Angelo Dander

Tematiche: Biografie

GHEDI, VIA DANTE 8/A PRESSO LA SEDE ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI

QUI ABITAVA
ANGELO DANDER
NATO NEL 1908
INTERNATO MILITARE A BERNHAUSEN
ASSASSINATO IL 21.2.1945

Mi guardai un’ ultima volta allo specchio, l’unico specchio di casa. Non mi ero neanche aggiustato i capelli. I capelli neri, i miei occhi marroni, la mia pelle scura. Potrebbero non esistere più. Nacqui il 17 luglio del 1908, sarei morto giovane. Mi viene in mente quando da bambino salivo sugli alberi e guardavo le montagne che si intravedevano in lontananza, e, ingenuo, sognavo di andare a esplorare quei luoghi ignoti. Ora ci andrò, ma non come pensavo io.
Era l’aprile del 1940. Aveva appena piovuto ed io stavo controllando che la pioggia non avesse rovinato le piante più piccole. Ad un certo punto sentii mia madre che urlava il mio nome singhiozzando, mia madre si chiamava Maddalena, Maddalena Corbellini. Questo prima di sposare mio padre, Giuseppe, e prendere il suo cognome. Appena sentii mia madre corsi subito da lei, appena mi vide mi abbracciò e mi disse: “È arrivata!”. Capii subito, quella piccola cartolina era quasi
magica, riusciva a distruggere una vita senza fare niente: era la seconda chiamata alle armi, ma ora tirava vento di guerra.
Venni assegnato agli Alpini, sapevo che sarebbe stata dura e sinceramente avevo paura di dover trasportare cannoni pesanti tonnellate in mezzo a metri di neve, ma ricordavo, in seguito alla mia prima esperienza militare, che ci si faceva forza a vicenda e che, mentre si camminava si cantava e si pregava il buon Dio di salvarci tutti. Pensavo sempre a queste cose perché ero consapevole che, se avessi guardato in faccia la realtà, non avrei esitato a scappare e diventare un disertore, anche a costo di farmi fucilare. Poco tempo dopo mi ritrovai in mezzo alle montagne faticando e sudando per cercare di compiacere alcune persone che mi vedevano solo come una pedina sacrificabile, niente di
più. Mi ricordo le lunghe scalate in cui cantavamo:“Oh valore Alpin… / difendi sempre la frontiera! / E là sul confin / tien sempre alta la bandiera / Sentinella all’erta / per il suol nostro italiano / dove amor sorride / e più benigno irradia il sol”.
Nell’ottobre del ‘40 fui congedato e ritornai a Ghedi, faceva ancora caldo, riabbracciai la mia famiglia, pensando di essere scampato alla guerra, ma poco dopo giunsi in Germania come lavoratore civile, a dispetto della mia volontà. Dopo l’otto settembre del ‘43 le condizioni generali dei lavoratori italiani nel Reich peggiorarono bruscamente: il trattamento nei nostri confronti da parte dei tedeschi era intriso di violenza e pregiudizio. Da lavoratori diventammo presto schiavi.
Eravamo alloggiati in una baracca piena di topi, dove l’acqua entrava dal tetto e il vento non esitava a insinuarsi dentro le camere. Resistevo in silenzio; la fame, le vessazioni, il freddo e la malattia avevano già piegato alcuni di noi. Ma non cedevo. Se avessi ceduto ai ricatti tedeschi non avrei più potuto credere alla libertà umana, i miei ideali sarebbero diventati una pallida ombra.
Ad un certo punto i morti non ci facevano più impressione. Vedete il carretto dei morti? È lo stesso con cui ci portano il cibo: il carro che porta i morti è lo stesso che porta il pane, ovvero la speranza di
sopravvivere ancora un altro giorno. A vederlo, penso a quel carro, a quello stesso carro che torna col nostro pane. È più forte di me, perdonatemi.
Io volevo vivere, ma per alcuni le mie ambizioni, i miei desideri, i miei sogni erano solo stupide e egoiste richieste. Morii il 21 febbraio 1945 a Bernhausen, in Germania, colpito da una granata. Ora riposo in pace al Cimitero Militare Italiano d’Onore di Amburgo.
A cura di Elena Grazioli della classe 2 I della scuola secondaria di primo grado di Ghedi