Arthur Schopenhauer

«Schopenhauer è il Giobbe della speculazione» (S. Kierkegaard)

La personalità filosofica

Arthur Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788 e morì a Francoforte nel 1860. Fu uomo condannato a sentirsi senza radici di amore. Il padre, Enrico Floris Schopenhauer, agiato commerciante figlio di una generazione di pazzi (morto pare suicida nel 1805), trasmise ad Arthur la scintilla dell’avventura. La madre fu donna «di facili lettere e di facili costumi», lodata dall’olimpica vanità di Johann Wolfgang Goethe: il giovane Arthur vide in lei il maggior ostacolo della sua vita. Nel 1811 seguì le lezioni di Fichte, ma provò disgusto per quella filosofia «farisaica», la cui oscurità gli parve «rivoltante». L’incontro decisivo per la formazione del suo pensiero avvenne nel 1813 a Weimar, dove Schopenhauer incontrò un orientalista, Friedrich Mayer, che lo introdusse alla letteratura filosofica indiana. Il suo interesse per la filosofia indiana doveva durare sino al termine della vita, meditando da vecchio sul testo delle Upanishad (termine con cui si indicano testi di varia ampiezza e forma di dottrine esoteriche). Sempre nel 1813 Schopenhauer discusse a Jena la tesi di laurea Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, pubblicata nello stesso anno a Weimar e riedita nel 1847. Johann Wolfgang Goethe si rallegrò con l’autore e Schopenhauer ricambiò col saggio Sulla visione e i colori. Nel 1820 conseguì la libera docenza a Berlino e durante la dissertazione venne a diverbio con Hegel. Le lezioni a Berlino erano deserte; usando un’espressione di Goethe, Schopenhauer disse che i professori tedeschi «insegretirono» il suo lavoro filosofico. Nel 1833 si trasferì a Francoforte sul Meno. Schopenhauer fu uno degli uomini più disperatamente ammalati della sua singolarità, anche perché i contemporanei lo assediarono della loro impenetrabile indifferenza: fu professore senza allievi, autore senza lettori, conferenziere senza uditori, come era stato figlio non amato. La gloria giunse al filosofo solo nell’età del secondo impero quando ormai le sue forze erano in declino. «Il capo stanco a stento può reggere l’alloro» dice in un verso del 1856. Schopenhauer era un brillante conversatore, aveva un innato senso dell’umorismo e indiscutibili doti di scrittore. Dotato di un forte carattere e di volontà, era egoista, vanitoso e all’occasione maleducato. Le sue opere più importanti sono: Il mondo come volontà e rappresentazione (pubblicata agli inizi del 1819, riedita nel 1844 e nel 1859), Sulla volontà della natura (1836), I due problemi fondamentali dell’etica (1841) e Parerga e Paralipomena (1851), scritti diversi di letteratura, filosofia, diritto, composti in uno stile brillante ed accessibile. Grande fu la sua fortuna soprattutto in Francia e in Inghilterra. Umberto Antonio Padovani, nel volume Schopenhauer, (Vita e Pensiero, Milano 1934, p. 19), così riassume la posizione filosofica di Schopenhauer: «Per quanto riguarda il problema gnoseologico un idealismo subbiettivistico, fenomenistico, che viene superato, risolto mediante una forma di intuizionismo, per cui lo spirito attinge la realtà assoluta. Per quanto concerne il problema metafisico un monismo irrazionalistico, perché l’essere assoluto è volontà pura, che perciò vuole senza un fine. Per quanto spetta infine al problema morale, un pessimismo assoluto e dunque un radicale ascetismo, onde lo spirito possa da questa dolorosa esistenza liberarsi e passare nella pace del nirvana». Kierkegaard lo disse «il Giobbe della speculazione».

Il post-kantismo è la filosofia dell’oscillazione tra fenomeno e noumeno, finito e infinito, intuizione e ragione: Schopenhauer ebbe il coraggio di fare di questa oscillazione l’ubi consistam del suo sistema filosofico. I tre orientamenti di pensiero che si incrociarono nella formazione della filosofia di Schopenhauer sono Platone, Kant (entrambi per la comune convinzione che il mondo sensibile non è che apparenza) e la speculazione indiana; ma il clima proprio del pessimismo schopenhauriano è romantico. Schopenhauer assume consapevolmente la contraddizione fondamentale del romanticismo di portare l’assoluto nel relativo e, come il romanticismo, così la sua concezione del mondo e della vita è pertanto tensione tra mistica ed estetica.

L’importanza storica e spirituale di Schopenhauer è stata ben espressa da Giuseppe Faggin («Introduzione» all’Etica, Boringhieri, Torino 1961, pp. 25 – 26): «In un clima saturo di storicismo panteistico e di mitologia idealistica, a Schopenhauer toccava in sorte di disincantare l’uomo delle menzogne della storia sacra dell’hegelismo, di ricondurlo alle sue dimensioni umane e terrene e di metterlo di fronte al problema del suo personalissimo destino. La ribellione di Schopenhauer ai pregiudizi inveterati, le sue acute analisi fenomenologiche, il suo senso dell’essere e del mistero compiono una funzione genuinamente filosofica e iniziatica».

La sua filosofia è stata variamente interpretata. Per Kuno Fischer (1898), d’impostazione hegeliana, la nota dominante è l’estetismo; la sua personalità cade fuori dalla sua filosofia: «Il filosofo non è impegnato dagli insegnamenti della sua filosofia». Considerò se stesso come il Budda dell’occidente, ma non fu né penitente né un asceta come Budda. Johannes Volkelt (1907) ritiene invece che nel pensiero di Schopenhauer prevale sulla nota estetica quella etico-religiosa. Occorre interrogarsi non tanto sulla fedeltà di Schopenhauer alle virtù del rifiuto del mondo, dell’umiltà, della serenità, quanto piuttosto assumere le lacerazioni della sua esperienza a chiave interpretativa della sua filosofia. Malgrado tutte le apparenze contrarie, la sua filosofia vuole essere essenzialmente una filosofia della salvezza. «Quanto più acuta è in lui la coscienza della nullità e miseria dell’esistenza, tanto più è penetrato dal bisogno di sollevare l’uomo da questa esistenza indegna e degradante per immergerlo nel regno dell’Uno e dell’Eterno». Paul Deussen (1877) è il primo a dare di Schopenhauer un’interpretazione religiosa. Correlativa all’esperienza del male è l’apertura alla dimensione più profonda del mondo in cui dal male siamo redenti. Secondo Søren Kierkegaard, Schopenhauer effettua un’inconscia ma efficace reductio ad absurdum del monismo. «Come durante un’epidemia si tiene qualcosa in bocca per impedire possibilmente il contagio dell’aria appestata, così si dovrebbe raccomandare agli studenti di teologia, che devono vivere qui in Danimarca in quest’insulso ottimismo cristiano, di prendere ogni giorno una piccola dose dell’Etica di Schopenhauer per immunizzarsi dall’infezione di queste chiacchiere» (Diari, XI A 165; trad. it. Morcelliana, Brescia 1951, vol. III, p. 131). Francesco De Sanctis: «Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, ma non sapeva il perché. “Arcano è tutto / Fuorché il nostro dolor.” Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille» («Schopenhauer e Leopardi», in Opere, vol. XIII, Einaudi, Torino 1969, p. 444). Bertrand Russel: «Il vangelo schopenhaueriano della rinuncia non è molto coerente né molto sincero. E neppure è sincera la sua dottrina, se ci è lecito giudicare dalla vita di Schopenhauer. Abitualmente pranzava bene, ad un buon ristorante; ebbe molti amorazzi triviali, sensuali, ma non appassionati; era eccezionalmente litigioso e avaro fuor dal comune. Sotto tutti gli aspetti era un completo egoista. È difficile credere che un uomo completamente convinto della virtù dell’ascetismo e della rassegnazione non abbia mai fatto nessun tentativo d’applicare nella pratica le sue convinzioni» (Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1967, p. 1007 – 1008). Pure per Nicola Abbagnano la personalità di Schopenhauer cade interamente fuori dalla sua filosofia, la quale rimane priva del maggior pregio di ogni filosofia: la testimonianza viva del filosofo che l’ha elaborata.

La critica dell’idealismo

Per tutta la prima metà dell’Ottocento in Germania come – sia pure in grado minore – nel resto d’Europa, l’idealismo compenetrò del suo spirito non soltanto la filosofia, ma tutti i rami della cultura, dall’estetica alla politica e al diritto, dalla scienza della religione agli studi della storia. Specialmente nella forma sistematica e più rigidamente logica che aveva avuto da Hegel, esso fu il vero dominatore degli spiriti.

Le direttrici della reazione anti-hegeliana furono due: il ritorno a Kant e il rovesciamento dell’hegelismo panlogistico nell’irrazionalismo, delle illusorie conciliazioni dialettiche nel pessimismo. Schopenhauer ripropone il tema dell’uomo come animal metaphisicum, della sofferenza e del bisogno di liberazione estetica, etica e religiosa. Schopenhauer e l’idealismo hanno in comune il presupposto romantico dell’immanenza, l’immanenza gnoseologica, l’aspirazione a lacerare il velo disteso da Kant sul noumeno. «Niente è più certo – afferma nella sua opera maggiore Il mondo come volontà e rappresentazione pubblicata nel 1819 – che nessuno può uscire da sé per identificarsi immediatamente con le cose diverse da lui; tutto ciò di cui egli ha conoscenza sicura, quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza». Ed ancora: «tutto quanto è compreso e può essere compreso nel mondo deve inevitabilmente avere per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto». La filosofia moderna da Cartesio e Berkeley ha dimostrato che la vera filosofia deve in ogni caso essere idealistica, accettando la pregiudiziale dell’immanenza gnoseologica. Detta pregiudiziale nel filosofo di Danzica non mette capo all’idealismo assoluto, ma ad un convinto fenomenismo.

La violenta opposizione di Schopenhauer all’idealismo, «filosofia non speculativa, ma lucrativa», si basa su cinque capisaldi: il rifiuto del panteismo, del panlogismo, della dissoluzione dialettica del male, dello storicismo e, infine, dell’intellettualismo astratto del metodo hegeliano.

  1. Se Schopenhauer assume il monismo, rifiuta energicamente il panteismo, che è razionalismo ed ottimismo, e che egli giudica assurdo e immorale e rovescia in irrazionalismo, pessimismo e ateismo. «Se io ho in comune con i panteisti questo En-kai-Pan non condivido il loro Pan-Theòs; poiché io non oltrepasso l’esperienza presa nel senso più largo e meno ancora voglio mettermi in contraddizione con i dati della realtà. Ben conseguente con lo spirito del panteismo, Scoto Euriugena dichiara ogni fenomeno una teofania: ma allora bisogna applicare questa nozione fino ai fenomeni più terribili e più assurdi: singolari teofanie!» (Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 50). «Sarebbe meglio identificare il mondo col demonio» (Paperga e paralipomena, par. 68)
  2. All’idealismo assoluto, Schopenhauer si oppone in quanto sostiene l’irrazionalità del reale, come volontà cieca, che crea bensì la ragione come suo strumento, ma senza per questo divenire razionale in se stessa. Al panlogismo hegeliano che proclama l’identità di realtà e ragione, Schopenhauer oppone il suo radicale irrazionalismo: «tutto ciò che è reale è irrazionale».
  3. Per il dialettismo di Hegel il negativo, l’irrazionale, il male è momento necessario del ritmo triadico dell’idea che viene superato immancabilmente, sempre vinto dalla ragione. Esiste anzi solo per il trionfo di questa, così come secondo il Foscolo lo splendore di Ilio: «Per far più bello l’ultimo trofeo / ai fatali Pelidi» (Sepolcri, vv. 286 – 287). Il male nell’idealismo si riduce ad un’apparenza inconsistente, a un miraggio dell’intelletto astratto o ad una negatività dialettica, che adempiendo una funzione necessaria si risolve nell’essenziale positività dello Spirito. La negatività del male si disvela pertanto come avente un valore positivo, essendo la condizione del positivo che altrimenti non sarebbe. Per Schopenhauer, invece, il male e l’irrazionale sono la sostanza stessa del reale, il vero volto della volontà. Questo mondo è sconvolto dal dolore, dalla morte, dal peccato, dal male. «I panteisti non possono avere una morale seria, perché per essi tutto è divino ed eccellente». Non un qualche dubbio logico o un’indiretta certezza logica, bensì la certezza realmente immediata del male fisico e morale nel mondo rappresenta il punto di partenza della problematica filosofica. Se il mondo fosse appena peggiore non potrebbe esistere. Se il mondo non fosse qualche cosa che non dovrebbe essere, non sarebbe un problema.
  4. Altro carattere differenziale: la negazione del valore della storia come teofania, come attuazione della ragione e progresso della coscienza.
  5. La contrapposizione di Schopenhauer riguarda anche il metodo stesso del filosofare. L’idealismo è «la filosofia delle università, non solo espressa in concetti ma anche ricavata dai concetti»: secondo lo schema del ritmo triadico, che sembra escogitato apposta per creare artificiose simmetrie e far violenza alla realtà e alla storia. In realtà tutti i concetti riflessivi sono vuoti se non si fondano su qualche intuizione immediata, derivando da essa la loro giustificazione. Malgrado le polemiche anti-intellettualistiche, l’idealismo è l’espressione tipica del più grave difetto della filosofia moderna: l’intellettualismo astratto. Schopenhauer, che prende le mosse da Goethe e Schelling non meno che da Kant, vuole invece interpretare e descrivere l’universo nella sua ragione ultima in virtù di una geniale intuizione.

Il mondo come rappresentazione e volontà

Il dichiarato punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Questa distinzione viene interpretata in un senso che non ha nulla in comune con quello genuinamente kantiano. Per Kant il fenomeno è reale, è l’unica realtà possibile della conoscenza umana; per Schopenhauer il fenomeno è illusione, apparenza, sogno, ciò che nella filosofia indiana è detto «velo di Maja». Il mondo è la mia rappresentazione, è un principio simile agli assiomi di Euclide, immediatamente evidente. La filosofia moderna ha avuto il merito di rendere esplicito questo principio secondo il quale la vera filosofia deve essere idealistica, cioè professare l’immanenza gnoseologica. La rappresentazione del mondo risulta da una sintesi di una materia data a posteriori (molteplice, particolare e contingente, in cui però si realizzano in modo sempre diverso dei ‘tipi’ eterni e immutabili) e delle tre forme a priori dell’intelletto umano: tempo, spazio, causalità. Nella rappresentazione i fenomeni appaiono pertanto come collocati qua e là, in una connessione di prima o di poi, gli uni dipendenti dagli altri. Le tre forme a priori sono fenomeni del mondo organico: i principi sono insomma concepiti come prodotti (la stessa tesi viene sostenuta dal positivista Herbert Spencer).

Ma il rappresentare è sempre un guardare dal di fuori, un conoscere in superficie, incapace di dirci che cosa ci sia al di là delle immagini sensibili. Dal punto di vista della rappresentazione è impossibile distinguere realtà e sogno. Il mondo come ce lo rappresentiamo non è che un sogno: un’illusione circonda gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né se è né se non è (velo di Maja). La vita differisce dal sogno propriamente detto per la sua maggiore continuità e connessione.

La rappresentazione vale sia per il mondo esterno, sia in rapporto al nostro io. L’io, in quanto guarda se stesso dal di fuori, non si conosce se non come un oggetto fra gli oggetti, come un organismo corporeo tra gli altri corpi.

La ragione serve ai bisogni del corpo e supplisce con i concetti alle deficienze delle percezioni: essa è pertanto una specie di prolungamento dell’istinto cosciente.

Il radicarsi dell’io nel suo corpo fornisce il filo conduttore che ci permette di penetrare la realtà in sé, di scoprire il segreto della realtà al di là del velo di Maja del mondo fenomenico. La rivelazione dell’intimo sostrato del nostro essere e del tutto si ha mediante un’intuizione metafisica, per cui dal corpo come coscienza rappresentativa, come sguardo rivolto al di fuori, noi prendiamo coscienza del corpo come tendenza, sforzo, brama di vivere. Ogni uomo si sente vivere, soffre, agisce, si muove, lotta ed è questa la realtà profonda del suo essere.

La Volontà di vivere è il nocciolo di ogni individuo e del mondo intero; è una Volontà che circola in tutto l’universo e in ciascuno degli esseri come forza cieca della natura: i processi molecolari, la vegetazione, la vita animale, l’attività cosciente dell’uomo sono tutte manifestazioni di una medesima essenza che differisce soltanto nel modo di manifestarsi. La Volontà di vivere è infinita, eterna, inconscia, senza scopo (ateleologicità), irrazionale, pura vitalità. Essa è il noumeno per Schopenhauer.

Nel suo modo di esplicarsi, la Volontà rivela una gerarchia di forme, di gradi, e si obiettiva in esseri che tendono alla coscienza. In questo processo di obiettivazione si distinguono due stadi:

– l’essenza immutabile ed eterna della Volontà cieca e irrazionale si determina in tante gradazioni differenti quante sono le specie della natura: specie immutabili, eterne pur nel mutare degli individui. Schopenhauer conferisce alle specie della natura, determinazioni della Volontà di vivere, gli stessi caratteri delle idee platoniche. Non si spiega, però, come i modelli ideali, espressione tipica di una superiore razionalità, possano inerire alla Volontà irrazionale;

– nel passaggio dalle idee-specie universali al numero infinito di esseri individuali, la Volontà si fenomenizza. Si origina così la molteplicità degli individui, che è mera apparenza, dovuta alle leggi proprie della nostra struttura psicofisica.

«La volontà unitaria tende a porsi nelle forme molteplici dello spazio e del tempo, e quindi a individuarsi. Ammesso, però, tale principio essa rende conto, in modo penetrante e diverso da quelli solitamente seguiti, e dell’armonia del mondo, e della sua disarmonia.

Rende conto dell’armonia senza affidarla al caso o a cause meccaniche, e senza neppure, d’altro canto, ricorrere all’ipotesi finalistica che il mondo sia costruito deliberatamente armonioso, da una causa intelligente. Le cose nascono automaticamente armoniose e coordinate, per il fatto che ciascuna è l’equivalente visibile di un principio unitario (la Volontà); e i loro nessi non fanno altro che esprimere codesta unità di fondo. Ogni organismo, ad esempio, è una traduzione visibile di tutta la Volontà; quindi esso è fondamentalmente uno e i rapporti che legano le sue parti e le sue funzioni non sono altro che la traduzione, in forma esteriore, di quella unità che è la sua sostanza. Ma anche ciascuna parte di un organismo (ciascuna cellula, ciascuna molecola, ecc.) è sempre (sebbene a livelli inferiori) l’intera Volontà, che non può dividersi: e quindi ogni parte del mondo nasce intrinsecamente coordinata, e il mondo come rappresentazione, nel suo complesso, è tutto legato perché rappresenta un’unica realtà sostanziale.

Ma lo stesso principio spiega anche, e per le medesime ragioni, la disarmonia. Infatti, appunto perché la Volontà è tutta in ogni parte, ogni parte tende a porsi come tutto; e non solo ogni individuo lotta con gli altri, ma anche all’interno di un singolo organismo le forze chimiche, vitali, psicologiche contrastano tra loro, producendo dolore, malattie, conflitti psichici; finché, prevalendo l’aspetto dispersivo sull’unitario, non interviene la morte» (Vittorio Mathieu, Storia della filosofia, La Scuola Ed., Brescia 1967, p. 739).

Ciascun elemento, come rappresentante di un principio unico e totale, tende dunque ad affermare sé ad esclusione di ogni altro, subordinando a sé tutto il resto; e il mondo della Volontà individuata diviene teatro di una guerra spaventosa tra le sue diverse, infinite individuazioni. «Così, pur essendo il mondo il prodotto inconscio di un solo e identico principio, ciascuna sua parte, tendendo ad affermare come esclusivamente suo tale principio, entra in conflitto con le altre, a tutti i livelli possibili di esistenza… Nell’uomo, infine, la Volontà s’individua in forma cosciente, ma non cessa per questo (di regola) dall’entrare in conflitto con le altre sue individuazioni; e ciascun individuo, prima ancora di chiedersi perché lo faccia, si afferma contro gli altri, a qualunque costo, senza nessuna limitazione, posseduto com’è da un’oscura esigenza di essere il tutto, e incapace (salvo che per le vie che vedremo) di comporre tale esigenza con l’esigenza identica che si trova negli altri» (V. Mathieu, op.cit., p. 738).

Il pessimismo

Nel pensiero di Schopenhauer si ha l’inversione sistematica del punto di vista di Hegel e dell’ottimismo (in vero relativo) di Leibniz. La vita è continuo tendere, bisogno sempre rinascente, sforzo corrispondente per soddisfarlo: è dunque dolore. Il nostro volere non ha mai un termine, non lo ha pure il nostro soffrire. Scientia auget dolorem: soffre di più chi si interroga sulla sua stessa sofferenza. «Il mondo è l’inferno e gli uomini sono a vicenda anime dannate e demoni». Anche i grandi malfattori della politica che precipitano con indifferenza le masse nella miseria più spaventosa non sono peggiori della media. «Napoleone non fu propriamente peggiore di molti uomini, per non dire della maggior parte degli uomini». Le tanto vantate conquiste della tecnica e della civiltà non sono che una vernice superficiale. Il vero progresso sta nel trascendere il mondo delle parvenze empiriche.

Il pessimismo di Schopenhauer può essere detto ciclico, in quanto l’uomo oscilla tra la ricerca del piacere e la noia che accompagna il pur difficile raggiungimento del piacere. Il pendolo della vita oscilla inesorabilmente tra il dolore e la noia, tra l’attesa e il disgusto. Se l’uomo colloca nell’inferno tutti i dolori e i tormenti, non gli rimane per il paradiso che la noia. Ai sei giorni dell’attesa, del bisogno succede la domenica della noia. Ciò che chiamiamo piacere non è che la soddisfazione di un bisogno, cioè la cessazione del dolore. Il piacere è dunque qualcosa di negativo come per Egesia ed Epicuro. Cessando il desiderio, cessa anche la gioia. La volontà di vivere, inesorabile e violenta, suggerisce alla nostra ragione mille scopi ingannevoli, mille pretesti con cui riempire la nostra vita per dare uno scopo a ciò che in realtà non ne ha alcuno.

Vale dunque la pena di vivere o, come consigliavano gli stoici, è più opportuno ricorrere al suicidio? Schopenhauer non disapprova del tutto il suicidio, ma nota che colui che si suicida è terribilmente assetato di volontà di vivere: vorrebbe vivere, ma in condizioni diverse da quelle sperimentate. Come ha ben rilevato Pascal, tutti gli uomini cercano la felicità, «anche quelli che vanno ad impiccarsi». Il suicidio sarebbe espressione di ascetismo – anzi il suo caso limite – se nascesse da disinteresse e se l’uomo si lasciasse morire d’inedia.

Altro esempio dell’inganno in cui ci pone la Volontà di vivere è l’amore, una delle molle più potenti dell’animo umano. Nell’amore noi ci illudiamo di trovare la felicità, ma alle spalle di Cupido, piccolo e folle dio bendato, sta il genio della specie che, inesorabile e fredda, persegue l’opera di perpetuazione della vita. Dalla commedia si passa alla farsa quando l’uomo crede di amare. «Due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano, una terza infelicità che si prepara».

L’insignificanza della vita individuale si allarga anche alla storia umana: non è vero che la storia si attui attraverso una progressiva ascesi a valori superiori. L’hobbesiano homo homini lupus caratterizza non solo la vita individuale, ma anche la dimensione politica. La vera utilità della storia non consiste nel sollevare gli scopi temporanei degli uomini a scopi eterni ed assoluti, ma nel prendere coscienza dell’insignificanza del cammino umano nello scorrere dei secoli. «La storia è gioco di casi fortuiti, di variazioni accidentali su uno stesso tema, quello del destino e del dolore umano. La storia ripete sempre le stesse vicende (nihil sub sole novi) sotto diversi nomi e diverse vesti: cambiano le comparse, ma la tragedia è la stessa». La conoscenza della storia è, però, necessaria: essa dà al genere umano la coscienza di sé e del proprio destino. «Un popolo che non conosce la sua storia vive come un animale, senza rendersi conto del suo passato, limitato ed immerso nel suo presente».

Le vie di redenzione dal dolore

A prezzo di un’insanabile contraddizione, Schopenhauer giunge a proporre non un passivo adattamento all’ineluttabile, ma un compito morale, la liberazione dal dolore e dal male. Nella nostra condotta quotidiana noi non siamo liberi e la coscienza del libero arbitrio è puramente illusoria. Potrei volere altro da quello che voglio se fossi diverso da quello che sono; il mio carattere poteva essere diverso da quello che è in conseguenza di un misterioso atto di libertà appartenente ad una decisione che è anteriore all’esistere nel tempo. Eppure è un fatto che noi ci sentiamo responsabili delle nostre azioni. Il processo di liberazione del male si compie in tre tappe: l’arte, la morale, il nirvana.

  1. L’arte è la prima forma di liberazione. Eleva il soggetto al di là dei limiti dell’individualità, lo disabitua a considerare il reale secondo relazioni spaziali, temporali, causali. Nell’arte il soggetto che contempla o che crea diventa puro specchio del mondo, si eleva alle idee. L’oggetto non è più un mezzo per un nostro fine, appunto perché non è più considerato nella sua particolarità, ma è colto od espresso nella sua forma eterna o idea. Nell’arte la realtà si riscatta tutta quanta dai limiti deformanti del velo di Maja; l’uomo assurge a puro soggetto di conoscenza e l’oggetto è colto nella sua eterna unità, nella sua perfetta idealità. La gioia estetica estingue in noi il desiderio di agire e pertanto ci affranca dalla passione e dal calcolo utilitario, sopprimendo in noi il dolore. Qui Schopenhauer si collega esplicitamente a Schelling, per il quale le forme che l’arte coglie ed esprime sono non le cose, ma le eterne idee di esse; arte è intesa come rivelazione di verità. Interessante è la trattazione del tema genio e follia. Il genio ha la facoltà di immergersi nella pura contemplazione immemore di interessi o fini particolari, almeno per quanto dura la contemplazione e l’espressione di ciò che è stato intuito con spontaneità. Il genio è vicino alla follia per l’incapacità dei piccoli calcoli di cui è intessuta la vita normale. Non è possibile, però, identificare il genio con la follia e ridurre l’arte a problema clinico. Schopenhauer esaspera la distinzione kantiana fra il bello e il sublime. L’uomo fenomenico, l’individuo a livello dei sensi si sente oppresso dalla grandiosità delle forze che potrebbero sopprimerlo, mentre l’uomo che assurga a puro specchio dell’universo diventa libero da ogni interesse e timore nel lasciarsi assorbire nella sublimità di uno spettacolo grandioso e terribile. In tal modo però Schopenhauer respinge sempre di più il sublime lontano dalla sfera estetica. Schopenhauer delinea inoltre una gerarchia delle arti. La scala delle arti riproduce la gerarchia delle idee, gradi di oggettivazione della Volontà. L’architettura ne è il grado infimo in quanto riproduzione degli equilibri della materia inorganica (peso, coesione, durezza, rigidezza). Più in alto la pittura, la scultura, la poesia. Al di sopra di ogni possibile classificazione è la musica, che riproduce la stessa Volontà e che è totalmente staccata dal mondo sensibile. La sublimità sinfonica è immagine compiuta del senso tragico della vita, così come è colta nella più alta e sofferente consapevolezza ideale. «La musica esprime in una lingua immediatamente intelligibile, e tuttavia non traducibile nel linguaggio della ragione, l’intima essenza di tutta la vita» (II, c. 34). Qui ci limitiamo ad osservare che una classificazione delle arti, se mai fosse possibile, dovrebbe essere fondata su criteri estetici; per Schopenhauer invece l’arte è in fondo conoscenza superiore, che ha per oggetto le idee.
  2. La morale. L’arte è una liberazione, ma effimera. È una felice parentesi, redime solo per brevi istanti. Serve per stare meno peggio in questo mondo, non per evaderne! Ha un valore «quietivo», non risolutivo. È più un conforto per la vita che non una via per evadere dalla vita. Solo la negazione della tirannica Volontà di vivere può costituire un affrancamento effettivo. Questo non va cercato nel suicidio, ma nella consapevolezza della vanità della vita e dal progressivo distacco dall’oggetto delle nostre passioni. La giustizia (neminem laedere) ci libera dall’usurpazione dei diritti che non sono nostri, ci aiuta a riconoscere nell’altra persona una manifestazione di quella stessa Volontà da cui dipende anche il nostro essere. La giustizia ci dà la consapevolezza che colpa e dolore sono due facce della stessa realtà, poiché l’infelicità è la conseguenza inseparabile dell’affermazione egoistica di sé. La simpatia (Mit-leid) o partecipazione simpatetica alle sofferenze altrui, nasce dalla considerazione che la nostra vita e quella degli altri hanno una radice comune: scoprirlo ci conduce a considerare come nostri i dolori degli altri. A tal proposito Francesco De Sanctis sottolineava la profonda affinità tra il filosofo di Danzica e il Lepardi della Ginestra. Occorre estendere la pietà anche verso gli animali, a noi simili nell’essenziale. Wagner tradurrà in musica, nel Parsifal, questo tipo di conoscenza e questa esperienza di comunione («conoscere attraverso la compassione»). La pietà è il privilegio degli uomini. Essa costituisce la religiosità naturale dell’uomo ed è eterna come la sofferenza (Sul fondamento della morale, 17, 19). Schopenhauer non può sfuggire su questo punto, così importante per la sua morale, all’aporia: se la pietà è un’eccezione, un dono di natura, non può divenire affatto un imperativo, un dovere; se è disposizione comune a tutti gli uomini, allora non si accorda affatto alle premesse irrazionalistiche del sistema. Negli Aforismi sulla saggezza della vita la pietà cede il posto all’adiafora, alla prudenza, all’auto-sufficienza. Non c’è attività degna del saggio oltre quella del conoscere. Il conoscere ci consente di immobilizzare il flusso del tempo nel presente, annulla il dolore del rimpianto e l’ansia dell’attesa, ci sottrae alla condanna dell’azione. La saggezza sta nel conservare una dignitosa indipendenza di fronte agli uomini, nella rinuncia ad ogni apostolato educativo. Considerare con indulgenza l’altrui incorreggibile stoltezza ci libera dall’odio e dall’amore nei loro confronti e ci fa meglio godere la nostra libertà interiore. La comunione delle coscienze è anch’essa illusione e debolezza. Il saggio non crede a nessuno e il suo essere libero, autosufficiente sta nel rendersi estraneo al mondo. Egli si afferma in una negazione illimitata (cfr. l’introduzione di G. Faggin a Etica, ed. cit., p. 22).
  3. Nirvana o ascesi o noluntas. Neppure la compassione rappresenta il culmine dell’agire morale. La compassione è via, mezzo, non fine: il fine è costituito dalla rinuncia ad ogni affermazione di vita. Solo l’ascesi converte la volontà in noluntas, in negazione, soppressione di ogni passione, bisogno e conseguentemente di ogni dolore. L’assorbimento panico del proprio essere nel nulla è la prospettiva ultima a cui conduce l’esercizio della vita ascetica, che si esplica attraverso il sacrificio, la povertà, la castità. Dal nulla popolato di illusioni del velo di Maja si perviene al nulla come liberazione dalle illusioni. Quando le illusioni cadono, il mondo appare come «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Ma l’espressione biblica reca nella sua seconda parte un messaggio che Schopenhauer omette: «praeter amare Deum et illi solo servire». L’interrogativo degli interpreti è: approdo estatico al nulla o introduzione ad una vita più alta? Schopenhauer lascia la via aperta, pur senza affermare nulla di positivo. «Per me – egli scrive ne Il mondo come volontà e come rappresentazione – il mondo non riempie l’intera possibilità di ogni esistenza, ma rimane ancora un vasto spazio per ciò che noi non designamo che negativamente con la negazione del voler vivere». Secondo alcuni interpreti Schopenhauer dà un compimento teistico al suo radicale pessimismo (Piero Martinetti, Teodorico Moretti Costanzi, ecc.). Giuseppe Faggin, invece, parla di misticismo ateo, che falsa profondamente lo spirito del cristianesimo. Ernst Cassirer annota acutamente che certo, dal punto di vista del piacere, non possiamo fare a meno di dire con Schopenhauer che la vita è un affare il cui guadagno non copre la spesa; ma il valore della persona e la sua dignità specifica possono essere identificati con il piacere?

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.