Bibbia e poesia in David Maria Turoldo

Vi ringrazio per la presenza, così numerosa e così viva, in una città che dopo tutto appartiene un po’ anche a me perché sono lombardo di origini e ho un legame con tutta la terra di Lombardia. Vorrei questa sera proporre una figura che in terra di Lombardia sicuramente ha lasciato una traccia di rilievo. E questa sera vorrei proprio che questa mia testimonianza avesse sostanzialmente anche la qualità di una confidenza, cioè di un racconto molto personale perché – come sapete – il legame mio con padre Turoldo, negli ultimi anni è stato un legame molto intenso, che si è anche esplicitato con alcune pubblicazioni che abbiamo sviluppato insieme. Io vorrei condurvi nell’interno della sua poesia, soprattutto secondo una dimensione che per lui era fondamentale: la dimensione biblico-religiosa. E vorrei condurvi in una maniera molto semplice, quasi schematica, invitandovi poi, naturalmente, a percorrere il testo, perché l’elemento fondamentale è sempre la pagina, è sempre la parola. Io mi muoverò così: farò una premessa ora, poi tenterò quasi come di disegnare due tavole di un dittico e alla fine proporrò alcune conclusioni, che annodino un po’ questo discorso semplificato. Anche perché come ben sapete la produzione di Turoldo è stata monumentale

La premessa. Il discorso che faccio questa sera si colloca nell’interno di un orizzonte ancora più vasto che io considero particolarmente rilevante, anche per la mia ricerca di tipo scientifico, cioè il rapporto tra Bibbia e letteratura. E’ stato detto, come ben sapete, da Northrop Frye[2] che la Bibbia è il grande punto riferimento della cultura dell’occidente. Io vorrei soltanto a questo proposito allegare una testimonianza, una testimonianza del tutto ineccepibile, profondamente laica. Infatti l’ha formulata, in una sua opera rilevante, un grande pensatore del secolo scorso, morto proprio alle soglie del nostro alle soglie nel ‘900: Nietzsche. Nietzsche in “Aurora” ha questa frase che mi sembra molto significativa anche per parlare di Turoldo e di tutti coloro che hanno avuto la Bibbia quasi come  grande lessico quasi della loro poesia, della loro arte, del loro pensiero :” per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo, alla lettura dei salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca  c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera.” E’ una testimonianza suggestiva perché mostra, naturalmente in ambito protestante, come era la genesi della cultura da cui veniva Nietzsche. La Bibbia era in pratica la patria nella quale spontaneamente ci si ritrovava, il cui linguaggio non era straniero. Ecco per Turoldo la patria fondamentale, non soltanto della sua poesia ma della sua stessa esperienza, è stata proprio la Bibbia. E a questo proposito vorrei citarvi alcune righe di un’opera anonima che ha avuto un grande rilievo anche nell’interno dell’esperienza di padre Turoldo, e un po’ tutti coloro i quali hanno letto questo testo non ne sono usciti indenni. Si tratta del racconto di un pellegrino russo. Turoldo tra l’altro ha composta una ballata del pellegrino russo, un salmo del pellegrino russo. Contiene quell’incipit che è sicuramente in mente a quanti hanno letto questo testo: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errando di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pane secco e nella tasca interna del camiciotto la sacra Bibbia, null’altro.”

Ecco l’idea dell’essere uomini in viaggio che portano come unico tesoro, quasi in uno scrigno, la sacra Bibbia. Turoldo ha continuamente considerato la Bibbia – se vogliamo usare una bella espressione di Chagall – “come l’alfabeto colorato della speranza”. L’alfabeto colorato cointinto al suo pennello di poeta. Egli aveva conosciuto e amato molto un poeta che anch’io amo, Clemente Rebora. Ricordo che padre Davide, tante volte aveva citato quel verso indimenticabile di Rebora: “la Parola zittì le chiacchiere mie “.

La poesia di padre Davide è una poesia continuamente intarsiata di citazioni bibliche, e lo vedremo anche tra poco. E’ come se fosse una foglia guardata in trasparenza alla luce del sole in cui si vede il reticolo e il tessuto connettivo: il tessuto connettivo sono le sue parole, il reticolo, il sostegno perciò, è continuamente la simbolica, la testualità della Bibbia. E un amico comune – anche mio, devo dire, anche se con grande venerazione- come Carlo Bo, scrivendo la prefazione al “Grande male”, uno dei libri di Turoldo, ha detto in maniera molto folgorante, ciò che rappresenta questo connubio tra la poesia e la fede in padre Turoldo. “Padre David”, scriveva Carlo Bo, “ha avuto da Dio due doni, la fede e la poesia, dandogli la fede gli ha imposto di cantarla tutti i giorni”. Per cui le due realtà sono inscindibili. Non si può parlare di padre Turoldo credente e di padre Turoldo poeta, le due cose sono profondamente embricate, profondamente intrecciate tra di loro. E Turoldo ripetutamente si è autodefinito proprio così, “servo della parola, servo e ministro sono della parola, cantore delle dense ore di Dio” oppure ancora, quel bel distico che forse avete in mente: “Sono un pugno di terra viva, ogni parola mi traversa come una spada” e lo dice in un contesto in cui parla della parola di Dio. E Turoldo, nell’interno dell’unico suo romanzo, che recentemente è stato riproposto da Gribaudi, “ La morte dell’ultimo teologo” aveva quella frase che forse esprimeva un po’ la sua esperienza più intima, più profonda: “Nessuno sa parlare come un monaco, un uomo che tace per mille anni poi dice una parola sola: Dio”. Lo sforzo del poeta è quello di continuare anche a parlare, però per riuscire a dire quella parola che è il nodo d’oro che tiene insieme tutte le sillabe, che tiene insieme tutti i versi, tutte le parole.

Io vi propongo, vi dicevo, un dittico: la prima tavola di questo dittico è quella che potrebbe andare avanti all’infinito, in pratica,  potrebbe perlustrare tutte le pagine di Turoldo. E’ una tavola che io intitolerei così: “ il fiume della parola”, usando proprio una immagine di Turoldo, il fiume di questa parola, di questo testo che ci precede ha lambito continuamente, e dilagato nell’interno delle pagine di Turoldo. E  io vorrei soltanto farvi qualche esempio. Un tempo, alcuni anni fa sono stato invitato, ed era ancora vivo lui, a fare una specie di operazione diacronica. Cioè a prendere tutti i testi biblici e provare a vedere se sono tutti presenti nell’interno della poesia di Turoldo. Ebbene: sono presenti tutti. Non c’è anche il profeta minore o lo scritto minore dell’antico testamento che non abbia lambito almeno una pagina di Turoldo. Io vorrei soltanto evocare alcuni punti nodali in questa prima tavola, lasciando poi a voi la scoperta, perché aprite a caso un testo e se siete abituati all’ascolto se avete come dice Turoldo: “La conchiglia dell’orecchio ripiena dell’eco della parola, come la conchiglia che ha nel suo interno l’eco del mare, di questo oceano infinito, di rivelazione” vi accorgerete che in ogni pagina, ad ogni verso quasi affiora il testo biblico. Facciamo allora qualche esempio. Non vi leggo i testi perché il tempo è molto limitato; però sono testi che io cito e che magari si possono ritrovare se avete tra le mani per esempio “O sensi miei” quella raccolta che ha curato lui, durante i suoi ultimi anni, anche su sollecitazione mia, per Rizzoli. In questa antologia molto ampia della sua poesia, potrete trovare tutti questi testi. Io partirei con “Genesi 22”, il sacrificio di Isacco; una pagina di straordinaria bellezza nell’interno dell’originale ebraico, una pagina che è rotta all’inizio, squarciata da quell’imperativo terribile, scandaloso di Dio: “Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco e uccidilo” e poi Dio che tace per 3 giorni e 3 notti. E Abramo solitario, che cammina. Pensiamo a quel che ha scritto Kierkegaard in “Timore e tremore”, pagina stupenda, degno commento di questa pagina di Genesi 22, di quei tre giorni di viaggio che Abramo fa con un cielo completamente muto, parlando soltanto con suo figlio, sostenendosi gli uomini con la solidarietà di fronte a un Dio mostro. Infatti i due si parlano e si dicono continuamente, “padre mio”, “figlio mio”, quasi sostenendosi con la relazione umana per potere attraversare il deserto della prova del silenzio della fede, del silenzio di Dio. Turoldo ha una lirica, una poesia tra le più belle sue, che è intitolata: “Signore mio, amato e crudele”. Ed è una lunga ballata, una pagina di grandissima intensità teologica, prima ancora che poetica su Abramo, quercia fulminata, il quale deve fare questo lungo viaggio che è il paradigma della fede, questo lungo viaggio nell’oscurità, perché la fede suppone necessariamente anche accanto alla solarità anche la tenebra. Questo lungo viaggio fino alla luce prealbare di quel mattino al monte Moria, quando la sua mano è alzata col coltello del sacrificio, un coltello che non si affonda nelle carni di una vittima e non nelle carni di suo figlio, ma nelle sue stesse carni perché egli sente quel figlio come il figlio suo e figlio della promessa. Per cui è anche un coltello posto nelle carni di Dio. E Turoldo rappresenta, se avrete occasione di riascoltare questa poesia, “Signore, mio amato e crudele”, rappresenta in maniera vivissima questa esperienza tragica del credere, questa esperienza dell’oscurità e del silenzio di Dio; e lo rappresenta alla fine sciogliendolo in quel momento di stupito approdo attraverso la rappresentazione che c’era nell’interno della  sua chiesa, quando egli era bambino e sentiva raccontare nel suo villaggio del Friuli, Coderno, sentiva raccontare questa storia, e il suo sbocco finale in cui Dio riappare come voce e presenza dal silenzio, dalla tenebra, dal giudizio, dalla paura. Con una presenza perciò che è ancora più calda, ancora più folgorante.

Oppure pensiamo a un testo che magari pochi di voi hanno letto: “Il pianto della figlia di Jefte”. Questa giovane donna, vittima del voto folle del padre ex bandito, che diventa salvatore di Israele, il quale con la primitività della sua religione offre in voto a Dio, la prima persona che incontrerà quando egli ritornerà vincitore. E la prima che gli viene in contro è la figlia giovane, vergine, non ancora fidanzata, la quale coi sistri e coi tamburelli canta la gioia della vittoria del padre. E il padre deve inesorabilmente obbedire alle esigenze del suo voto. E questa donna chiede di poter cantare, per un mese, la malinconia, la tristezza profonda orientale del morire senza avere un figlio, senza cioè lasciare dietro di sé una scia di vita. E Turoldo la raffigura che canta per i monti deserti, accompagnata soltanto dalle sue coetanee, canta questo “Canto della figlia di Jefte” il cui nome ci è ignoto: “Notte mia, senza nome, notte mia senza un giaciglio, le case sono rapite in alto sonno,…”. Io mi fermo qui perché poi segue la elegia, di colei che canta la sua morte, la morte di donna, la morte di principio della vita, costretta invece che essere un grembo fertilissimo ad avere un grembo che è sepolcro.

Oppure pensiamo ai profeti che sono stati amati in maniera particolare, con particolare sintonia da padre Turoldo. E qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Io vorrei ricordarvi un profeta nei cui confronti  Turoldo si sentiva molto in sintonia, un profeta romantico, come è Geremia, anche se lo è nella maniera semitica, quindi un romanticismo lacerato. Ebbene Geremia, con quel capitolo ventesimo, che noi abbiamo in mente con quella deformazione occidentale: “Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre”; e qui noi abbiamo lasciato a questo verbo sedurre tutto il fascino della seduzione, e l’originale ebraico non è così. L’originale ebraico è molto più scandaloso, è una bestemmia quasi, perché dice a Dio il verbo è: “Tu mi hai circuito, come si seduce una persona inesperta” cioè, tu o Dio sei stato un vigliacco, perché tu mi hai chiamato quando io ero un ragazzo e mi hai sedotto in quel momento, blandendomi, irretendomi con le tue promesse. E in quel momento, nel momento del Getsemani di Geremia, Geremia decide di abbandonare, di lasciare la profezia, di gettare alle ortiche il mantello del profeta, e pure il dramma suo lacerante che è il dramma io credo, è stato anche il dramma di padre Turoldo in certi momenti della sua esperienza religiosa molto tormentata come ben sapete, di lasciare e di non poter lasciare. Geremia dice: “La tua parola era dentro le mie ossa come lava ardente.” Io mi sforzavo di trattenerle ma non potevo. Turoldo canta, una lirica che comincia così, che lascio a voi di riscoprire: “Non volevo, io non volevo. Egli mi sedusse. Egli mi vinse”.

O ancora e arriviamo qui a quelli che sono stati il cibo quotidiano degli ultimi anni di Turoldo, degli ultimi mesi della sua vita. Devo dire in questo caso autori  biblici che lui naturalmente già prima amava – che qui sia permessa un po’ anche l’autobiografia -, io gli ho fatto amare. Pensiamo a Qohèlet: in quei giorni stavo scrivendo un commento a Qohèlet che poi ho pubblicato dalle edizioni Paoline, e Turoldo comincia allora a riscoprire Qohèlet, l’Ecclesiaste, questo, sacerdote del nulla, come lo chiama lui. E forse anche ricorderete quel libretto, vi invito anzi, quel libretto a riprenderlo o a comperarlo, un libretto essenziale che egli dedicherà al mio vescovo e amico, al cardinale Martini, ed è l’ultima sua opera in assoluto. Poi ci sarà un’opera postuma che dedicherà a me, ma è un’opera di prosa in questo caso: “Il dramma e Dio. Mie notti con Qohèlet”, le nove notti di un settembre piovosissimo. Il male ormai non gli dava tregua, ormai si era insediato, diceva, il mostro nel ventre, ormai celebrava i suoi trionfi perché eravamo molto avanti, e lui morirà pochi mesi dopo. Allora queste notti diventano per lui la lettura di Qohèlet. Questo poeta terribile della Bibbia sarebbe da giustificare: perché c’è un uomo che per esempio dice, scrive lapidario così:  “io ho odiato la vita”. Nella Bibbia c’è un uomo, Qohèlet, parola di Dio, diciamo noi, che dice: “Molto più fortunato è l’aborto, perché è venuto dal nulla e se ne è andato nel nulla e non ha visto questi giorni amari”. Sacerdote del nulla. Turoldo dice ancora: “egli usa la rasura della ragione”, la ragione gelida che tutto taglia, e Turoldo dialoga a lungo di notte, con questo personaggio.

Oppure, dall’altra parte, qualche anno prima, un libretto che aveva pubblicato da Scheiwiller, che aveva dedicato a me. Io non ho fatto in tempo a dedicargli il mio commento finale a questo libro biblico, perché è morto proprio pochi mesi prima che il libro uscisse, il mio commento al Cantico dei cantici. Il libro del Cantico dei cantici lui l’aveva cantato nell’interno di quella raccolta di poesie intitolato “Nel segno del tao”, pubblicato appunto da Scheiwiller. C’è nell’interno di questo suo canto sul Cantico, cantico per eccellenza, cantico sublime, ci sono delle grandi intuizioni. Il Cantico dei cantici è la solarità assoluta, è la primavera assoluta. Il fondale è continuamente questa primavera smaltata di colori, attraversata dagli aromi, continuamente folgorata dai colori. Ebbene Turoldo sente che il “Cantico dei cantici” si apre con un bacio ebbro: è una solarità ebbra questa. Sente però in qualche modo ancora il sapore della morte: eros e thanatos: vedi la finale del cantico dei cantici, capitolo ottavo, “forte come la morte è amore”. Il capitolo terzo e il capitolo quinto sono scene notturne ed è un notturno terribile: la donna che ha forse impedito all’amato di incontrarla quando se ne esce per le strade a cercarlo gridando il suo desiderio di riaverlo, incontra una ronda notturna che la violenta. Per cui c’è anche il dramma: l’amore che è calpestato e trascinato nella polvere.

O ancora quell’altro libro che invece Turoldo ha amato, ed è un peccato che poi non è stato più riproposto questo testo di matrice drammatica che è intitolato: “Da una casa di fango – Job” citazione di un verso straordinario. Giobbe è in assoluto il libro poetico più alto di tutta la Bibbia; io ho dedicato un commento di un migliaio di pagine su questo libro. L’ebraico è una lingua povera, una lingua miserabile, 5750 vocaboli e presenta quindi  uno spettro lessicale molto ristretto. Eppure l’ebraico è teso, questa lingua di pastori, questa lingua rude, questa lingua grezza è tesa al massimo in Giobbe, e ha rese che sono qualche volta miracolose. In 4, 19, appunto, c’è la spiegazione di questo titolo: “Noi uomini siamo abitatori di case di fango cementati nella polvere”.

Oppure un altra poesia di Turoldo: “Come una barca di canne”. Se uno non conosce bene Giobbe, non riesce a capire  questa poesia, perché Turoldo fa riferimento a Giobbe 9, 26, “I miei giorni”, canta Giobbe con malinconia, “scivolano via come barche di papiro sull’onda”. E da ultimo dovrei ricordare, tra i libri cari, i Salmi, l’occasione della nostra conoscenza. Io avevo scritto questo commento enorme – più di tremila pagine -, ai Salmi e Turoldo aveva cercato di incontrarmi proprio in ragione di questo libro che io avevo scritto nel 1984. Da allora è nata questa amicizia molto profonda, intensa e molto personale. Su Turoldo non ho voluto mai scrivere nulla se non quelle solite pagine commemorative che si scrivono. Tanti amici di Turoldo hanno lettere; io non ho nulla se non le dediche sui libri. Infatti noi ci vedevamo ogni domenica pomeriggio. Io dicevo sempre che è la faziosità tipica del genio il quale decide quali sono le sue amicizie, e anche decide in chi riporre la propria stima. Lui aveva una fiducia immensa in me, al di là del merito. E questa fiducia ha fatto sì che lui mi raccontasse tutto ciò che è segreto di un uomo, non soltanto di un poeta. Ed è per questo motivo che non mi sento di violare questo segreto che lui ha affidato a me. Delle sue crisi, dei suoi amori, dei suoi dolori, dei suoi tradimenti, delle sue passioni, dei suoi odi acri, della sua umanità. Ecco, i salmi sono stati veramente il suo amore continuo. Pensate che lui ha fatto 7 o 8 volte la traduzione, rifatta fino all’ultima che abbiamo fatta insieme, e che è uscita con quel titolo scelto da lui: “Lungo i fiumi”; che era un po’ il suo desiderio di cantare lungo i fiumi di Babilonia con nel salmo 137, di straordinaria fragranza poetica, che egli ha considerato come la sigla del nostro cantare come esuli sulla terra in attesa di cantare i canti del Signore nella terra della promessa e della speranza.

Seconda tavola. La seconda tavola invece è una riflessione. La seconda tavola ideale di questo dittico io la intitolerei così: “Quale è il nodo d’oro che tiene insieme questa dispersa enorme produzione di Turoldo”. Quale è l’elemento radicale e fondamentale? Ecco, io penso che l’elemento fondamentale e radicale è alla fine, ma è già presente e serpeggia nell’interno della sua vasta e immensa produzione, di questo suo scialo poetico. Perché egli, come sapete, scriveva continuamente, freneticamente, qualche volta anche non scegliendo la via della limatura del testo. Egli si definiva poeta brado, poeta primitivo; invece, la sua poesia è diversa e l’ha compresa molto bene un comune amico poeta, che io stimo moltissimo, e devo ringraziare Dio di avere avuto la fortuna di poterlo conoscere, un amico che è il più grande poeta contemporaneo italiano vivente: Mario Luzi. Il quale ha intuito come padre Turoldo alla fine ha trovato la sua misura, spirituale e poetica. Aveva scritto in “Morte”: “Il progressivo ritrarsi della sua eloquenza addosso al nocciolo delle cose, e la cosa estrema era la conoscenza di Dio, e il suo impenetrabile silenzio, ovvero il mistero del suo linguaggio.” L’impenetrabile silenzio di Dio è il linguaggio di Dio, e il tema centrale, della poetica di Turoldo, il tema dialettico dell’assenza/presenza, del silenzio/parola, del nulla/essere. Questi due poli così antitetici sono in realtà i poli attorno ai quali la poesia di Turoldo si è snodata; e questi due poli sono anche il sostegno soprattutto dell’ultimo momento, quando Turoldo si affaccia al gorgo del mistero di Dio. Turoldo continuamente nella sua poesia si è interessato della dialettica del credere, delle vie alte della mistica, le vie agostiniane. Si è continuamente interessato, come dice il titolo di una sua poesia, della notte del Signore; si è continuamente interessato del silenzio di Dio e anzi di quella realtà così sconcertante che è anche in Dio: il nulla.

Per spiegare un po’ questo interessarsi di Turoldo, vorrei riferirmi ad un elemento della sua biografia ultima. Siamo a tre giorni prima della morte e Turoldo aveva desiderato che io andassi a trovarlo in clinica e sono andato con  un amico comune, lo scrittore Luigi Santucci, il quale era stato al mattino e mi aveva detto che non c’era più niente da fare, non si può andare da Turoldo. Ma andiamo lo stesso anche se è talmente travolto dai dolori che non fanno più neppure effetto questi strumenti medici che tentavano in qualche modo di narcotizzare, di sedare questo dolore. Però sono andato lo stesso perché sapevo che lui desiderava che io andassi e sono stato là ed era veramente tutto aggrovigliato su sé stesso, questo uomo così enorme come lo avete in mente, era tutto avvoltolato, avvinghiato su sé stesso sul letto. Naturalmente usciva soltanto come una specie di lamento. E quando mi ha visto mi ha salutato ed io non ho chiesto niente, non ho parlato del male; ho cominciato subito a parlare con lui di teologia e precisamente ho cominciato subito, ben sapendo che per lui era infinitamente più forte di qualsiasi narcotico, ho cominciato proprio a parlargli di Meister Eckhart e del Silesius e della loro “via del nulla” per parlare di Dio. E mi ricordo che sono stato lì almeno un paio d’ore; lui ha chiesto subito di essere sistemato col cuscino e ha continuato ad ascoltarmi per due ore con un’attenzione frenetica, quasi famelica, perché era quello ormai il suo unico interesse: parlare di Dio e dello scandalo di Dio, proprio di questa assenza/presenza, di questo nulla/essere, di questo silenzio/parola. Perché questa era anche la sua antica continua ricerca.

Adesso faccio passare quasi con un filo continuo versi di poesie diverse, tutte che hanno sempre la stessa nota, che poi esploderà nel suo capolavoro finale di cui dirò qualcosa tra poco.

“Notte fonda, notte oscura ci fascia, nera sindone, se tu non accendi il tuo lume Signore. E tu, e tu o assente- 30 anni fa ha scritto questa, 30 anni prima della morte – la mia lontanissima sponda, mio Dio assente lontano”. Ma lui, lui sempre lontano, sempre invisibile: Dio non viene all’appuntamento. “All’incontro cercato nessuno giunge”. Qui c’è una citazione di Simone Weil: i due innamorati che hanno l’appuntamento, solo che non si ricordano più il punto in cui si devono incontrare, e uno dei due però è là, fisso e impiantato a terra, è crocifisso.

“La tua assenza o Signore ci desola ma tu Signore sei bianca statua di marmo nella notte”, questa statua di marmo, fredda, frigida, nella notte, e ancora il dramma con la citazione di Lattanzio, citazione di Epicuro in realtà: si Deus sit unde malum? E qui il dramma del Dio che muove il braccio dell’assassino: è questa la tua pena d’essere Dio. Un Dio che mantiene in vita l’assassino col suo atto creativo anche quando quello sta ammazzando, sta trucidando.

“Sospesi sul  baratro del nulla”.

Ed ecco giungere il suo ultimo libro in senso stretto, quel libro che io vi consiglio di leggere se non l’avete letto per capire Turoldo, perché è veramente il suo capolavoro “I canti ultimi”. Io li ho conosciuti tutti, li ho visti nascere pomeriggio per pomeriggio di domenica. Quando lui scendeva da Sotto il monte, andavo dai miei, allora io avevo più tempo, riuscivo ad andare a trovare la mia famiglia la domenica pomeriggio e lui veniva a trovarmi alle due e mezzo. E stava, di solito, due ore, due ore e mezzo, prima della sua messa famosa dove arrivavano da Milano, per andare là Sotto il monte, dove c’è l’abbazia famosa e io abito abbastanza vicino, al di là dell’Adda, in quella che adesso è la provincia di Lecco. E queste poesie lui me le ha lette e in un certo senso rifinite di domenica in domenica. Questi che sono diventati i Canti ultimi, laddove  naturalmente è fondamentale i “Canti ultimi” e non gli ultimi canti. I “Canti ultimi” sono i novissimi, sono i canti escatologici, sono i canti definitivi, sono i canti perfetti. Ed è una lunga grande meditazione nata dal suo inverno, l’inverno del corpo, inverno anche della sua esperienza spirituale, con una povertà del linguaggio, fecondo ormai, in cui lui si sente fratello di Giovanni della Croce a cui lui fa un’allusione, fra l’altro. In Giovanni della Croce c’è quel famoso viaggio stupendo, non solo nella “Notte dello spirito”, che è facile da capire come sintonia per Turoldo, ma anche il “Viaggio alla ricerca delle le isole estranee”, o piuttosto delle “isole inesplorate”, e sono quelle isole in cui Dio sembra assente, misteriosamente assente. Una poesia ascetica, come vedrete, o come avete già visto se l’avete letta, una poesia spoglia, una poesia distillata, una poesia da crogiolo ormai.

“Dio é il nulla / se pure l’uno dall’altro si dissocia”. Ecco e qui c’è tutta quella riflessione sul fatto che Dio crea e creando viene in contatto e si lascia ferire dal nulla, perché creando deve ritirarsi dando spazio all’uomo, all’essere creato, e quindi entrando in contatto col limite e cioè col nulla. E qui c’è proprio tutta l’esperienza che era stata tentata anche da Holderlin: Dio che creando è come gli oceani che si ritirano, certo lasciano spazio ai continenti, però si ritirano. C’è la riflessione di Pareison che interessava molto Turoldo, c’è quella riflessione che verrà formalizzata in quel libro che ho detto dedicherà a me con una lettera, ed è una sorpresa, perché io la conoscerò dall’editore. Lui non aveva voluto che io, perché questo libro l’avevo letto io prima, non ha voluto che io lo sapessi prima. Io l’ho saputo dopo la morte quando l’editore Rizzoli mi ha mandato le bozze perché voleva qualche ritocco, e io ho trovato anche la lettera che lui aveva messo perché fosse stampata nel “Dramma è Dio”. Tra l’altro il titolo è stato deformato – e mi spiace – dall’editore, mentre il titolo di Turoldo era molto più significativo, “Il Dramma è di Dio” non “Il dramma è Dio”, considerazione tutto sommato scontata. Ecco “Il dramma di Dio” è proprio questo, questo scoprire dentro di sé e accanto a sé il nulla, i silenzi astrali, le notti altissime che evocano gli spazi siderali e metafisici di Pascal. “Queste esplorazioni dentro il cratere” e cito sempre Turoldo “dentro il cratere dell’incandescente Dio, ma il cratere dentro il quale se tu ti affacci sei tentato di precipitare e se precipiti sei bruciato, sei annichilito. Un Dio immensamente debole, immensamente debole e condizionato Iddio, infelice per la nostra sorte di creature mortali”. Per quelli che conoscono la teologia – perché la poesia di Turoldo con buona pace del fatto che lui dicesse di essere un poeta brado è una poesia aristocratica, molto raffinata la finale soprattutto -, c’è una evidente allusione alla teologia di Bonhoeffer: il Dio che ci salva, non in virtù della sua onnipotenza bensì in virtù della sua sofferenza, stando vicino e condividendo la sofferenza dell’uomo. E gli altri bellissimi versi: “nel fittissimo buio sento il tuo sguardo sul cuore”. E fin qui sembrerebbe proprio tutto il fascino mistico dello sguardo di Dio, ma sentite l’explicit, la clausola finale: “Come di falco appollaiato sul nido”; Dio ha lo sguardo di un falco, pronto a ghermirti ed ad aggredirti. Voglio concludere questa seconda tavola prima di avviarmi ormai alle conclusioni, indicando che i percorsi migliori per poterlo incontrare sono proprio i percorsi della miseria, della povertà, del dolore, e qui Giobbe insegna. Inoltre il percorso della sofferenza, non le vie sontuose, le epifanie di Dio, le teofanie, non sono nei momenti gloriosi e grandiosi, le vere epifanie di Dio sono ai crocicchi delle strade, nella polvere come diceva Isaia: “Una voce che sale come un bisbiglio dalla polvere”, una voce che sale come uno spettro, come la voce di un fantasma. E allora Turoldo dice: “La miseria, la nostra miseria, fiordo della speranza” il fiordo ha l’acqua gelida che penetra tagliando la costa, però è fiordo della speranza. Oppure in un’altra sua poesia  scoprirete quella rappresentazione (forse lui aveva in mente lo scavo sotto la Manica del tunnel): “un tunnel sotto il mare con qualche luce gialla che balugina”. Questa è la via dell’uomo: camminare sotto il mare in un tunnel con qualche luce gialla soltanto, una luce artificiale quasi, e andando oltre, e alla fine però, la presenza c’è ed egli lo ripeterà: “Un Dio che pena nel cuore dell’uomo”. “Con angoscia ti fuggo o luce, ma sulla stessa via sempre ti incontro, ti hanno trovato quelli che non ti cercavano” – e qui non è Turoldo, ma è Isaia citato dalla Lettera ai Romani di Paolo, citato alla lettera. Un critico invece ha trovato qui la sigla tipica dell’impegno di Turoldo nei confronti dei non credenti: in realtà è semplicemente la citazione di Paolo che cita a sua volta il profeta Isaia. E poi quel verso che è alla fine coniugato con un  verso di dolore: “Insieme, insieme mio Dio saremo felici” ma chi è questo Dio col quale insieme saremo felici? E’ un Dio  che pena nel cuore dell’uomo.

Voglio concludere con tre considerazioni, se mi permettete. La prima considerazione è questa: Turoldo ha avuto come approdo, e quindi come grande insegnamento ultimo, il silenzio. Il silenzio colmo, dopo tutto tutti i poeti hanno questa grande sfida di dire l’ineffabile. La parola mistero viene dal greco “chiudere le labbra, tacere”. Il nome di Dio è impronunciabile, per Israele: sono 4 consonanti che non si dicono. Eppure è un silenzio bianco, non nero: la cancellazione di tutte le parole è la sintesi di tutte le parole, di tutti i suoni. E possiamo dire che per Turoldo era vero. Ricordo che lui era entusiasta quando gli avevo spiegato l’originale ebraico del versetto, se ricordo I Re 19, 12, il versetto dell’incontro di Elia al monte Horeb. La traduzione della CEI è una pallida traduzione, povera traduzione. Ebbene, voi avete tutti in mente la traduzione della CEI, pur possibile per altro. Elia desidera trovare Dio secondo le grandi epifanie di Dio, nel vento che spacca le rocce, nel terremoto, nel fuoco del fulmine. E Dio – è la traduzione – Dio è nella brezza leggera della sera. Ma se noi andiamo a vedere l’originale ebraico non c’è così, in ebraico c’è: “una voce sottile di silenzio”. Questo vale un libro intero. Scoprire Dio in una voce sottile di silenzio. Ecco Turoldo in pratica ha capito che il grande mistero di Dio è proprio lì, nelle regioni del male, nelle regioni del nulla. “Tu non puoi non essere –Canti ultimi- tu devi essere pure se il nulla è il tuo oceano”. E’ questa forte contrapposizione fra il Dio metafisico che deve essere, eppure si trova, dopo avere creato per amore, nell’oceano del nulla. O ancora, il momento ideale per scoprire Dio, è il momento del venerdì santo, del silenzio di Dio, per Gesù, per il figlio: “Fede vera è il venerdì santo quando tu – il Padre- non c’eri lassù, quando non una eco risponde al suo – del Cristo – alto grido e a stento il nulla dà forma alla tua assenza”. Stupendo questo verso finale, degno di Meister Eckhart,  mistico, il nulla dà forma alla tua assenza. Ecco io penso proprio che Turoldo abbia lasciato questo messaggio di grande speranza: alla fine, è proprio nella nostra fragilità, nel limite, nel nulla, nel silenzio, in Giobbe quindi, nel venerdì santo che si scopre la Pasqua, che si scopre la speranza, il fiordo della speranza.

La seconda considerazione. Turoldo ha sentito profondamente l’importanza della parola. E’ una cosa che dobbiamo ribadire in questi tempi nei quali noi vediamo la parola del tutto ferita, del tutto umiliata. Pensiamo ai nostri giovani, non per colpa loro, per una serie di ragioni, per questo grande idolo che sta all’interno delle nostre case che è il televisore che si riducono soltanto, come ha detto Umberto Eco giustamente, ad usare soltanto dalle 500 alle 800 parole. Pensate: per esprimere la gamma sterminata dei sentimenti dell’uomo, lo spettro infinito delle sensazioni, solo 500, 800 parole e questa è una povertà terribile. Ecco, Turoldo ha sentito l’importanza della parola, p minuscola e P maiuscola. C’è quel famoso verso del Faust, di Goethe “la parola muore già sotto la penna” che rende il senso di una fragilità estrema. D’altra parte la parola ha una forza dirompente straordinaria, soprattutto quando è la Parola. Turoldo infatti cita Geremia 29: “La mia parola è come un martello che spacca la roccia, è come un fuoco ardente”, questa idea della parola provocatrice. E devo dire che Turoldo può essere catalogato nell’interno dei profeti. Proprio come genere letterario: i profeti uomini della Parola. La definizione è molto migliore della definizione ebraica: perché sapete che profeta non è una parola ebraica. I profeti in ebraico venivano chiamati veggenti, inviati. E invece profeta, termine greco, vuol dire colui che parla davanti a , prima di, anche in luogo di, colui che parla in luogo di Dio. Ecco la parola, l’uomo della parola. E ricordo a questo proposito, e mi pare proprio che meriterebbe di essere dedicata a Turoldo questi versi che io gli ho fatto conoscere, che lui non conosceva, e che gli erano piaciuti tanto: i versi di una poetessa ebrea, Nelly Sachs, che fu anche premio Nobel per la letteratura. La parola dei profeti cerca di forare l’ottusità dell’orecchio, la sordità dell’orecchio dell’uomo e cerca, in maniera particolare,  di incidere ferite di parole nei campi dell’abitudine, nei campi della consuetudine, della superficialità, della banalità. Ai nostri giorni non abbiamo più profeti ed è per questo che ci vomitano continuamente parole stupide, stolte, insignificanti, parole che non feriscono.

“Se i profeti irrompessero per le porte della notte

incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine

se i profeti irrompessero per le porte della notte

e cercassero un orecchio come patria

orecchio degli uomini ostruito di ortiche

sapresti tu ascoltare?”

Turoldo ha voluto che gliela scrivessi questa poesia, perché non esisteva ancora la traduzione italiana e gliela ho tradotta dal tedesco. Ma penso che rappresenti bene lui, questa voce che è andata contro l’orecchio ostruito di ortiche incidendo ferite, facendo anche sanguinare, certo. Ed è questo il compito, io penso, delle voci autentiche.

E finisco con una poesia di Turoldo che metto come terza conclusione. Dopo questa celebrazione del silenzio, la celebrazione della Parola, quella della Parola autentica. Ho sentito che questa associazione degli ex-alunni del liceo è laica, il liceo è laico; quindi immagino che ci siano anche dei non credenti, anche perché molto spesso io dico che non si trovano più gli atei: gli atei come li descrive, adesso, questa poesia di Turoldo, sempre nei “Canti ultimi”. Gli atei nobilmente pensosi, quelli che sentono il problema della non credenza come battaglia, come lotta, come dramma eventualmente. Adesso c’è l’indifferenza, che è tutt’altra cosa; e purtroppo bisogna anche dire che in parallelo ci sono anche tanti pochi credenti autentici per i quali credere. E’ drammatico, è lotta nella maniera che abbiamo definito, nel modello di Abramo e di Giobbe. Ebbene, Turoldo ha dedicato una poesia proprio a loro e io vorrei dedicarla a tutti noi che siamo tutti un po’ atei e un po’ credenti, perché i confini, le frontiere della credenza e della non credenza come ben sapete sono molto fluidi, qualche volta ci troviamo con i nostri piedi al di là, anche noi nella crisi di fede. E tante volte i non credenti, io l’ho visto, che si dichiarano non credenti, che credono di non credere, si trovano nell’altro terreno, folgorati dal divino. Ecco, è un invito rivolto a tutti ad andare oltre i deserti, i deserti in cui siamo, in questo tempo sicuramente non esaltante culturalmente e spiritualmente. Ad andare oltre anche la foresta delle religioni, delle fedi stesse, perché, noi sappiamo, lo dice Paolo, che poi la fede finirà. E noi saremo davanti a lui, e anzi in quel momento morirà anche la parola, come abbiamo detto, perché ci sarà solo la visione, e allora è un invito al cammino, è un invito alla ricerca, ecco la terza parola che Turoldo ha spesso declinato: la ricerca. Ascoltiamo questo suo appello: “Fratello ateo, nobilmente pensoso” e questa citazione, lo ricordo qui, a Brescia, è una citazione di una enciclica di Paolo VI rivolta a coloro che cercano non credendo “alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto, di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi, verso il nudo essere, e là dove anche la parola muore, abbia fine il nostro cammino”.

[1] Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 16.5.1995 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

[2] N. Frye, Il grande codice: la Bibbia e la letteratura, Torino 1986.