sforzo di afferrarne l’essenza, l’anima vi traversa piani successivi sempre più profondi. Dapprima la memoria delle percezioni sensibili, ampio palazzo dove trovano posto in modo incomprensibile le distese immense dell’universo; è un rifugio misterioso, vasto e persino senza confini. Chi ne ha mai toccato il fondo? «Non è – dice Agostino – che una facoltà del mio spirito; tuttavia essa mi sfugge, e io stesso non posso cogliere tutto ciò che sono (nec ego ipse capio totum quod sum)». Qui, come mai prima nella storia del pensiero occidentale, l’uomo è divenuto per se stesso un motivo di sorpresa, e di stupore: «stupor adprehendit me». Che cosa bisogna pensare, quando alla memoria delle cose sensibili si aggiunge quella delle scienze, e le idee si offrono alla considerazione dello spirito? «Quid ego sum, Deus? Quae natura sum?» Che sono dunque, o Dio? Quale natura sono? Ma non è ancora tutto. Al di là delle idee stesse sta la verità che le governa, e, poiché questa verità porta i caratteri divini della necessità e dell’eternità, bisogna bene che Dio stesso sia presente alla nostra anima ogni volta ch’essa pensa il vero per mezzo di quei poteri e di quelle interiori regole di verità che da Dio derivano. E non basta più parlare delle profondità dello spirito: esso si apre sopra un vero infinito, si prolunga in Dio. Pieno di spavento e afferrato da un orrore sacro («nescio quid horrendum») alla vista di questa presenza divina, l’uomo allora si sgomenta di se stesso.

* * *

«Nessun libro più delle Confessioni scalza con tanta abilità artistica quelle che sono le premesse di una biografia convenzionale» (Peter Brown, Agostino d’Ippona, trad. it. Einaudi, Torino 1971, p. 14). Si comprende allora la ragione per cui i numerosi e dotti tentativi di contrarre quel grande libro in uno schema rigido non potevano dare risultati attendibili e non hanno giovato gran che alla sua lettura approfondita. «Un istintivo senso d’arte – osserva Michele Pellegrino – presiede a tutta l’economia della composizione, in forza del quale l’opera trova i suoi motivi non in norme esteriori, ma nelle esigenze stesse della materia, interpretate dalla squisita sensibilità di un artista» (Le «Confessioni» di sant’Agostino, Studium, Roma 1956, p. 130). Agostino è anche artista nella più riuscita delle sue opere oltre che filosofo, teologo, psicologo, mistico: non scrive capitoli di un trattato, ma cerca, attraverso la riflessione sulla esperienza vissuta, di cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale e nel suo orientamento dinamico. Anche sulle vette più pure della sua speculazione si riconosce sempre in Agostino «colui che abita nel cuore dell’umano » (Jacques Maritain, «La sapienza agostiniana», in I gradi del sapere, trad. it. Morcelliana, Brescia 1974, p. 343). Il pensiero agostiniano – vasto, complesso, zampillante – è sempre attento alle vibrazioni dell’anima ed è una continua vitae meditatio.

Agostino è uno di quegli uomini che solo con l’elevazione del loro pensiero teoretico si mettono in grado di raggiungere il loro essere più profondo. Egli fece, pertanto, della ricerca inesausta e della contemplazione amante della verità l’alimento, la ragione della sua vita, la sorgente del suo amore senza misura per Dio e per gli uomini. Lo scandaglio degli abissi dell’anima umana, la capacità di suscitare evocazioni e risonanze multiple, l’intuizione sbalorditiva nel cogliere i più diversi aspetti di un problema (si pensi alle indagini sul male, sulla memoria e sul tempo svolte nei libri VII, X e XI), lo spirito largamente umano nell’esporre i temi più rigorosi e l’arditezza inventiva delle soluzioni proposte, la simbiosi perfetta di filosofia e fede: queste caratteristiche del grande africano fanno di lui uno dei «Padri» dell’Europa e della civiltà universale, un genio del cristianesimo, e del suo capolavoro, delle Confessioni, un’opera unica.

 

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate. Il testo qui riportato riprende integralmente il capitolo su Agostino pubblicato nel libro Filosofia e coscienza, Morcelliana, Brescia 2008 (da p. 151 a p. 214).

[1] Agostino chiama se stesso «africano» (afer) nell’Epistola 17 e non si preoccupa affatto di respingere l’appellativo di «punico» che alcuni avversari gli rivolgono per scherno (Contra Iulianum op. imp., I, 7; VI, 18).

[2] Agostino allora ignorava che altro è verificare i fondamenti della fede (solo in seguito san Paolo – Rom., 12, 1 – gli insegnerà che l’ossequio alla fede dev’essere razionale), altro è dimostrare a fil di logica i misteri. Egli credeva, nel suo giovanile orgoglio, dettato da ingenua baldanza più che da presunzione, di trovare nel manicheismo chiariti, per filo e per segno, i «misteri» che gli avevano fatto chiudere disilluso la Bibbia. Agostino ricorderà amaramente la iattanza dei suoi vent’anni per cui discuteva sottilmente ed elegantemente, con felice esito, anche di cose di cui non era del tutto convinto. Fu in parte vittima volontaria della sua debolezza; lo confessa sinceramente: «ritenevo che fosse vero tutto ciò che quelli insegnavano paradossalmente, non perché ne fossi convinto, ma perché desideravo che fosse vero».

[3] Agostino si accorgerà in seguito, più maturo e più preparato, che tra gli inesperti cristiani, che egli si compiaceva allegramente di vincere con le sottigliezze e con le parole, c’era allora anche lui. «Fin da ora però la porta d’uscita dal manicheismo egli la vede proprio nella stessa porta d’ingresso: abili nel confutare gli altri, i manichei non sono altrettanto sicuri nel dimostrare le proprie idee. Dunque, se non le dimostrano, le impongono. Non lume di ragione, ma autorità e credenza cieca, autorità senza fondamento, senza credenziali» (Michele Federico Sciacca, S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949, p. 20-2l).

[4] Conf., V, 1.

[5] Il suo maggiore studio era quello di tenere l’animo libero da ogni preoccupazione di cose temporali, per cui era disposto a rinunciare all’amministrazione dei possedimenti della Chiesa e a vivere dei contributi del popolo di Dio; ma i laici non accettarono mai questa proposta (Possidio, Vita, 23, 2; Serm., 355, 356). «Non volle comprare mai case, poderi, ville», né «mai si occupò di nuove costruzioni per evitare che vi s’impigliasse il suo animo», tuttavia non proibiva che altri lo facesse, purché con moderazione (Possidio, Vita, 24, 2-13). Per quanto riguardava i legati, al popolo che si lamentava perché egli aveva rifiutato testamenti a favore della Chiesa, dichiarava di regolarsi così: li accettava se il testatore non aveva figli, oppure, avendone, considerava Cristo come uno di essi e gli lasciava una parte dei suoi beni; non li accettava se il padre aveva diseredato i figli, oppure se l’eredità avrebbe creato un pericolo o un fastidio per la Chiesa. Così, non accettò l’eredità di un certo Bonifacio, perché la Chiesa non diventasse proprietaria di navi. Così pure era pronto a restituire i beni a chi glieli aveva donati, se questi, dopo la donazione, aveva dei figli, agendo così non iure fori, ma iure caeli (Serm., 355, 4-5). Aveva inoltre grande cura dei poveri e per aiutarli attingeva dai possedimenti della Chiesa e dalle offerte dei fedeli (Possidio, Vita, 23, 1). Egli non aveva risparmi, perché non riteneva degno di un vescovo mettere da parte denaro e allontanare da sé la mano del mendicante («non est enim episcopi servare aurum, et revocare a se mendicantis manum», Serm., 355, 5). Quando non aveva nulla da dare ai bisognosi, avvertiva il popolo, con tanta maggior insistenza quanto più i tempi erano calamitosi. Nei momenti di necessità non esitò a far spezzare e fondere i vasi sacri per soccorrere i prigionieri o un gran numero di poveri (Agostino Trapè, S. Agostino, Pontificia Università Lateranense, Roma s. d., pp. 51-53).

[6] L’osservazione è stata fatta da uno dei maggiori studiosi di Agostino, Henri-Irénée Marrou, nel suo Saint Augustin et l’augustinisme, Seuil, Paris 1960, di cui si può leggere la traduzione italiana (Sant’Agostino e l’agostinismo, Queriniana, Brescia 1990, p. 63).

[7] Scrive Agostino: «Quelli che senza passione e ostinazione difendono la propria opinione, anche falsa e perversa, se non l’hanno creata loro stessi per audace presunzione, ma l’hanno ricevuta dal genitori caduti nell’errore, e se cercano con prudente cura la verità, disposti a correggersi quando la troveranno, non devono in nessun modo essere enumerati tra gli eretici» (Ep., 43). I seguaci di Donato ritenevano che il valore del battesimo dipendesse dallo stato buono o cattivo dell’anima del ministro. I cattolici, invece, attribuivano al battesimo un’origine più alta che ne assicura il valore, qualunque sia la condizione del battezzante, giusto o peccatore, eretico o ortodosso, donatista o cattolico. Agostino afferma con risolutezza che il ministro che battezza esercita l’azione del sacramento, sebbene non sia l’autore del valore sacramentale. Il riconoscimento della validità del battesimo impartito nella Chiesa dei donatisti induce Agostino a porre e ad approfondire un problema centrale per l’ecumenismo e per la concezione della Chiesa: come si può capire che fuori della Chiesa cattolica vi siano veri sacramenti? La Chiesa cattolica, risponde il vescovo d’Ippona, ammette che al di là delle sue frontiere, tra i cristiani non cattolici, ci siano grandi beni cristiani. Una Chiesa scismatica rigenera, non però in virtù di ciò che la separa dalla cattolica, ma in virtù di ciò che la unisce con quella; non in quanto scismatica e opposta, ma in quanto ha conservato molte ricchezze della vera Chiesa, per cui tra le due comunioni rimane un terreno comune. I beni cristiani comuni alla Chiesa cattolica e ad altre confessioni cristiane impediscono dunque la separazione totale. Si deve distinguere ciò che separa le Chiese e ciò che le unisce. Prendere coscienza di quest’unione reale, sebbene ancora imperfetta, è il fondamento di ogni autentico ecumenismo. I cattolici debbono obbedire al profeta Isaia che esorta in questo modo: «A quelli che dicono: non siete fratelli, rispondete: siete nostri fratelli» (Is., 66, 5). «Che lo vogliano o no, [i cristiani separati] sono nostri fratelli. Non saranno più nostri fratelli solamente quando non diranno più: Padre nostro» (Enarr. in Ps., 32, 29). Sull’argomento si legga quanto ha scritto Charles Boyer, in Sant’Agostino e i problemi dell’ecumenismo, trad. it. Studium, Roma 1969. Purtroppo il donatismo in quel tempo non era solo un’eresia, ma anche un movimento che, nelle sue cospicue frange estremistiche, praticava un crudele terrorismo (omicidi, accecamenti, mutilazioni orrende). In una situazione di così grave disordine sociale, anche uno Stato in disfacimento, come l’impero romano d’Occidente, non poté fare a meno di intervenire. Agostino tuttavia disapprovò tale intervento, perché non voleva che gli scismatici fossero costretti per forza alla comunione ecclesiale. In seguito tornò sulla questione e il suo giudizio divenne più sfumato. Riconobbe che lo Stato non poteva lasciare impunita una paurosa serie di delitti, senza incoraggiare il male (Retract., II, 5). Il donatismo, poi, presentava aspetti del tutto particolari rispetto ad ogni altra eresia ed era di fatto assai difficile separare la lotta al terrorismo dalla sua copertura ideologica. La messa al bando del donatismo da parte del potere statale comportava seri rischi sul terreno propriamente religioso, alimentando conformismo e ipocrisia; l’esperienza, però, attestava che anche il timore della pena aveva avuto una sua funzione pedagogica, inducendo molti a riesaminare le loro posizioni mentali e i loro atteggiamenti pratici. Tuttavia anche qui in Agostino finisce col prevalere su ogni altra considerazione, storica o di opportunità, l’arditezza innovatrice del cristiano: il vescovo di Ippona si batté perché comunque, anche nel caso di accertati, nefandi delitti, fosse esclusa perentoriamente la pena di morte. Occorre con opera di misericordia salvaguardare l’integrità fisica anche di coloro che si macchiarono del sangue altrui, perché possano lavorare utilmente e redimersi (Ep., 134, 2-4). Agostino esorta Marcellino a esercitare la sua funzione di giudice «in modo da non dimenticare l’umanità e da mettere in risalto la mansuetudine cattolica». C’è poi un particolare degno di nota: Agostino loda il suo corrispondente per non aver usato la tortura nell’istruire la causa contro i colpevoli (Ep., 133, 2). Nel difendere l’abolizione della tortura e della pena capitale, Agostino sapeva di non avere il consenso degli altri, ma sperava che il senso di umanità del Vangelo finisse per prevalere, col tempo. «Se ora ad alcuni dei nostri, profondamente scossi dalle atrocità commesse, questa condotta sembra non adatta e quasi simile a debolezza e a negligenza, una volta che sia passata l’eccitazione degli animi […] apparirà in tutta la sua luce la bontà della Chiesa» (Ep., 139, 2).

[8] La lettera di Gerolamo, forse del 418, è l’Epistola 195 nell’epistolario agostiniano. «Grazie dell’ardente tua fede – così Gerolamo scrive ad Agostino – sei rimasto saldo contro la furia dei venti e, per quanto dipendeva da te, hai preferito salvarti da Sodoma [scil. Dalla corruzione della fede dilagante tra i cristiani a causa della diffusione dell’eresia pelagiana], solo piuttosto che rimanervi con quelli che andavano incontro alla loro rovina. Gloria a te per il tuo valore! Tutto il mondo parla di te con onore. I cattolici ti venerano e ti ammirano come il rifondatore dell’antica fede».

[9] La lotta antipelagiana «traccia un confine teologico che viene raggiunto una volta per tutte e dietro il quale il cristianesimo latino, considerato nel suo insieme, non potrà mai più discendere allo stadio del moralismo e del razionalismo preagostiniano: il cristianesimo occidentale va inteso in linea di principio come religione della grazia» (Hans von Campenhausen, I padri della Chiesa latina, trad. it. Sansoni, Firenze 19892, p. 260).

[10] Lo spirito animatore di quest’ultima prova del suo genio lo si coglie in una lettera scritta qualche anno prima. «Se Dio me lo consente, raccoglierò e metterò in evidenza, in un lavoro appositamente consacrato a questo scopo, tutte le cose che giustamente mi dispiacciono nei miei libri: gli uomini si accorgerebbero allora che io sono ben lungi dall’essere un giudice parziale di me stesso. Cicerone dice di un tale che «mai pronunciò una parola che avrebbe preferito non aver detto». Alta lode, in effetti, ma da applicare piuttosto a un perfetto somaro che non ad un uomo veramente saggio, che sa di poter sbagliare e che si sforza di appartenere al numero di coloro che, scrivendo, progrediscono perché si pentono di quel che han detto di non buono, o sconsiderato o inopportuno» (Ep., 143, 2-3).

[11] Il corpo, deposto nella Basilica di Ippona, verso la fine del VII secolo fu sottratto al pericolo della profanazione mussulmana e trasportato in Sardegna. Il re longobardo Liutprando intorno al 725 lo riscattò «magno pretio» dai saraceni, divenuti frattanto dominatori dell’isola, e lo trasferì nella capitale del regno, a Pavia. Lo attesta nel Chronicon il Venerabile Beda, contemporaneo al fatto, che egli, quando scrive il suo Martirologium (PL 94, col. 1023), dice avvenuto «nuper (or non è molto)».

[12] Agostino esemplifica con vivezza, ironizzando: «Se qualcuno, visto un tuo fratello, dicesse che è simile a tuo padre e non conoscesse tuo padre, non ti sembrerebbe un pazzo o uno sciocco?» (Contra Academicos, II, 7).

[13] De vera religione, 39, 73.

[14] De civ. Dei, XI, 26.

[15] Il cogito agostiniano è rivelativo dell’essere, è interiorità aperta all’essere. La nostra mente coglie l’essere non in un’astratta e presupposta identità col pensiero, ma in «una unità a tre termini»: noi, infatti, sperimentiamo di continuo, fin dal primo momento in cui pronunciamo la parola «è», l’esistere di tutto ciò che semplicemente è, l’esistere degli esistenti che vivono e l’esistere di quei viventi la cui natura specifica sta nell’intelligenza e nel volere. «La pietra ha l’essere, l’animale ha la vita; e pertanto la pietra non vive e l’animale non pensa; mentre colui che pensa possiede certamente anche l’essere e la vita» (De lib. arb., II, 7). «Io comprendo anche – scrive Agostino – che non saprei comprendere se non fossi vivente. E so ancora meglio che, in quanto comprendo, vivo più intensamente» (De vera religione, 97). Nell’intuizione originaria dell’essere, noi oltrepassiamo il piano della rappresentazione per cogliere l’essere nella diversità dei livelli, nella distinzione dei gradi, secondo un’evidenza spontanea per l’occhio dello spirito. Questa evidenza risponde, nello stesso tempo, a una legge di progressione e di fondazione: «essere per vivere, vivere per comprendere» (Soliloquia, II, 1). In tal modo il senso della qualità, cioè la coscienza del valore, è all’interno dell’atto conoscitivo ed emerge dalla stessa struttura degli esistenti. Così, ad esempio, «nessuno negherà che si debba preferire un essere vivente a un non vivente» (De lib. arb., I, 20) e, a più forte ragione, un uomo a qualsiasi cosa ed animale. È l’ordine immanente ai diversi livelli di realtà che fonda ontologicamente un primato e comanda un tipo di scelta (videt praeferendum), ponendo così in gioco, sin dall’inizio, il rischio e la grandezza del libero arbitrio. L’evidente progressione ascensiva degli esistenti, inoltre, reca in sé inevitabilmente il riferimento all’Essere nella sua infinita perfezione. La struttura tendenziale, che va dall’essere non vivente alla vita e allo spirito dell’uomo, ci obbliga a oltrepassare l’uomo e ad affermare la realtà trascendente di Dio, spirito e vita, assoluta libertà creatrice e amore infinito, che corona e fonda la libertà e l’amore dello spirito finito.

[16] De Trinitate, IX, 12, 18.

[17] Contro le ingenuità, spesso dottamente mascherate, dell’empirismo di ogni tempo valgono le osservazioni di Agostino: «Se trasformiamo tutto in rappresentazioni sensibili, non possiamo più convenientemente riflettere sull’origine della nostra percezione sensibile» (Ep., 147, 23, 53). Né meno lucida è l’autocritica svolta all’inizio del libro III delle Confessioni «Tutto ciò che concepivo privo di spazio, mi sembrava ridursi a un nulla, proprio a un nulla. E così nemmeno di me stesso avevo una nozione chiara. Non vedevo che la stessa tensione interiore con cui formavo immagini sensibili, era qualcosa di diverso da esse: non avrebbe potuto formarle, se non fosse essa qualcosa e una gran cosa».

[18] Nelle vicissitudini del suo pensiero, Agostino arrivò assai tardi a una concezione degna dell’Essere supremo e del suo proprio genio; e tuttavia egli avvertì sempre, anche nella giovinezza, che se nessuno conosce Dio tal quale egli è, a nessuno è permesso ignorarne l’esistenza. Il suo spirito, oppresso dal materialismo, non poteva avere di sé una nozione chiara e, dunque, non poteva nemmeno concepire Dio come spirito e vita. La predicazione di Ambrogio e la lettura delle Enneadi lo aiutarono a liberarsi dal materialismo, offrendogli non pochi chiarimenti.

[19] Il metodo seguito da Agostino per affermare razionalmente l’esistenza di Dio è realista, non meno di quello di Tommaso d’Aquino, in quanto parte da fatti di esperienza ed esclude ogni argomento a priori.

[20] L’insegna epigrafica, l’espressione brevissima e lirica dell’argomento è in questa frase, così spesso citata perché rivelatrice dell’essenza e del destino dell’uomo: «ci hai fatti per te [Signore] e il cuor nostro è inquieto finché non riposi in te (fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, Conf., I, 1)». Altri testi importanti sono: Conf., X, 20-29; De civ. Dei, XIX; Ep., 118; Sermo, 150; En. in Ps., 124, 4.

[21] De Trinitate, XIV, 6, 8.

[22] De vera religione, 39, 73.

[23] De diversis quaest., 83, q. 9.

[24] Retract., I, 1, 2.

[25] Ps., 4, 7.

[26] 1Cor., 13, 12.

[27] De Trinitate, IX, 12, 18.

[28] De Trinitate, IX, 1, I.

[29] Perché Dio ha voluto l’universo? «A chi domanda: “perché Dio fece il cielo e la terra?”, si deve rispondere: perché così volle (quia voluit). Infatti la volontà di Dio è l’unica causa del cielo e della terra. […] E se si chiede perché così volle, bisogna stare attenti a non cercare una causa dell’universo anteriore alla volontà di Dio e distinta da essa. È, infatti, impossibile cercare qualche cosa di anteriore alla divina volontà e niente si può trovare che le sia superiore» (De Gen. contra Manich., 1, 2, 4). La volontà di Dio è Dio e cercarne prima o altrove la causa è cercare qualcosa che non esiste. Così posta, la questione è del tutto frivola. Non è affatto frivolo, invece, rispondere che Dio è il Bene e che la sua bontà è l’unico scopo della creazione: «ciò che Dio volle creare, lo creò non per necessità (nulla necessitate), né perché avesse bisogno di trarne una qualche utilità (nulla suae eiusquam utilitatis indigentia), ma per sola bontà (sed sola bonitate)» (De civ. Dei, XI, 24). Platone nel Timeo aveva dato una risposta sostanzialmente affine all’insegnamento biblico. Dopo tanti secoli, ne Le due sorgenti della morale e della religione (1932), Bergson perverrà alla stessa conclusione.

[30] In rapporto a Dio non c’è un «prima» e un «poi», essendo egli eterno presente. Come non c’è un tempo anteriore all’esistenza dell’universo, così non v’è spazio fuori dell’universo creato, fuori dell’estensione reale dei corpi esistenti (De civ. Dei, XI, 5). La grandezza e la piccolezza dello spazio indicano soltanto rapporti tra quantità diverse. «Non c’è niente di grande in se stesso, ma soltanto per riguardo a qualche cosa di più piccolo» (De musica, VI, 7, 10). Anzi l’universo intero si può dire piccolo dinanzi agli infiniti spazi che immaginiamo intorno a lui e nei quali si sarebbe potuto estendere. «Si vede – osserva Charles Boyer (S. Agostino filosofo, trad. it. Patron, Bologna 1965, p. 74) – con quanto poco fondamento si afferma da alcuni che il rapporto dell’uomo a Dio fu cambiato quando Copernico e Galilei ebbero scoperto il moto della terra e l’immensità dell’universo. Prima di quei dotti, si sapeva che Dio è dappertutto e che si trova tanto vicino a ciascuno dei punti di un universo immenso, quanto a quelli di un mondo piccolo».

[31] Pensando all’azione creatrice di Dio, non bisogna lasciarsi tradire dall’immaginazione, quasi che in Dio, come nell’uomo, l’agire e il non agire siano disposizioni diverse e successive. Dio «sa agire riposando e riposare operando, e può applicare a un’opera nuova un piano non nuovo, ma eterno». Se prima non ha creato e poi ha creato, «il prima e il poi si verificano senza dubbio nelle cose che prima non esistevano e poi esistettero; ma in Dio nessuna volontà susseguente mutò o tolse la volontà precedente. In lui un’unica, medesima, immutabile ed eterna volontà fece che le cose create prima non fossero, fino a quando non furono, e poi fossero, quando cominciarono ad essere» (De civ. Dei, XII, 17, 2). E tuttavia per la mente umana rimane una invalicabile zona di mistero, quando indaga il rapporto che unisce il tempo alla eternità. Sottomessi noi stessi, anche nel nostro pensiero, alla legge del divenire, non sappiamo rappresentare il modo di essere dell’Eterno, dell’Essere nella sua attualità assoluta. Come confrontare, infatti, due modi di durata eterogenea, fondati su due modi di essere eterogenei, di cui uno, quello di Dio, ci sfugge quasi completamente? Possiamo però compiere un prezioso lavoro e avanzare non poco nel cammino, sia sforzandoci di afferrare il significato metafisico profondo sotteso all’esperienza che noi abbiamo del tempo (compito che Agostino assolve nell’XI libro delle Confessioni), sia dissolvendo miti ed equivoci, come quelli di un tempo eterno, di un mondo coeterno a Dio e dell’eterno ritorno (cosa che Agostino fa nel De civitate Dei).

[32] Conf., XI, 27.

[33] Per il pensiero cristiano, creazionista, è assurda ogni ostilità verso il corporeo e il biologico. L’uomo non è un’anima divina caduta in un corpo cattivo. La teoria orfico-platonica e neoplatonica del corpo carcere dell’anima è radicalmente fuori del cristianesimo, che sin dalle origini dovette impegnare una dura battaglia contro la «somatofobia» di tanta parte della cultura ellenica ed ellenistico-romana. La lotta di Agostino fu preceduta di qualche secolo da quella di Ireneo contro lo gnosticismo, per cui non si comprende come ancor oggi si attribuiscano al cristianesimo tesi da esso esplicitamente combattute. Agostino, più volte, e soprattutto negli anni della maturità e della vecchiaia, sottolinea tutta la distanza che intercorre fra il realismo spiritualistico del cristianesimo e il pessimismo dei neoplatonici. Particolarmente chiaro ci sembra un brano del Sermone 242 (7, 7). «Porfirio dice che il corpo si deve fuggire del tutto. […] La nostra fede, invece, basandosi sull’insegnamento di Dio, loda il corpo (Deo docente, fides nostra laudat corpus). Ha questo nostro corpo una sua propria bellezza, per la disposizione delle membra, la distinzione dei sensi, la statura eretta e tutte quelle qualità che, a ben considerarle, ci riempiono di stupore (quae bene consideirantes stupent). Ma Porfirio ribatte: senza ragione tu lodi il corpo; si dica pure quel che si vuole del corpo, se l’anima vuol essere beata, il corpo è da fuggire del tutto. Questo dicono i filosofi, ma sbagliano, delirano (hoc dicunt philosophi, sed errant, sed delirant)». È qui il vero spirito cristiano nel suo asse centrale, ed è su questa posizione che, dai Salmi al Cantico delle creature, da Ireneo a Maritain, si attestano sia l’annuncio religioso, sia il pensiero filosofico e teologico che ne sviluppa organicamente i principi.

[34] Ireneo si congratula col primo filosofo cristiano, Giustino, per aver detto: «Non crederei al Signore stesso se annunciasse un Dio che non fosse creatore» (Adversus haereses, IV, 6, 2).

[35] «Il male è una privazione: la privazione di un bene che dovrebbe esistere in una cosa. Questa dottrina è sovente fraintesa. Ci si immagina ch’essa neghi e disconosca la realtà del male, mentre, al contrario, si fonda totalmente sulla realtà della privazione o della lebbra dell’assenza. Il male esiste nelle cose, realmente come una ferita o una mutilazione dell’essere. Il male esiste così nel bene, o, per dirla con altre parole, il soggetto o portatore del male è buono in quanto ha in sé dell’essere. Ed il male agisce attraverso il bene, poiché il male, essendo in se stesso privazione e non-essere, non ha causalità propria. Il male è, quindi, efficace non per se stesso, ma per il bene che colpisce e sfrutta, per il bene deficiente e deviato, la cui azione viene, in proporzione, viziata. Qual è dunque la potenza del male? È la potenza stessa del bene che il male colpisce e sfrutta. Quanto più potente sarà quel bene, tanto più potente sarà il male, non per virtù propria, ma per virtù di quel bene che esso danneggia» (Jacques Maritain, De Bergson à Thomas d’Aquin, La Maison Francaise, New York 1944, p. 219-220).

[36] Quando si seguono nei loro particolari le conseguenze di tale dottrina, esse vanno molto lontano. Difatti, se tutto ciò che è, è buono, anche l’atto del peccato, in quanto è atto, a parte la sua deformità, è buono. «Il peccatore è egli stesso un bene per il fatto che è uomo, un male per il fatto che è ingiusto» (Enchiridion, 13). Tommaso accoglie in pieno questa dottrina e giunge a scrivere: «Se Dio esiste, donde vengono i mali? fa dire Boezio a qualche filosofo. A ciò si può rispondere: se il male esiste, Dio esiste. Infatti non c’è male senza bene, di cui il male è privazione. E senza Dio, quel bene non esisterebbe» (Contra Gentiles, III, 71).

[37] De Genesi ad litt., I, 3.

[38] De lib. arb., III, 13, 38.

[39] Ps., 4, 6-7.

[40] Contra Fortunatum, II, 21.

[41] Conf., X, 29; X, 31; X, 37.

[42] Il fatto è riferito da Agostino nel De praedestinatione (II, 33). Il libro delle Confessioni si era diffuso assai rapidamente e non solo in Africa. Pelagio, a Roma, molto prima che apparisse l’eresia che da lui prenderà il nome, non nascose il suo atteggiamento critico verso quell’opera e alla presenza di un vescovo, che citava il famoso passo «da quod jubes et iube quod vis», intervenne con tanta vivacità da suscitare quasi un litigio («pene litigavit»).

[43] Opus imp. contra Julian., I, 78.

[44] «La soluzione di Agostino – nota giustamente Augusto Guzzo – è così capillare, che non meraviglia come basti la più lieve disattenzione per non percepirla. Chi tentasse di condensarla in una formula, nonostante i pericoli di tutte le formule, potrebbe dire che, poiché il libero volere umano è necessario, ma non sufficiente, è necessaria la grazia. Per Agostino, se il volere umano non è libero, la grazia non è grazia» (Agostino e Pelagio, in «Giornale di Metafisica» 1954, n. 4-5, p. 520-521).

[45] Ps., 101, 28.

[46] «Non soltanto il libero arbitrio, di cui si può usare bene o male, ma anche la buona volontà di cui mai si usa male, non può venire che da Dio. Che se il nostro libero arbitrio, con il quale noi possiamo fare il bene o il male, non può non venire da Dio perché è un bene, e la nostra buona volontà invece venisse da noi stessi, ne seguirebbe che quello che abbiamo da noi stessi varrebbe di più di ciò che viene da Dio. È il colmo dell’assurdità. Non la si può evitare, se non riconoscendo che la buona volontà ci è data da Dio» (De pecc. meritis et remissione, II, 118). «Se tutti i beni vengono da Dio, ne segue che il buon uso del libero arbitrio, che è una virtù e che è annoverato tra i più grandi beni, viene anch’esso da Dio» (Retract., I, 9, 6).

[47] Mentre per Agostino la ferita del vitium originis ha distrutto la libertas bene operandi come stato permanente dell’uomo e non ha distrutto il libero arbitrio, per Lutero e Calvino non c’è più ombra di libertà di scelta. Nel De servo arbitrio, Lutero giunge a scrivere: «La volontà umana è situata nel mezzo, come un giumento. […] Se la cavalca Dio, vuole e va dove Dio vuole. Se la cavalca Satana, vuole e va dove vuole Satana (Humana voluntas in medio posita est ceu jumentum. […] Si insederit Deus, vult et vadit quo Deus vult. Si insederit Satan, vult et vadit quo vult Satan)». La cancellazione della libertà di scelta conduce a proclamare, in modo particolare con Calvino, uno spietato determinismo teologico. Per Agostino, invece, come si fondono in perfetta «sinergia», secondo l’espressione paolina, il libero arbitrio dell’uomo e la grazia di Dio, allo stesso modo, non c’è opposizione, ma inclusione e unificazione intima tra la gratuità pura della grazia, l’universale volontà salvifica di Dio, l’elezione dei giusti, da una parte, e, dall’altra, il valore insostituibile del «sì» e del «no» che l’uomo dice a Dio in ogni istante della sua vita. Proprio perché Dio, Atto Puro ed Eterna Presenza, conosce gli esseri nella natura in cui li ha creati, egli conosce e vuole come liberi gli atti volontari degli esseri razionali per natura dotati di libero arbitrio. Lo sforzo per addentrarci in un mistero che sorpassa da ogni parte l’uomo non deve in nessun caso farci abbandonare quelle certezze che già abbiamo guadagnato, quali che siano le difficoltà che sopraggiungono quando si vogliano conciliarle tra loro. Per Agostino vi sono due verità saldamente conosciute. La prima è l’imprevedibilità del divenire concreto dell’uomo. Agostino è ben lontano dal ridurre a dei vani fantasmi le vicende di questo mondo, con le reali alternative di bene e di male che si succedono nelle coscienze. Finché non è sorto l’ottavo giorno, che è il giorno della morte e del giudizio che l’accompagna, non cessa per nessuno l’alternativa delle tenebre e della luce. La seconda verità è questa: «Dio è buono, Dio è giusto. Perché è buono, può salvare ognuno senza meriti; perché è giusto, non può condannare nessuno senza demeriti» (Contra Julian., III, 18, 35). L’espressione più semplice e profonda del suo pensiero e del pensiero cattolico sul difficile problema Agostino ce la dà nel Sermone 169 (11, 13): «Chi ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te; ti ha creato senza che tu lo sapessi, ti giustifica solo se tu lo vuoi (Qui fecit te sine te, non te justificat sine te; ergo fecit nescientem, justificat volentem.

[48] L’opera gigantesca comprende ventidue libri. Agostino la compose e la pubblicò a intervalli, occupato com’era in tante altre fatiche e lotte, tra il 413 e il 426, quando aveva già varcato da qualche anno la sessantina. La spinta più immediata, ma non certo la sola, a concentrare la sua riflessione filosofica e teologica sul valore della storia gli venne da «quel disastro senza precedenti» che fu il sacco di Roma del 410 e dalle violente polemiche anticristiane che lo seguirono. Ma, a veder bene, il preannuncio del De civitate Dei è nelle Confessioni. La percezione e la misura del tempo nella coscienza, l’indagine sulla struttura del tempo e sulla memoria, senza di cui non c’è coscienza e non c’è storia, l’interrogarsi continuo sul destino dell’uomo, di cui è ben presente la dimensione sociale e storica («generale factum societatis humanae», Conf., III, 8), diventano, nella più vasta opera della maturità, sforzo poderoso di abbracciare «l’intero, ampio arco dei secoli» (Ep., 102, 3) e di collegare la «rivoluzione delle età» alla rivelazione della Sapienza di Dio, coscienza delle coscienze, a cui tutto si commisura. Agostino scruta gli abissi di miseria e grandezza dell’uomo nella storia con lo stesso stupore con cui li aveva scrutati in se stesso.

[49] Di che lacrime grondi e di che sangue il perfettismo utopistico, malgrado i suoi progetti di un avvenire luminoso e fraterno, l’umanità lo ha sempre sperimentato, ogni qualvolta esso ha trionfato. Il suo invincibile dispotismo può essere formulato in questi termini: in una società perfetta non vi può essere libertà di pensiero, così come non vi è in matematica. Nella cosiddetta «società perfetta» non vi è posto che per un fantasma della libertà, perché questa è ridotta esclusivamente a «coscienza della necessità».

[50] Lo storicismo, se è coerente, tende a comprimere, ed è logico che sia così, tutta la realtà e tutti i valori nella sfera della prassi politica. Lo storicismo si fa allora politicismo assoluto.

[51] «Vi sono la città di Dio e l’altra più difficile da definirsi con una sola parola: non abbiamo fretta di dire civitas diaboli. Il termine è di Ticonio piuttosto che di Agostino, il quale non lo usa se non occasionalmente e in un contesto retorico. Non si può nemmeno dire, a rigor di termini, “città del male”. Il male, questa deficienza nell’essere, non è un principio positivo a partire dal quale potrebbe organizzarsi una città» (Henri-Irénée Marrou, Teologia della storia, trad. it. Jaca Book, Milano 1969, p. 43).

[52] Questo passo, se non è ben compreso, rischia di far sorgere un falso problema. L’opposizione è prima di tutto fra il retto amore di sé, che comporta sempre il generoso dono di sé, il rifiuto dell’iniquità, e l’esclusivo, sregolato, perverso egocentrismo. Chi crede di amare se stesso e non Dio, non sa amare veramente se stesso, perché misconosce il suo vero bene. Bisogna saper «perdere» la propria vita per amore di Dio, per «ritrovarla»; al contrario di chi vuol conservarla ad ogni costo, anche a prezzo della propria dignità e del valore supremo, in cui essa si fonda e trova il suo compimento.

[53] In virtù della comune origine, conosciuta attraverso la rivelazione, l’unità del genere umano non è soltanto un ideale realizzabile, ma un fatto. Un fatto fisico, poiché tutti gli uomini sono parenti; ed anche un fatto morale, poiché essi sono legati non solo da una semplice somiglianza naturale, ma anche da un sentimento propriamente familiare. «Nessun fedele può avere dubbi (nullus fidelium dubitaverit) sul fatto che tutti gli uomini – per quanto differiscano per razza, colore della pelle o per la forma stessa delle membra – traggano origine dal primo uomo creato da Dio e che questo sia stato creato unico» (De civ. Dei, XVI, 8, 1). Né Agostino dubita che Dio stesso abbia creato in questo modo il genere umano «per far comprendere agli uomini quanto gli sia gradita l’unità pur nella diversità» (De civ. Dei, XII, 22) e perché la loro unità fosse veramente quella di una famiglia (De civ. Dei, XII, 21). Gli uomini sono dunque – è la fede che ce ne fa certi – naturalmente fratelli in Adamo prima ancora di esserlo, in modo soprannaturale, in Cristo.

[54] L’immagine è stata ripresa da Pascal nel Frammento del trattato del vuoto (1651) e applicata all’avanzamento delle scienze: «tutto il susseguirsi di uomini durante il corso di tanti secoli deve essere considerato come un sol uomo che sussiste sempre e apprende continuamente».

[55] De civ. Dei, I, 35.

[56] De civ. Dei, XIX, 13.

[57] L’apostolo Giacomo scrive: «Che nessuno dica: “è Dio che mi tenta”. Poiché Dio non può essere tentato dal male ed egli stesso non tenta nessuno; ma ciascuno è tentato dalla sua propria bramosia che lo attira e lo lusinga» (1, 13).

[58] Il medico non può essere ritenuto responsabile di ciò che il malato fa contro il suo ordine. Così pure il peccato, che il libero arbitrio commette contro il precetto divino, non può risalire a Dio come a sua causa. Tommaso svolge questo argomento nella Summa Theologica (I-II, q. 79, a. I, ad 3).

[59] «Tolta la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi brigantaggi? E le bande dei briganti che cosa sono se non piccoli regni? Non sono forse anch’esse un manipolo di uomini, retti dal comando di un capo, legati da un patto sociale, che si dividono la preda secondo la legge accettata da tutti? Se questo flagello con la recluta di nuovi malfattori cresce tanto da occupare paesi, da costruire proprie sedi, da impadronirsi di città e soggiogare i popoli, prende in maniera più evidente il nome di regno; nome che gli viene ormai apertamente conferito non dalla diminuita cupidigia, ma dalla raggiunta impunità» (De civ. Dei, IV, 4).

[60] De civ. Dei, XIX, 12.

[61] Per Agostino la società politica non deriva dal peccato originale e non è affatto una specie di male necessario. Si può dire soltanto che dopo il vitium originis le leggi dello Stato hanno acquistato un carattere coercitivo, essendo non spontaneo, né facile l’equilibrio fra i diritti e i doveri, fra le esigenze di singoli o di gruppi, da una parte, e le condizioni richieste dal bene comune, dall’altra. Tommaso ribadisce questa dottrina in termini molto chiari: «l’uomo è naturalmente un animale socievole, onde in stato di innocenza gli uomini sarebbero vissuti ugualmente in società» (S. Th., I, q. 96 a. 4). Occorre lavorare alla umanizzazione etica e alla razionalizzazione tecnica dell’esercizio del potere, invece di rifugiarsi nei cieli della fantasticheria, nel sogno mitologico della società senza Stato, senza conflitti, senza storia.

[62] «Qual è l’uomo, per quanto ingiusto, che non possa facilmente parlare il linguaggio della giustizia? O chi è colui che, interrogato su quello che sia il giusto, non indichi con facilità – a meno che non sia in gioco il suo interesse – ciò che è realmente il giusto? Ciò avviene con facilità perché la mano del creatore ha scolpito nei nostri cuori questa verità: “non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”. Giudicando che c’è un male in ciò che non potete sopportare, è la legge interiore, scolpita in voi, che vi obbliga a riconoscere questo. È un grido unanime, è una legge che ognuno ha in sé. Guardatevi dal non fare agli altri ciò che non vorreste che fosse fatto a voi» (En. in Ps., 57, 1).

[63] Yves Congar, parlando delle attuazioni riuscite della città temporale, si domanda se esse «possono essere altra cosa che non una specie di parabole del regno di Dio e della sua giustizia» (Per una teologia del laicato, trad. it. Morcelliana, Brescia 1966, p. 630). Étienne Gilson, parlando della città politica che abbia accolto liberamente l’ispirazione evangelica, propone l’immagine di un «sobborgo della città di Dio» (La città di Dio e i suoi problemi, trad.it. Vita e Pensiero, Milano 1958, p. 283); Henri-Irénée Marrou quella di «un guscio che racchiude il nocciolo» (Teologia della storia, cit. p. 108). Permane nettissima comunque la distinzione fra questa città politica, cui bisogna tendere, e la città di Dio. Così, del pari, non si può confondere nessuna delle «cristianità» storiche con il cristianesimo, che tutte le supera e le trascende, pur senza negare o misconoscere quanta autentica grandezza sia testimoniata dall’una o dall’altra epoca storica.

[64] Serm., 362, 7.

[65] La ricerca morale di Kant sbocca nella concezione del «regno dei fini», che non senza ragione è stata considerata la civitas Dei di Kant, quali che siano le differenze, certamente notevoli, dalla concezione agostiniana. La totalità dei fini degli esseri ragionevoli, quando si astrae dalle differenze personali e dal contenuto dei loro fini privati, può essere concepita in un nesso sistematico, dovendo gli esseri ragionevoli sottostare tutti alla legge secondo la quale ciascuno deve trattare ogni altro non come semplice mezzo, ma anche come fine in sé. Nella concezione del «regno dei fini», cioè dell’unione sistematica degli uomini mediante l’universale validità della legge morale, il significato mistico della civitas Dei agostiniana viene messo in ombra e «tuttavia – come osserva Nicola Petruzzellis (Maestri di ieri, Giannini, Napoli 1970, p. 445) – non si può dire che venga bandita ogni implicazione religiosa». Infatti Kant distingue nettamente fra capo (Oberhaupt) e membro (Glied) del regno dei fini. «Un essere ragionevole – dice testualmente Kant – appartiene come membro al regno dei fini, non solo in quanto è chiamato a elevare i principi della sua condotta a legge universale, ma anche in quanto è sottoposto a quei principi. Vi appartiene come capo quando egli, in quanto legislatore, non è sottoposto ad alcun altro volere». E precisa senza possibilità di dubbio: «Egli non può tenere il posto di capo solo in virtù della massima della sua volontà, ma solo in quanto è un essere pienamente indipendente, un potere adeguato al volere, senza bisogno e senza limite alcuno» (Fondazione della metafisica dei costumi, parte seconda; nell’edizione dell’Accademia prussiana delle Scienze di Berlino 1903, vol. IV, p. 433-434).

[66] Questa concezione – ripresa dal grande storico Leopold von Ranke (1795-1886) in una conferenza tenuta nel 1854 e condensata nella formula «ogni epoca è equidistante da Dio» (jede Epoche ist unmittelbar zu Gott) – è svolta con grande acume da Kierkegaard, nelle Briciole di filosofia, del 1844, e nella Postilla conclusiva non scientifica, del 1846, ambedue tradotte integralmente e annotate da Cornelio Fabro (vol. II, Zanichelli, Bologna 1962). Salvatore Spera ha pubblicato in ed. it. Briciole filosofiche presso la Queriniana, Brescia 1987.

[67] Conf., VII, 10.

[68] De ordine, II, 2, 5.

[69] S. Th., I, 93, 8, sed contra et resp. L’uomo, in forza della natura in cui è stato creato, è «capax Dei», e questa capacità costituisce il fondamentale rinvio della creatura intelligente e libera all’Assoluto: «tu ci hai fatti per te [Signore] e il cuor nostro è inquieto finché non riposi in te» (Conf. I, 1). Capace di Dio, l’uomo è però «indigens Deo», bisognoso di Dio, e la sua sete non può essere appagata che da Dio stesso. La somiglianza con Dio fonda la somma appetibilità della sua grazia; la nostra dissomiglianza da Dio ne spiega la somma gratuità.

[70] De symbolo, I, 2.