Antiche storie di caccia

Ritorna la stagione della caccia, con le passioni contrapposte che ai nostri giorni suscita. Ma questa è anche l’ occasione per ripensare alle origini linguistiche della parola e ad alcune testimonianze letterarie antiche sull’ argomento.
Consideriamola dal punto di vista linguistico, innanzitutto: andare a caccia, cacciare, è alla latina un atto di captiare, cioè una forma intensiva del verbo càpere, che significava "prendere, catturare": quindi il verbo indicava la cattura di una preda, o almeno il tentativo di farlo.
Dal punto di vista letterario, le attestazioni antiche sulla caccia sono ovviamente numerose, vista la diffusione universale del fenomeno. Nel mondo greco, ad esempio, non c’è che da scegliere tra le scene di caccia nei poemi omerici o quelle nelle commedie di Esopo; oppure si può aprire una delle tragedie più famose di Euripide, l’ Ippolito, e leggere della passione esclusiva del protagonista nei confronti della dea Artemide e quindi per la vita da cacciatore.
Altrettanto si può dire per la facilità, che abbiamo, di imbatterci in scene di caccia nella letteratura latina: basterebbe ricordare Orazio, che in un’ ode (1,1) annovera tra le diverse attività umane anche quella del cacciatore, il quale abbandona persino la tenera moglie per inseguire con i cani la cerva avvistata sui monti o il cinghiale della Marsica che ha rotto le reti apprestate.
Ma se vogliamo leggere di una caccia che può dirsi davvero eccezionale, sia per l’ ambiente in cui si svolge sia per il bottino che procura, possiamo aprire le Storie di Alessandro Magno scritte da Curzio Rufo, uno storico forse del I secolo d.C. Vi troviamo un racconto fantastico e grandioso insieme, che si svolge nel viaggio di andata di Alessandro alla conquista dell’ Asia: siamo nell’ antica regione della Sogdiana, che corrisponde all’ odierno Uzbekistan, nel 328 a.C.
Curzio Rufo racconta che Alessandro ha da poco assoggettato i Sogdiani e conquistato la loro capitale Maracanda, che oggi è la famosa Samarcanda. Ormai è padrone del territorio, i dignitari locali gareggiano in atti di obbedienza servile e nell’ offrigli in moglie le proprie figlie. Tra le diverse manifestazioni di sottomissione, c’è anche l’ apertura al sovrano macedone dei territori riservati di caccia grossa. Anzi, precisa lo stesso storico, è proprio l’ ostentazione di grandi pascoli di uso esclusivo per la caccia a dare il segno della potenza economica raggiunta.
Alessandro non si fa pregare due volte ed entra con l’ intero esercito in una vasta regione vicina a Maracanda, tutta destinata alla caccia; ad accrescere la ricchezza del territorio si aggiunge il particolare che da quattro generazioni quella zona era rimasta intatta dall’ attività venatoria, per cui si sapeva che gli animali vi si erano riprodotti in grande abbondanza.
In un paesaggio ameno fatto di boschi, di radure e di sorgenti si svolge ora un’ imponente battuta di caccia grossa, che porta anche il re ad affrontare pericolosamente un leone di rara grandezza. E’ a questo punto che Lisimaco, uno dei generali greci, vorrebbe intervenire in aiuto del sovrano, ma Alessandro stesso gli ricorda che in altra occasione Lisimaco stesso se l’ era cavata da solo contro un leone: perciò il re non può essere da meno anche come cacciatore. Curzio Rufo racconta così dell’ uccisione della fiera e quindi del rischioso successo personale di Alessandro: ma questo è solo un particolare dell’ immenso bottino dei Macedoni, che alla fine contano quattromila fiere abbattute.
Naturalmente un grande banchetto all’ aperto suggella il termine del fortunato safari. Ma le incombenze militari richiedono presto altrove la presenza di Alessandro, e la vicenda venatoria nella Sogdiana verrà ricordata solo come una piccola parentesi all’ interno della grande spedizione in Oriente.

Giornale di Brescia, 14.9.2002.