L’insegnamento di Mario Bendiscioli

Autori: Prodi Paolo

Ringrazio per questo invito a partecipare, come uno di casa, di questa sua casa, a questo ricordo. Sono commosso e sono preoccupato, ma consolato dal fatto che dopo di me parlerà Massimo Marcocchi, che approfondirà la personalità di Bendiscioli anche in relazione al tema dell’ecumenismo. Il mio è quindi solo un intermezzo tra la presentazione del libro fatta da Mario Taccolini e la vera relazione che seguirà.

Non ho conosciuto Bendiscioli da studente, non sono stato suo discepolo, nemmeno indirettamente. Come infatti ricordavo nell’intervento al convegno del marzo 2001, durante i miei anni di studio all’Università Cattolica (tra il 1950 e il 1954, nel pieno del Rettorato di padre Agostino Gemelli) di lui non ci parlò mai nessuno : in realtà già questo è un grave problema che investe il mondo cattolico del secondo dopoguerra, il mondo in cui siamo cresciuti e del quale qualche ferita ci ha accompagnato anche negli ultimi decenni.

Ma ricordo, come se fossero oggi, le prime visite da neolaureato in viale Brianza (a Milano), quando – dopo essere stato in Germania a studiare con Hubert Jedin (un altro autore fondamentale della Morcelliana, cfr. la sua monumentale Storia del Concilio di Trento) – ho preso contatto con Bendiscioli. Successivamente abbiamo partecipato al primo convegno (nel 1958) sulla storia della Chiesa in Italia, abbiamo parlato a lungo dei nostri diversi progetti per la publicazione del carteggio di Carlo Borromeo e dei suoi lavori sulla Riforma Cattolica e la Controriforma.

È iniziato così un rapporto, che ha segnato la mia vita anche nei decenni successivi. Non ho fatto a tempo a raccogliere testimonianze documentali di questo rapporto nella corrispondenza. Ricordo soprattutto le sue cartoline postali, perché Bendiscioli era un uomo molto sobrio e parsimonioso, quindi in una sola cartolina – che per le sue dimensioni costringeva a una certa brevità – diceva un’enorme quantità di cose (forse qualcosa come l’attuale e-mail).

Sono stato molto contento di questo invito soprattutto perché ho un rimpianto e quasi una specie di rimorso per non aver sviluppato, poi, nei decenni successivi, questo rapporto in modo più continuo e più profondo. La vita è fatta così: ognuno ha le sue preoccupazioni e, quando non le ha, se le va a trovare pensando di dovere fare tante cose. E quindi i nostri legami si sono allentati, ma proprio per questo sento di dire che questo piccolo contributo di testimonianza non è soltanto un ricordo ma un richiamo alla necessità di valorizzare una figura che ritengo essenziale per noi oggi, in questo momento, per affrontare i problemi che abbiamo davanti a noi. Abbiamo bisogno di ripensare a Bendiscioli. Lo dico forse anche sull’onda di questi esami di coscienza che si fanno, quando – come ho fatto la settimana scorsa per la lezione conclusiva del mio ultimo corso universitario – ci si guarda indietro e si dice: «Beh, che cosa ho fatto? A chi devo essere riconoscente in questo percorso e a che cosa può servire ?».

La mia è quindi soprattutto la testimonianza di un ripensamento molto elementare, che spero diventi però un ripensamento collettivo sulla sua persona, sulla scia di questo libro a lui dedicato che pone già ottime basi di partenza anche se ci sono tante cose da scavare e da riscoprire ancora.

In questi tempi si parla tanto di modelli di santità: c’è quasi una febbre di costruzione di modelli di santità che si esprime anche nel moltiplicarsi dei processi di canonizzazione. A mio avviso, molto spesso si presentano come modelli persone che vengono avviate al processo di canonizzazione in quanto figure eccezionali, in quanto figure che hanno avuto responsabilità particolari molto lontane dal comune cristiano: papi, fondatori di ordini religiosi, movimenti spirituali, ecc. Pensiamo a Pio IX, Giovanni XIII, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, per rimanere vicino a noi. Sono personalità che non possiamo non ammirare, ma che, a mio avviso, rischiano di disorientarci, perché non rappresentano l’uomo di tutti i giorni, quello che affronta il cammino della salvezza facendo il suo dovere nel mestiere, nella sua professione.

Mario Bendiscioli è uno che ha fatto il suo mestiere e l’ha fatto con la limpidezza, che è stata ricordata: proprio per questo ci può essere più utile di tanti illustri modelli per cercare di capire la strada il nostro cammino, la strada che dobbiamo percorrere. Egli ci può dire moltissimo come uomo, come cristiano, come intellettuale e come storico – in questo scenario di passaggio e in questi primi anni del nuovo secolo – proprio per tutti i suoi problemi, le sue incertezze, la sua onestà, la sua sobrietà e la sua problematicità. Egli ci può dire, in queste circostanze storiche, molto più di tanti grandi uomini, che vediamo ormai appartenere completamente al passato, che abbiamo lasciato alle spalle e che per questo hanno poco da suggerirci. Vedo invece ancora in Bendiscioli un compagno di strada, anche per il futuro e rispetto alle altre figure che ci vengono proposte come esemplari egli mi pare, in fondo, più uno di noi e questo è molto importante.

Il volume – che è già stato presentato da Taccolini – è il frutto del convegno del marzo 2001 e costituisce, come dicevo, un ottimo punto di partenza. La bellissima introduzione di Marcocchi all’altro volume (edito dalla Morcelliana) dello stesso Bendiscioli sul pensiero e la vita religiosa nella Germania del ‘900 costituisce un altro frutto intermedio tra il convegno e l’incontro di oggi.

Non sto a ricordare anch’io i diversi contributi contenuti nel volume che presentiamo (cito solo, tra l’altro, quello interessantissimo di Elisa Signori su Bendiscioli come personaggio della storia contemporanea). Spero però che questa raccolta sia davvero un incitamento ad uno scavo di testimonianze, che sono necessarie per capire la Morcelliana, per capire Brescia e per capire perfino un certo tipo di cristianesimo italiano del XX secolo e quindi a capire anche noi stessi.

Qui desidero soltanto indicare alcuni punti che, a mio avviso, rendono attuale, in modo bruciante, questa operazione di memoria, che noi compiamo nei suoi confronti: nei confronti di un uomo, di un cristiano, di un intellettuale e di uno storico, in cui non è possibile separare, come è stato detto, le varie funzioni che ha esercitato.

1. Un primo punto concerne la sua capacità di respingere naturalmente (naturaliter come cristiano) il virus totalitario: egli possiede cioè la libertà, che è una delle virtù fondamentali del cristiano, accompagnata da una diffidenza abbastanza visibile, anche se non espressa, verso ogni approccio teoretico-astratto. Ecco allora il riferimento alla Bibbia, ai Padri della Chiesa, alla liturgia come riferimenti primari. In questa prospettiva c’è la visione di un uomo, in cui la politica pur essendo anche una passione bruciante non è tutto e in cui la visione del totalitarismo come religione politica, come degenerazione, è respinta a partire dai suoi primi saggi dei primi anni Trenta fino alla sua vecchiaia. È la continuità di una coerenza eccezionale: nel momento attuale , quando si discute al’infinito sulle responsabilità dei grandi intellettuali italiani che soltanto a fatica e con ritardo hanno raggiunto questa comprensione, credo che questo sia un messaggio estremamente importante.

2. Un secondo punto riguarda l’appartenenza alla Chiesa soprattutto come sacramento e come assemblea liturgica: questo è un altro aspetto fondamentale del pensiero di Bendiscioli dalla sua giovinezza e dai primi rapporti con il mondo tedesco ( in particolare con Romano Guardini) sino alla fine dei suoi giorni. Un antivirus – per usare un linguaggio informatico – di cui abbiamo bisogno anche noi, non solo contro le religioni politiche – da qui tutto il problema del nazismo come caricatura e terribile maschera religiosa, che Bendiscioli ha colto sin dai primi momenti – ma anche contro ogni tentazione di setta, di spiritualismo o misticismo irrazionale, di new-age, ecc. Intendo dire che la riflessione e il messaggio di Bendiscioli concernono la Chiesa come momento in cui, attraverso la liturgia in modo particolare, si apre il sacramento dell’unione dei fedeli in Cristo, senza alcuna concessione alle visioni individuali o alle commistioni secolari. Da qui deriva la sua diffidenza per ogni cosa che mettesse in qualche modo a rischio o in ombra questa appartenenza ecclesiale, fosse anche ispirata alla più alta ambizione di perfezione personale.

3. Il terzo punto – che mi è particolarmente caro anche per il mio mestiere di storico dell’età moderna – è la percezione che Bendiscioli ha della fine dell’età moderna. A questo proposito è importantissimo il suo rapporto con Romano Guardini, le cui opere (tra le quali quelle sulla fine dell’età moderna e sul potere, tradotte tempestivamente dalla stessa Morcelliana) sono tappe fondamentali della vita intellettuale italiana del secondo dopoguerra nel suo complesso. Questo è il messaggio che Bendiscioli ha fatto entrare in Italia: un discorso sulla modernità, nel momento in cui tutta la grande intellettualità europea, anche laica, si poneva il problema del tramonto della modernità, come fine del mito del progresso, del rapporto dell’uomo con la natura, dopo le grandi tragedie della Shoah, della bomba atomica.

Bendiscioli ha fatto i conti con la modernità: questa è stata, secondo me, una prospettiva estremamente importante che egli ci ha lasciato senza nessuna nostalgia di un medioevo «prossimo venturo». Noi studenti dell’Università Cattolica eravamo ancora immersi nella nostalgia del medioevo (pensiamo, ad esempio, al peso che ha avuto la neoscolastica ancora negli anni Cinquanta). Bendiscioli ha aperto faticosamente il cammino verso una nuova percezione della modernità senza cadere nel modernismo.

Certo, quello della fuoriuscita dal modernismo è un discorso lungo. Era estremamente importante uscire da quella crisi spaventosa che il modernismo aveva provocato: recuperare il discorso sulla modernità senza rimanere invischiati nelle contraddizioni che avevano caratterizzato e le repressioni che avevano colpito le generazioni dei teologi dei primi decenni del secolo. Io venivo da Reggio Emilia e, quando ero al liceo, frequentavo i corsi di teologia per laici di monsignor Tondelli (l’editore di Gioacchino da Fiore): lo ricordo perché rappresentava una delle testimonianze più alte di questa sofferenza anche dopo la seconda guerra mondiale . Tutti noi avevamo l’enorme problema di fare i conti con la modernità e questo lo dobbiamo in gran parte a Bendiscioli, che ci ha aperto, attraverso Guardini, la strada a tutto il pensiero tedesco, a partire dal primo Ottocento e da Möhler in particolare: Bendiscioli ha saputo recuperare tutto questo con grande dottrina ed anche con un sentimento di forte spiritualità.

4. Il quarto punto da sottolineare riguarda l’apertura del problema della Riforma cattolica e della Controriforma, quello su cui mi sono incontrato con Bendiscioli sul piano del mestiere di storico. In fondo, la Riforma protestante e la Riforma cattolica sono state due risposte diverse al problema della salvezza, che attanagliava gli uomini di quelle generazioni di fronte al mondo moderno: questo è il grandissimo recupero che c’è stato e che ha permesso poi a noi di trovare una pista, di avanzare in questo tipo di ricerche, di smetterla non soltanto con le posizioni apologetiche e confessionali ma anche con la prospettiva della Riforma protestante come pura risposta agli abusi della Chiesa medioevale. Il problema centrale è quello della salvezza dell’uomo, che deve trovare – di fronte ai problemi della modernità, di cui egli stesso è frutto – nuove strade, le quali possono essere radicali come quelle di Lutero o possono essere invece di recupero di una Riforma agganciata ai Padri della Chiesa, alla tradizione, al magistero.

In questo ambito Bendiscioli (insieme a Jedin) ha compiuto un’opera da precursore. Noi possiamo discutere sulla terminologia e fare disquisizioni dotte e precisazioni di metodo sull’uso dei termini Controriforma, Riforma Cattolica, Rinnovamento cattolico, ecc., ma il problema è questo: se la storiografia della generazione successiva a quella a cui io appartengo ha potuto proseguire e tracciare un nuovo quadro superando gli steccati confessionali in dialogo con la storiografia laica, ponendo in termini nuovi il problema del Cinquecento religioso, questo lo dobbiamo in gran parte anche a Bendiscioli.

5. Un quinto punto, a cui ho accennato in parte precedentemente ma che qui vorrei sottolineare, riguarda il rapporto di Bendiscioli con la politica. Estremamente e personalmente impegnato nella Resistenza, la sua posizione rimane assolutamente identica nell’Italia del dopoguerra: non c’è cedimento, tutto testimonia la sua presa di distanza dalla politica politicante; non si tratta presa di distanza dall’impegno della società, che egli continuò a sentire in modo vivissimo, ma così come nel periodo fascista aveva rifiutato l’ideologia totalitaria in se stessa così egli prese una posizione distaccata rispetto alla politica partitica, che ha accompagnato il processo di liberazione e i primi anni della rinascita italiana temendo in qualche modo un processo di contaminazione tra cristianesimo e politica. Egli appartiene a quel gruppo (poco numeroso, in realtà) di uomini (laici alcuni, cristiani altri), i quali hanno visto che il totalitarismo non era una malattia esterna alla società democratica, ma che era un virus sempre circolante, che poteva essere controllato, soltanto a patto di mantenere questa distinzione non soltanto tra la Chiesa e lo Stato ma tra l’uomo come vocazione e valore e l’impegno di tipo partitico.

Questo provocò il suo stato di disagio e anche la sua critica verso quello che si definiva il partito dei cattolici sia pure nella rivendicazione della responsabilità dei laici. Anche con tutte le distinzioni di tipo sturziano che potevano essere effettuate per determinare l’autonomia dell’azione politica come responsabilità personale dei cristiani, Bendiscioli aveva chiara la visione di un pericolo, che poteva essere tenuto sotto controllo soltanto dalla distinzione tra la Chiesa come sacramento e le operazioni politiche.

C’è una bellissima pagina tratta dal suo diario del carcere, composto subito dopo la sua esperienza carceraria. Leggo qualche riga, perché sarebbe meglio lasciar parlare Bendiscioli e fare un collage di suoi scritti, piuttosto che dire delle cose su di lui. Egli narra che in carcere organizzavano conversazioni e conferenze seguite da discussioni:

«Io parlo per qualche sera – scrive Bendiscioli – sulla Riforma Protestante, nei particolari su Lutero, il suo dramma interiore, la sua teologia, su Calvino e il calvinismo, su Cromwell e la sua combinazione di Bibbia e politica, sulla Bibbia e le origini del Vecchio Testamento, sull’origine e il valore storico dei Vangeli sinottici: c’è chi sta attento e obietta con vivacità e chiede spiegazioni, ma non manca chi, dalla mia voce, forse monotona, trae impulso più persuasivo per appisolarsi…

Durante queste discussioni io mantengo sempre, pur con viva sorpresa e aperta a reazioni dei compagni, dei compagni di Resistenza, un atteggiamento di apoliticità, affermando il mio distanziamento dai partiti e la totale dedizione agli studi storici. Il mio atteggiamento è dovuto anche ad una posizione di principio: la mia diffidenza per i partiti ha radici nel loro tendenziale assolutismo organizzativo, nel dogmatismo dei loro programmi, nella disinvoltura polemica con la quale vedono negli altri i responsabili delle situazioni di crisi ed evitano gli esami di coscienza e il riconoscimento delle proprie responsabilità.

Per questo insisto sempre nel far notare che la politica è un metodo oltre che un programma, che un partito si definisce e si caratterizza più per il suo modo d’agire che per quello che afferma nella propaganda ufficiale.

In particolare manifesto la mia diffidenza per un partito che si chiami cattolico e che pretenda di rappresentare gli interessi, oltre che delle coscienze religiose e cattoliche, dell’istituzione ecclesiastica, ecc. Non solo perché le direttive dei partiti si evolvono in rapporto alla fluida situazione economica e dai concreti rapporti di forza delle classi sociali dei ceti dirigenti, ma perché l’adesione ad un partito è, per la gran parte degli uomini, un fatto di sentimento o di interesse, più che di considerazione intellettuale».

Si potrebbe continuare in queste letture ma la sostanza, credo, è questa: per Bendiscioli alla base dell’esperienza democratica c’è un dualismo di fondo tra la Chiesa-istituzione come sacramento e l’impegno politico. La separazione di questi due mondi è la sostanza sia per la vita del cristiano verso la salvezza, sia per lo sviluppo della democrazia come strada. Questo è un grande insegnamento e abbiamo visto in questi ultimi anni quanto questo sia stato un atteggiamento in gran parte preveggente. L’ultima frase sarebbe da commentare parola per parola: i partiti variano a seconda del variare degli interessi concreti della società e quindi non si possano avere delle adesioni, in qualche modo, fideistiche alla politica.

6. Un sesto punto che a me pare abbastanza importante oggi è la posizione di Bendiscioli a proposito di quello che potremmo chiamare il revisionismo storico (su cui negli ultimi anni si è discusso tanto). Bendiscioli pensava, molto semplicemente, che lo storico dovesse essere, per sua natura, revisionista: lo storico deve rivedere la storia alla luce dei problemi della cultura e della società in cui vive. In un breve saggio sulle possibilità e i limiti di una storia critica degli avvenimenti contemporanei – che Bendiscioli scrisse nel 1954, quando era professore a Salerno, e che trovo molto interessante dal punto di vista metodologico – egli afferma:

«Bisogna fare la storia contemporanea, non si può accusare gli storici contemporanei di essere soggettivi, perché la storia è sempre soggettiva e da Tucidide in poi gli storici hanno sempre narrato le cose del loro tempo, come uomini impegnati nel loro tempo».

In un altro suo scritto molto importante su questo argomento – predisposto per un congresso tenutosi a Venezia nel 1950 a proposito del significato storico della Resistenza – egli sosteneva che il problema deve essere affrontato non solo sul piano partitico-politico, ma anche sul piano della Resistenza come principio etico di fronte al totalitarismo e alla tentazione ricorrente della politica di estendere il suo dominio completo sull’uomo.

7. Un settimo punto che mi sembra importante – e che enuncio solamente – è la posizione di Bendiscioli riguardo alla figura del laico all’interno della Chiesa. Io la sintetizzerei così: il laico non è al servizio della Chiesa intesa come istituzione e organizzazione, che pure ha le sue ragioni, ma la sua laicità consiste nel mettere a disposizione della Chiesa la sua competenza e il suo mestiere. La sua funzione quindi non è strumentale (sia pure devota, pia, ecc.), ma risiede, in senso proprio, nello sviluppo delle sue competenze, della sua vocazione secondo la loro logica intrinseca (qui si sente un’eco dell’amore di Bendiscioli per la spiritualità di Lutero a proposito della vocazione – Beruf – dell’uomo, che è l’unica strada per la salvezza del cristiano).

8. Accenno pure, per dimostrare la ricchezza del pensiero di Bendiscioli, a un ultimo punto riguardante il ruolo dell’università e della scuola. Questo aspetto credo sia ancora abbastanza da esplorare nei suoi scritti e nella sua vita. Egli fu anche un organizzatore di cultura – è stata ricordata la sua funzione di Commissario del Comitato di Liberazione Nazionale per la Scuola – ma ebbe soprattutto il senso della cattedra e dell’insegnamento. L’intellettuale non agisce individualmente, ma esercita il suo mestiere nell’ambito dell’università, come luogo di formazione della ragione critica della società: questo discorso deve essere sviluppato in futuro con l’analisi dei suoi corsi universitari. Ho voluto soltanto ricordare il Bendiscioli come uomo di scuola e di università per dire il suo non è stato un “mestiere” astratto, ma un mestiere che, oltre che nella ricerca, si è concretato nell’insegnamento nella simbiosi totale tra il ricercatore e il docente.

Spero di aver fornito qualche barlume per far comprendere come la riflessione su Bendiscioli non sia una riflessione sul passato, proprio perché nelle sue pagine e nel suo insegnamento noi troviamo problemi e strumenti per affrontare i problemi che ci vengono incontro nella nuova situazione d’inizio del secolo, all’interno della quale, in un contesto globale, il cristianesimo è minoritario.

Proprio per la sua problematicità e per questa sua onestà totale, penso si possa dire che noi, oggi, abbiamo bisogno di Bendiscioli più che nel passato.

NOTA: testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 22.2.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.