Ansie del nostro tempo di fronte a Cristo

Quasi tutte le disgrazie, i più tragici fraintendimenti derivano dal non tenere un linguaggio chiaro, tempestivo, senza farisaiche ambiguità o comode timidezze; ma è più facile per molti rinunciare a comprendere e rassegnarsi a non essere compresi che avviare il dialogo della chiarificazione, la quale è ad un tempo atto di amore al prossimo ed esigenza immanente ad ogni schietto amore alla verità.

Per la liberazione dagli equivoci.

Da quando Cristo si è personalmente inserito nella storia, ogni uomo è chiamato a prender posizione, a giudicarlo, a conoscersi in lui, raffrontando col suo messaggio le tentate soluzioni dei massimi problemi della vita; ma nelle vicende di questo mondo «l’arte di oscurare con la luce», così bene sottolineata da Nietzsche – che ne fu maestro e vittima – e tanto comune a coloro che si dicono cristiani e a coloro che si credono non cristiani o anticristiani, accumula falsificazioni, disconoscimenti, equivoci che ci fanno pensare quanto sia sempre attuale l’invito del Battista espresso dal versetto più sofferente del Vangelo: «In mezzo a voi c’è Uno che voi non conoscete».
Le ansie più urgenti del nostro tempo di fronte a Cristo sono scoperte nelle loro fonti più qualificate, analizzate e, in un certo senso, redente da uno dei migliori spiriti contemporanei in un libro di cui ci auguriamo la più larga diffusione anche fuori d’Italia . In Equivoci – Mondo moderno e Cristo, finalmente, l’esperienza diretta più controllata e più complessa dell’autore e la sua ardita esplorazione in tutte le direzioni dell’anima contemporanea divengono forma di generazione e di verificazione pedagogica della verità, per cui si giunge ad invocare le ineludibili certezze del Vangelo, sospinti dalla struggente ricerca della logicità stessa delle cose, attraverso una sorta di induzione realistica dei valori più alti e perciò più intimi e necessari.
P. Bevilacqua, uomo estremamente sincero che vive nello spirito e nello stile di ciò che scrive, col suo libro ha pertanto compiuto un’opera di liberazione dagli equivoci, lanciando ponti di fraterna intesa agli uomini di buona volontà, quali che siano le sponde in cui sono essi bloccati.
Una sintesi così concreta di verità e carità sull’argomento centrale della vita umana e della nostra civiltà può a ragione considerarsi come un capitolo di quella pedagogia viva e costruttiva, la quale guarda a tutto l’uomo e in tutti i rapporti della sua individualità storica e della sua vocazione essenziale, dal punto di vista della sua interiore elevazione.

L’eresia di Faust e l’inquietudine cristiana.

Chi volesse tratteggiare una fenomenologia di quegli atteggiamenti spirituali oggi rientranti con preponderante rilievo nel raggio della comune esperienza, potrebbe indicarne in una frase di Gide la formula epigrafica: «Camminare attraverso l’eterna mobilità!». Il divenire convulso fine a se stesso invano maschera la stagnante inconcludenza di chi vive senza un’autentica scelta, nella prona sottomissione ad ogni moto impersonale della natura.
Sulle sabbie mobili non si cammina, non si costruisce; pure questa eresia tipicamente faustiana (In principio era l’azione: quale azione? Il celebre assioma di Goethe non significa nulla), nella sua radice metafisica rimanda ad una verità cristiana potentemente analizzata dal genio di Agostino in pagine in cui l’uomo si ritrova sempre: «O Signore, anche con la miserevole inquietudine che infondi negli spiriti che tralignano e rivelano le loro tenebre tu dimostri a sufficienza quanto grande sia la creatura razionale da te creata, a cui nulla che sia da meno di te è bastevole a dare la pace e la felicità, e perciò nemmeno essa a se stessa» .
Ma oltre la miserevole inquietudine – che reca suo malgrado una testimonianza positiva – c’è la inquietudine sublime di chi anela al «Siate perfetti come il Padre che è nei cieli», quella ammirabile, desiderabile insaziabilità di attingere l’Assoluto, nella forza squisitamente personificata di Cristo: quella sete e quella forza che da Saulo di Damasco a Damiano il lebbroso ha innalzato l’umanità al di sopra di sé.
L’eterna mobilità, contraffazione dell’Atto Eterno («Il Padre mio opera fino al presente» dice Gesù e S. Agostino rileva che «la categoria dell’azione appartiene in maniera somma e propria a Dio»), invano si esalta nelle estasi dionisiache e nei deliri più effimeri ed irrazionali, dovendo sboccare fatalmente in un martirio di universale, impensabile assenza di Dio ed assenza dell’uomo all’Essere, ai propri simili: una fede di alienati nell’assurdo.
Di qui la compiacenza amara e sconsolata per il naufragio, una specie di traumatismo ontologico per cui l’uomo a forza di frugare nei propri affanni si vota all’infecondità e all’isolamento, ostentando l’insensibilità della sua anima divenuta impassibile: il mondo allora non è più abitabile per l’uomo perché la vita non ha più senso.
Da qualche decennio noi assistiamo però a qualcosa di più dell’ateismo tragico, letterario e dottorale, il quale può anche essere vissuto, e lo è stato con profondità: il fatto nuovo, decisivo per l’umanità, è l’irruzione rivoluzionaria nelle masse di una concezione assolutista che vuol cambiare la faccia della terra dichiarando apertamente guerra contro Dio.

Il nuovo «vangelo» delle masse.

Intendiamo parlare di marxismo.
La difesa che P. Bevilacqua fa della parte critica del «Manifesto» marxiano, è d’una commovente obbiettività: vedendo con chiarezza anche dove molti spiriti superficiali hanno sofisticato a favore dell’ateismo borghese, egli ha saputo mostrare meglio, con inesorabile chiarezza, le intrinseche contraddizioni e le grossolane insufficienze del nuovo vangelo delle masse.
Molti accusano il Cristianesimo di essere in ritardo: il «Manifesto» infatti precede la «Rerum novarum», ma il Cristianesimo – solo e primo – sin da diciannove secoli aveva posto la base di ogni rivendicazione umana rivelando all’uomo la sua dignità, laddove è facile constatare che il materialismo è la radice della idolatria del lucro, dell’asservimento dell’uomo alle cose e che, negando esso i limiti chiari e precisi tra l’uomo e la bestia, prepara all’uomo il trattamento della bestia. Il conferimento del valore assoluto ed esclusivo al fattore economico, accomuna poi stranamente il marxismo al suo nemico, il capitalismo, laddove la priorità cronologica, la strumentalità assolutamente necessaria dell’economia non può avere la priorità di valore che è propria della spiritualità umana, a cui peraltro si devono lo stesso progresso economico, le aspirazioni potenti ed il graduale accostarsi a un ideale di concreta giustizia. Il marxismo si spoglierebbe di ogni vsalore se riconoscesse che è l’economia al servizio dell’umanità e non questa in funzione di quella, essendo l’uomo il fine e l’economia il mezzo e un mezzo partecipe della necessità e della dignità del fine; solo a tal patto si può parlare di umanesimo… marxista, cioè rigettando la disumana umiliazione materialistica dell’uomo e, in ultima analisi, l’ateismo.
Il proclamato determinismo fatalista mal si concilia con il volontarismo della prassi ed il sangue succhiato dai miti all’umanità ci ammonisce a non cedere alla suggestione di quella fantasticheria senza consistenza qual è il presupposto utopistico adoperato, con scaltrito machiavellismo, da Marx e dai suoi seguaci, come lo stupefacente energetico, l’acquavite del popolo, l’«orto del paradiso degli animali», per servirci d’un’incisiva espressione bruniana. Non si lavora né per l’umanità di oggi né per quella di domani ipotetico destituendo ora, di fatto e di diritto, e per un tempo indeterminato, l’uomo d’ogni intrinseco valore, sottomettendolo ad un inesorabile inconscio collettivo con le più progredite tecniche di degradazione e di avvilimento.
«… Deporranno ai nostri piedi la loro libertà e diranno: saziateci e poi rendeteci schiavi. Diventeremo Cesari e daremo agli uomini la felicità degli impotenti, di coloro che sono nell’impotenza; permetteremo loro di peccare e per questo ci ameranno come bambini»: così Dostoevskij aveva divinato il dramma dell’ateismo bolscevico in una celebre invettiva a Cristo.

L’urgente necessità di una mentalità cristiana sul problema sociale.

Sovrapposizione di uno sfruttamento velato a quello cinico, introduzione notturna del cavallo di Troia dei capitalisti nella città degli sfruttati della terra, il Cristianesimo eternizza l’ingiustizia col narcotico della pazienza e della carità: in questa tesi di Marx, rivivono, con esasperata durezza ed elaborata persuasione, vecchie accuse pagane, machiavelliche, rousseauiane e di tanti altri contro il messaggio evangelico e la fede in Cristo .
Se fossero vere tali accuse ogni uomo che ami virilmente l’uomo non dovrebbe essere cristiano: è un fatto però che se tali accuse sono state mosse ed hanno trovato una così vasta risonanza, quanto più sono infondate riguardo a Cristo e alla sua dottrina – e nel capitolo sul «Vangelo e l’ingiustizia sociale» P. Bevilacqua lo dimostra con una evidenza che fuga ogni dubbio – tanto più stanno a denunciare l’abisso dell’infedeltà, del tradimento consumato contro Cristo dai cristiani.
Nella cristianità ci sono elementi letargici cristallizzatisi in una mentalità particolarmente anticristiana nella incomprensione del problema sociale.
Distanze interstellari tra i bisogni degli uomini e l’atteggiamento mentale dei pastori; timidezze che rivelano affinità elettive poco evangeliche; avidità dei sorrisi largiti dai potenti; abominevole identificazione tra benpensanti e possidenti e tra l’ordine e lo stato di fatto; deformazioni della religione in affare privato che dispensa dalle compromissioni con i potenti, in sentimento che permette ogni incoerenza, in pura esteriorità che esenta dallo sforzo di tradurre il Vangelo nella vita sociale, in esclusivo tradizionalismo che dà la torpida sicurezza di vivere di rendita su ciò che gli altri hanno accumulato per noi, che permette agli uomini di seguire l’inclinazione delle proprie abitudini fornendo loro ottimi argomenti per giustificare la loro pigrizia con l’illusione di avere già in tasca le soluzioni pronte anche per i problemi che richiedono specifica competenza e continua aderenza alle mutate condizioni del mondo: da tutto ciò bisogna liberarci in nome della nostra appartenenza a Cristo.
P. Bevilacqua opportunamente suggerisce ai sacerdoti di non essere facili a lasciar cadere dall’alto la parola «pazienza», soprattutto se ci si trova dinanzi a quella parte dell’umanità che da migliaia di anni insacca una pazienza che minaccerebbe ormai di divenire idiota, inerte subordinazione all’ingiustizia; e riferisce la recente avventura di chi ha visto dinanzi a sé vuotarsi la chiesa ricolma di minatori per una stupida trovata che gli avrà valso certamente un sorriso di protezione da parte del capitalista locale: «S. Giuseppe non chiedeva aumenti di salari».
La vera pazienza, quella cristiana, non è né la debolezza, né il calcolo millimetrato, né l’incertezza delle animucce linfatiche.
S. Tommaso la definisce «virtus conservans bonum rationis contra tristitiam» e ne indica la caratteristica nel «labor in continua executione boni» . Pazienza è, dunque, coerenza prima di tutto, fermezza incrollabile, agire cauto e continuo sotto la pressione della più alta inquietudine: l’attuazione del bene.
Il cristiano deve vedere in ogni ingiustizia sociale una violenza ad un inesorabile ordine divino del quale egli è stato costituito sentinella avanzata e primo corresponsabile: l’ingiustizia è offesa a Dio ed all’uomo e rassegnarci all’ingiustizia vale quanto cedere al male, adottando praticamente la logica individualistica di Caino: «Sono io forse il custode di mio fratello».
La prudenza a cui si fa appello non è spesso la prudenza della carne (Rom. VIII, 6), nemica di Dio e rinnegamento dell’audacia evangelica? Il far presto non significa necessariamente semplicismo, imprudenza, ingiustizia, mentre un ulteriore ritardo, ora, può significare cancrena galoppante.
Il più efficace collaboratore dell’ateismo borghese e di quello proletario è, ancora oggi, il credente senza fame e sete di giustizia, il credente la cui vita religiosa costituisce una vera e propria totale alienazione dell’uomo da se stesso e da Cristo (la Grazia rinnova la natura e sovraedifica su di essa, non la ignora e tanto meno la distrugge), il credente che s’illude di essere penetrato dell’eterno perché non ha il coraggio di essere fermento cristiano, sale e luce della terra.
La carità di chi ama Cristo opta per l’asse della miseria proprio per il bene comune di tutti e sa amare tanto gli uomini da comprenderli e da desiderare a ciascuno, in un mondo rinnovato da loro stessi, l’onore, la coscienza libera, la giustizia, mentre il paternalismo di certe maniere di pensare e di attuare la carità fa pensare ad una miserevole evasione dal problema della giustizia, alla velleità di adoperarsi tutt’al più a che siano imbiancate facciate crollanti quando la vita esige costruzioni nuove.
Amare non è mai diminuire ed assorbire: amare è rispettare la costituzione profonda di ciascun essere, fortificarla, portarla a pienezza, per cui il cristiano deve promuovere l’adempimento dell’anelito di una maggiorità da parte di coloro che per millenni furono gli umiliati e gli offesi, cessando, anche nel pensiero di trattare i proletari da minorenni, perché ogni vera educazione vuole che si trattino gli altri secondo quello che dovranno divenire e domanda quindi alla sua base la confidenza e l’amore vero per tutti.
Potremo dire che il fascino del marxismo, la sua anima di verità stia proprio nell’aver fatto considerare con serietà al mondo la invincibile necessità di organizzare la società sulle direttrici del «fiat aequalitas» (Cor. II, 8) e del «chi non lavora non mangi» di S. Paolo; ma se l’eredità cristiana è indelebile, se anche nei più micidiali pervertimenti si ritrovano le idee madri, il servirsi contro Cristo di ciò che inconsciamente si deve a Lui solo, significa, da una parte, ancorarsi sempre più nella persuasione che si basti a se stessi e che la sorgente divina a cui si è attinto, è inutile e, dall’altra, alimentare equivoci di portata storica.

La pedagogia dell’apostolato.

Uno dei nodi della questione, appare evidente, è la formazione di guide cristiane all’altezza della propria missione di apostoli che amino troppo la Chiesa per credere che essa si possa servire fuori della verità e della giustizia nella carità.
Nessuna guida, come nessun educatore, sa bene il suo mestiere ed è difficile che lo impari appieno se il suo vuol essere quello che deve essere: mestiere di uomo e non di macchina, pienezza di umanità e pienezza di Cristo.
L’ineliminabile indegnità e mediocrità dell’apostolo rispetto alle vertiginose altezze del Vangelo non è anch’essa una garanzia di verità?
La Chiesa, voce di Dio, costituisce di per sé una sfida a tutta la condotta degli uomini ed una di quelle sfide che non è facile sopportare (Belloc) e i sacerdoti, creature di confine e lanciatori di ponti tra l’uomo del proprio tempo e Dio, amministratori del sole e bisognosi essi stessi di continua Luce, sono coloro di cui l’anima ha più bisogno e di cui sente maggior fastidio.
In questa posizione singolarissima, unica, il testimone del mondo divino è chiamato a vincere nel patire per la giustizia e nell’annunciare la buona novella ai poveri.
Che meraviglia se, impegnato nell’imitazione di Cristo, scoprirà ad un certo momento che la Chiesa trionfante non è qui su questa terra, ma passa attraverso questa pur santa e miserabile Chiesa militante, a cui non si deve mai chiedere una posizione comoda per vivacchiare barando sull’impegno di fede esplicitamente richiesto?
Predicando la necessità dell’amore del prossimo e di Dio, cercando di spiegarsi la sterilità e la dispersione di tanti prodigi autentici di dedizione e di sacrifici, quanti s’accorgono che il loro dovere non è solo di amare altri ma soprattutto di rendere se stessi degni di essere amati dagli altri? «Un individuo ineducato, grossolano, brutale – scrive Alexis Carrel nelle sue meditazioni pubblicate di recente , – anche divorato dall’amore del prossimo, viola la legge evangelica perché rende impossibile agli altri la legge dell’amore»: Dio vuole che la carità proceda sempre ab intus, dall’autoeducazione nostra procedente nella sua grazia, nella sua verità.
Il problema dell’adeguazione del sacerdote all’uomo moderno va poi chiarito bene; non si tratta di tagliare le ali al Vangelo con la sciocca pretesa di rendere «ragionevoli»(!) le sue formule misteriose e dinamiche, eliminando ogni inquietudine sul mistero della salvezza, né di imitare i gusti, le fanciullaggini e, peggio, i vizi imperanti con atteggiamenti snobistici che scontentano e non edificano mai, né di ischeletrire la pietà, meccanizzando la liturgia, in un culto senza anima, fine a se stesso: non si tratta per nulla di tutto ciò, perché il Vangelo è il principio e il termine dell’attrazione d’ogni uomo verso l’Assoluto, la solidarietà nella meschinità non è amata in chi si fa per la sua stessa posizione, nostra guida, e la liturgia, aiutando ad intuire la Presenza e la Verità nella bellezza, ci richiama da ogni smarrimento e dispersione al senso dell’essenziale della vita e all’universalità dell’amore.
S. Paolo esprime un altro voto filiale di milioni di credenti quando afferma che nell’assemblea cristiana giovano di più cinque parole intelligibili che non mille in lingua ignota (Cor. XIV, 12). Si esige oggi chiarezza che non sia superficialità, profondità che non sia verbalismo, attualità che non sia abbandono delle fonti, fedeltà a Cristo che non sia partigianeria tra gli uomini: soprattutto è richiesto quel senso dell’essenziale e del reale che preserva il sacerdote dal divenire «il preposto alle cose vaghe» (Aldous Huxley). La facilità di parola e di improvvisazione costituisce a tal proposito, il più grande pericolo per il predicatore, il quale, – come osserva Bernanos – dovrebbe scendere dall’ambone disfatto e tremante mentre discende troppo spesso sudato e contento.
Il frastuono esasperante della propaganda, assurta ad autentica forma di coartazione psichica, l’esaltazione delle forme di accentramento organizzativo, coi loro facili successi, hanno tentato e contaminato i metodi di apostolato di troppi cristiani. Lo sforzo diretto a far condividere ai propri simili la verità salvificatrice è nella linea della socialità della persona umana e dell’obbedienza a Cristo: «Andate nel mondo intero, predicate il Vangelo ad ogni creatura», ma il metodo dell’apostolato cristiano ha un’anima tutta sua che non va mai, in nessun caso, mortificata senza incorrere nell’atroce rimprovero di Cristo: «Guai a voi, che percorrete il mare e la terra per fare un proselite e, quando lo è divenuto, ne fate un figlio dell’inferno due volte più di voi».
C’è dunque una dimensione interiore che ci impedisce il fanatismo intollerante, la politica del successo immediato come che sia, l’assenza del pudore religioso, le parole presuntuose, troppo sicure e paghe di sé, la slealtà anche nei confronti di nemici sleali, la preferenza per mezzi chiassosi che suggestionano senza edificare (parate, divise, terminologia di stadio e di caserma, ecc. ecc.).
L’organizzazione (necessaria nel secolo della super-organizzazione ateistica) deve sempre e gioiosamente accettare quel duplice primato cristiano della carità e della libertà, per il quale essa si distingue nettamente per spirito, per forma, per discrezione, per rispetto della personalità umana, da ogni altra organizzazione.
Ebbene, si chiede l’autore, «è possibile che generazioni martirizzate scoprano la genuinità del messaggio cristiano attraverso forme le quali furono docili strumenti nelle mani di tutti i dispotismi che hanno trattato come cavie: anime, corpi, terre, civiltà?».
In verità, le anime prestano oggi attenzione solamente a parole semplici, dirette, immediate, che scaturiscono da una comunione d’intuizione e di tragedia; parole lente, che si fanno strada faticosamente come tutto ciò che proviene dall’abisso: il vero Dio è discreto, così i suoi testi. La tattica più fedele allo spirito del Vangelo è la più probabile per essere ammessi all’intimità col mondo moderno: bisogna cercare gli uomini senza sforzarli nei loro lenti dinamismi, perché il moto vorticoso è solo alla superficie, mentre nelle profondità l’uomo si muove sempre lentamente, come la natura e come (quasi sempre) la grazia. Per questo l’eroe incredulo delle Chiavi del Regno ringrazia il missionario di non aver voluto salvarlo per forza.
Cercare gli uomini senza manovre accerchiatrici ma solo suscitando in loro quel bisogno di luce e di fraternità che è insito in ogni uomo: ecco alcune grandi coincidenze tra il metodo di Cristo (Lc. XXIV, 13) e le richieste mute od espresse dell’ambiente contemporaneo.

Cesare e Dio.

Esaminando vari aspetti collegati della complessa ed armonica visione cristiana della realtà, P. Bevilacqua conclude la sua appassionante indagine con una chiarificazione quanto mai opportuna ed efficace sul clericalismo e sul laicismo, sui rapporti tra Cesare e Dio, politica e religione .
Il clericalismo, essendo volontà di dominio in veste sacrale, nasce ovunque un uomo, un gruppo, un cenacolo chiuso si convince di poter pensare, parlare ed agire sulla linea dell’angusta fede farisaica: Io non sono come gli altri uomini!
Faust, rivelandoci le sue inquietudini di dannato, scopre la debolezza del peggiore clericalismo: «Bisogna rinunciare a dominare per adorare»; il clericalismo, alla sua radice, è rinuncia ad adorare per dominare, spinta – attraverso vari gradi – sino al sacrilegio di fare dell’Assoluto e dell’Eterno dei semplici mezzi di conquista.
Vi è però un’evidenza che s’impone a tutti: il clericalismo, nella sua forma più detestabile (più spesso esso è frutto di confusioni di piani e di incoerenza di mezzi, più che di una deliberata perversione del fine), è una tra le mille maschere di quella sete di potenza, di quella libido dominandi insorgente proprio dal ripudio del Cristianesimo e perciò solo anime profondamente religiose possono difendersene perché la loro fede le mette nelle migliori condizioni per misurarne la capacità degradatrice.
Il laicismo non risolve il problema essendo una etichetta troppo equivoca in cui possono trovarsi stranamente associate la difesa della libertà e della spiritualità cristiana e la negazione della sapienza evangelica, la faziosità più gretta (è, ad esempio, diffusa tra i laicisti la pretesa di misurare la Chiesa contemporanea non dai pionieri del suo pensiero e dalla fiamma cristocentrica dei suoi santi, ma dal fallimento di gregari). Coerentemente inteso, il monito di Cristo: «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio» (Mt. XXII, 21, 22) sbarra la via dei clericalismi e dei laicismi, offrendo agli uomini di tutti i tempi una direttiva essenziale per la difesa della verità e della libertà. A chi si ostina a vedere nella religione una evasione dalla realtà, sia chiaro che il Cristianesimo non ripugna lo stato e la politica: l’affermazione del valore e dei diritti della persona umana, in cui si attua una vita destinata a trascendersi nella eternità, e la rivendicazione della universale fratellanza degli uomini in Cristo (Ad Galates III, 26 – 29) hanno dischiuso gli orizzonti della storia, ponendo «le premesse e le basi ideali di un nuovo stato, capace di rispettare quei diritti e quei valori, anzi di porre nella loro tutela la propria garanzia e la sua più elevata funzione» .
Si capisce allora come la Chiesa, nella sua Cattolicità sovrastatale, sia stata nei secoli e sia ora più che mai – malgrado le omissioni e le deficienze dei suoi uomini – la più salda difesa della persona e della libertà umana dalla statolatria e dal Cesarismo, e perciò la molla interiore del progresso civile morale e politico della nostra civiltà.
Oggi, – un maggior sviluppo del senso cristiano concreto che fa scorgere tutto il valore della persona umana indipendentemente dalla sua appartenenza a schemi di razza, di classe, di religione – il senso autenticamente cristiano di un’autorità che sarà tanto più venerata dai popoli quanto più in essa, tutto apparirà servizio e nulla privilegio – le esperienze amare di tutte le corruzioni interiori generate da situazioni privilegiate accordate dagli stati alla Chiesa solo per dominarla, assimilarla ed asservirla, tutto induce la coscienza cristiana a non voler riesumazioni di assurdi ed anacronistici stati clericali o teocratici.
Lontana da agnosticismi equiparanti l’errore alla verità, la Chiesa, nel suo squisito senso storico sarà portata sempre più a premere direttamente sul meccanicismo della vita economica, politica, culturale, se non entro i limiti chiari della sua missione redentrice.
«Dio per salvarci ha rinunciato al privilegio abbracciando il diritto comune, divenendo cioè simile in tutto a noi, ad eccezione del peccato, ed il Cristo ci ha additato così, nell’eguaglianza del diritto comune, il mezzo principe di redenzione. Su questa strada il clero incontrerà nuovamente il suo popolo, il tempio, la sua libera respirazione, la società, il senso smarrito del sacro. Società cristiana sarà allora la società nella quale lo spirito del Vangelo sarà pienamente libero di circolare come lievito di elevazione delle leggi, nella costituzione della famiglia, della scuola.
La Chiesa troverà il concreto riconoscimento che le permetterà il suo grandioso contributo alla salvezza dell’uomo e alla sicurezza della civiltà, senza menomamente attentare all’indipendenza di Cesare nella sua sfera specifica, e senza nostalgia di ritorni a quella forza dalla quale la Chiesa ha tanto patito, e patisce anche ora, per opera di totalitarismi».
Christus venit semper: Cristo è venuto anche per gli uomini del secolo XX, le cui ansie più nobili, sia pure espresse nelle forme più blasfeme, sono una testimonianza, e spesso un’ardente invocazione, a Colui che solo può soddisfarle e potenziarle in capacità costruttiva, a Colui che, se per l’al di là è la nostra speranza, è la nostra suprema luce e certezza per vivere ogni giorno, in questo mondo, in maniera degna dello spirito.

Supplemento Pedagogico, Anno 1950 – 51.

(Il testo completo di note è disponibile in formato pdf. scaricabile)