Blaise Pascal

«L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è una infinità di cose che la sorpassano: essa non è che ben debole cosa, se non arriva a riconoscere questo. Ché se le cose naturali la sorpassano, cosa si dovrà dire di quelle soprannaturali?» (B. Pascal)

LA STRAORDINARIA GENIALITÁ E MODERNITÁ

La vita di Blaise Pascal fu breve come un lampo. Breve e ardente. Tra il 1623 e il 1662, in 39 anni, Pascal ha dispiegato il suo genio ammirabile, ripartendo le sue forze e la sua appassionata attenzione in tre distinti ordini di realtà:

– quello della scienza;

– il mondo dell’esistenza umana indagato nelle sue categorie più tipiche, nei suoi nodi nascosti, nella sua profondità vitale, nella sua miseria e nella sua grandezza;

– l’ordine sovrannaturale della grazia e della carità, del mistero e della vita mistica, ordine di pienezza e di ricapitolazione di tutti gli esseri in colui che, essendo il Logos, il fondamento della creazione, è la ragione di tutte le cose, il punto di relazione degli elementi che, presi a sé, stanno su piani ontologici e assiologici diversi.

Per la vastità del suo spirito, per l’importanza degli ordini di realtà che egli esplora, per l’audacia, la novità e insieme l’equilibrio delle sue applicazioni, Pascal è stato nell’età moderna il genio più completo che si conosca. Tra i moderni egli è certamente il più contemporaneo, avendo il privilegio – che è di pochissimi scienziati, filosofi e santi – d’essere tanto più attuale quanto più la storia avanza. Le sue intuizioni sulla «geometria del caso», le anticipazioni sul calcolo infinitesimale e nella quantità discontinua sono al centro della scienza moderna, quella dei quanti e delle probabilità. Il fascio di conseguenze sull’equilibrio dei fluidi, tratte dal suo esperimento di Puy de Dome, e gli sbalorditivi studi sulla cicloide fanno di lui un grande fisico e un grande matematico. La sua macchina calcolatrice prefigura la nostra era elettronica. La sua visione dell’uomo e della condizione umana annuncia la filosofia dell’esistenza così come si configura nel suo fondatore Søren Kierkegaard, e la sua maniera di concepire il cristianesimo incentrato nel Vangelo e in Cristo annuncia la teologia moderna. La sua apologia prepara quella di John Henry Newman e di Maurice Blondel; e si badi, apologia non tanto in senso di difesa, ma in quanto discorso introduttivo, protreptico, illuminante. L’apologia pascaliana ha il pregio incomparabile di essere una scienza della creatura, perché muove alla scoperta della verità cristiana partendo dall’esame dell’effettuale condizione umana. In tal senso i Pensieri sono il «Novum Organum del mondo umano». L’uomo si fa problema a se stesso, problema i cui dati innegabili sono miseria e grandezza e sono dati indisgiungibili pur nella loro opposizione. Reale è la duplicità dell’uomo: vera – secondo Pascal – sarà solo quella concezione che darà ragione di essa. Il punto di partenza e il centro di tutti i problemi sta, dunque, nel fatto che l’uomo è un nodo di contraddizioni: è degno d’amore e di disprezzo; aspira alla verità e la fugge; è «gloria e rifiuto del mondo»; cerca il Bene assoluto, l’Infinito, e idolatra il finito; è paradosso, è mistero ed è, in un certo senso, luce a se stesso. «Che cosa diventerà, dunque, l’uomo? – si chiede Pascal nel fr. 388 – Sarà uguale a Dio o alle bestie?» [La numerazione dei frammenti qui riportata è quella seguita da Jacques Chevalier nella traduzione di Adriano Bausola e Remo Tapella (Pensieri, Rusconi, Milano 1993, 2 ed.)]. E qual è la sua posizione nello spazio e nella corsa del tempo? Sospeso tra i due abissi dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, l’uomo grida: «Je m’étonne, je m’effraie (Io ne sono atterrito e stupito)». E che cos’è l’uomo nella serie dei secoli passati e di quelli a venire? L’esistenza sembra scivolare nella contingenza del che, dell’ora, del qui. Il tempo e lo spazio ci sommergono, c’inghiottono, ci schiacciano. Che cosa può fare l’uomo di fronte ad essi? Nulla con la fuggevole caducità delle sue forze; ma l’uomo può risollevarsi in virtù della dignità del suo spirito. L’orgoglio stoico e il razionalismo moderno guardano solo a ciò che fa la grandezza dell’uomo e, sbagliando, ne proclamano l’autosufficienza: fanno dell’uomo un Dio o un angelo. Il pessimismo e lo scetticismo guardano solo a ciò che fa la miseria dell’uomo, ai condizionamenti che assimilano l’uomo alla bestia e sbagliano, proclamando il non senso, il nulla, la disperazione come unico esito logico della vita. Sul piano religioso il razionalismo conduce al deismo, mentre lo scetticismo conduce all’ateismo. Sono due errori di cui pure bisogna cogliere la verità che li rende credibili. Una tra le molte ragioni per cui l’opera di Pascal ci tocca così da vicino è il suo prendere di petto l’ateismo, il suo scendere in campo aperto a misurare le ragioni del no a Dio (due secoli dopo l’umanità potrà annoverare sul rifiuto di Dio lo scandaglio in profondità compiuto da Fëdor Dostoevskij). La radicale onestà intellettuale e morale di Pascal lo rende avvertito del pericolo delle facili spiegazioni rivolte a coloro che sono privi «di luce e di grazia»: «Io sono convinto per ragionamento e per esperienza che nulla è più atto a farne nascere in loro il disprezzo» (fr. 366). Non è affatto vero che sia facile credere: «Io posso soltanto aver compassione per quelli che gemono sinceramente nel dubbio, che lo considerano come l’estrema delle sventure e che, non risparmiando nulla per uscirne, fanno di questa ricerca la principale e la più seria delle loro occupazioni» (fr. 335). Ma questo non è il caso più frequente. Pascal nello stesso brano ora citato denuncia con vigore le gravissime insufficienze, umane prima ancora che logiche, dell’altra e più diffusa forma di ateismo, che esprime indifferenza nei riguardi di Dio. Di contro Pascal scrive che l’indifferenza ostentata dall’ateo per il destino eterno dell’uomo è stordimento che fa paura, è disumanità. Offende in sé la dignità umana chi trascura di istruirsi sul suo destino: «Se voi non vi curate affatto di conoscere la verità, questo basta per lasciarvi in pace» (fr. 361). Per respingere la religione, gli atei dovrebbero almeno averla studiata. Vantarsi di disprezzare e combattere ciò che ignorano, in una questione così essenziale, è segno di insensibilità, di debolezza d’intelletto. Quando poi l’ateismo è odio perverso e persecutorio, i suoi sostenitori che cos’altro sono se non gli ardenti missionari del nulla? «Questa gente manca di cuore: non la si vorrebbe come amica» (fr. 338). E Pascal conclude epigraficamente: «Ateismo, segno di forza di spirito, ma fino a un certo punto» (fr. 360). Se l’ateismo si ferma alla conoscenza della nostra miseria e ignora Dio, il deismo dei sistemi filosofici razionalisti è astratta affermazione di Dio, senza la conoscenza dell’umana miseria e del reale bisogno di Dio che è nell’uomo. Il Dio dei razionalisti è infatti il «gran geometra», colui che mette in moto il mondo e dopo la spintarella l’abbandona a sé, è l’Ente supremo, supremamente incolore, assente dalla storia e dalla coscienza dell’uomo. Il deismo – nota Pascal con intuizione profetica del corso logico e storico delle idee così come si è svolto nei tre secoli che ci separano dalla sua morte – funge da trapasso all’ateismo. Esso non dirige l’attenzione dell’uomo verso la soluzione del problema della vita, non comporta la scelta tra il tutto e il nulla, non conosce quel Dio infinito d’amore che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede. L’anima di vero dell’ateismo è: l’uomo è indegno di Dio a causa della sua corruzione. L’anima di vero del deismo è: l’uomo è capace di Dio in virtù della sua primigenia natura. Ma in qual modo il cristianesimo può congiungere l’anima di vero del deismo e dell’ateismo e, nel contempo, denunciare e respingere l’errore dell’una e dell’altra posizione? Il cristianesimo è vero perché esso solo rende conto della duplicità costitutiva dell’uomo fino in fondo e dell’uomo risolve le contraddizioni. Fr. 314: «L’uomo sa di essere miserabile: egli è dunque miserabile perché lo è; ma è ben grande perché lo sa»; fr. 268: «La grandezza dell’uomo è così manifesta che la si inferisce perfino dalla sua miseria». Le filosofie perdono di vista questa contraddizione e si lasciano sfuggire la realtà dell’uomo, perché non ne vedono che un aspetto: le unilateralità opposte sono state tipizzate dagli scettici e dai razionalisti per quel che riguarda la ricerca del vero, dagli epicurei e dagli stoici per quel che riguarda la ricerca del bene. Ebbene, lo stoicismo corregge l’illusione edonistica, e lo scetticismo di Montaigne cura l’orgoglio stoico di Epitteto; la ragione, dal suo canto, basta a confutare l’assoluta negatività di ogni posizione scettica. Bisogna però aprire il Vecchio e il Nuovo Testamento per stringere in unità le verità particolari degli opposti sistemi filosofici e per poter spiegare l’uomo così come l’osservazione più spregiudicata ce lo mostra nella sua drammatica duplicità. L’uomo è creato da Dio e simile a Dio (e in ciò è la radice della sua grandezza); ma, nello stesso tempo, l’uomo è in uno stato di ribellione a Dio (e in ciò è la radice della sua miseria).

Una frase – «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto» – ha acceso un focolaio di equivoci intorno alla personalità e al pensiero di Pascal. Spesso quelle parole vengono citate a sproposito. Ma si provi a non decapitarle arbitrariamente dal fr. 477 a cui appartengono, e allora si vedrà quanto contrario alle intenzioni profonde dell’autore sia l’abuso che di esse si è fatto. Il frammento, dopo la troppo famosa frase iniziale, prosegue: «Dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente e se stesso naturalmente, a seconda che si attacchi all’uno o all’altro». Qui le coeur è la facoltà di scelta dell’oggetto da amare e null’altro. In altri passi è l’organo intuitivo dello spirito, l’organo per così dire dell’ésprit de finesse; la qualcosa ampiamente Pascal illustra nel fr. 479. Bisogna farla finita con un luogo comune tanto celebre, a più riprese dottamente commentato, quanto infondato e, in un certo senso, ridicolo, perché se c’è un pensatore e un uomo in cui l’abito scientifico e il rigore morale sono impermeabili alla sensiblerie romantica questi è proprio Pascal, a cui non si poteva recare offesa maggiore che far suonare le sue parole a giustificazione della incontrollabilità del sentimento e della soggettività emotiva. Quel luogo comune serviva, però, ad accreditare con immediatezza magica il preteso irrazionalismo di Pascal, e questo a sua volta il fideismo, quale esito finale dell’apologia. È il caso di dire: ecco un esempio di falsa evidenza. Colui che ha scritto: «La ragione ci comanda in modo molto più imperioso di un padrone; perché disobbedendo all’uno si è infelici, e disobbedendo all’altra si è sciocchi (on est un sot)» (fr. 266) non era un sot. Pascal conosce e descrive la condizione drammatica della ragione umana, impegnata direttamente a costruire il destino temporale ed eterno di colui che pensa; egli se la ride della superstizione razionalistica della ragione, ma ha rispetto della ragione che conosce i suoi limiti, i quali altresì attestano ciò che è in suo potere. «L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano: essa non è che debole cosa se non arriva a riconoscere questo. Ché se le cose naturali la sorpassano, che cosa si dovrà dire di quelle soprannaturali?» (fr. 466). Occorre respingere la pretestuosa autosufficienza del razionalismo e la disperazione scettica del fideismo. È quanto il cristianesimo esige e rende possibile a coloro che l’accolgono in spirito e verità.

L’opera di Pascal è certamente discutibile in molti dettagli e in qualche importante concezione teologica, ma nell’essenziale Pascal non si è ingannato. La sua visione cristiana del mondo è sorretta dall’esperienza religiosa più intensa e insieme dalla più acuta razionalità. Nato dall’intimo travaglio della sua vita, il pensiero di Pascal si rivolge a tutti gli uomini e può costituire per ciascuno di essi un bene proprio. Pascal, instancabile cercatore e testimone della verità, ha il dono assai raro di mettere in moto gli spiriti, di disporli alla riflessione che salva, di orientarli verso il loro Principio. «Questo uomo straordinario ha il dono di appassionare chiunque gli si avvicini (Cet homme extraordinaire a le don de passioner quiconque l’approche)» (Henri Bremond).

L’ITINERARIO DELLA MENTE

L’infanzia e la giovinezza; la prima conversione

Nacque a Clermont-Ferrand il 19 giugno 1623, morì a Parigi il 19 agosto 1662. Blaise Pascal apparteneva a un’agiata famiglia di piccola nobiltà («noblesse de robe»). Perse la madre a tre anni: «Pascal appartiene al numero di quelli i quali sono cresciuti senza il calore e la protezione dell’ambiente materno, e per i quali è rimasta poi sempre una mancanza di patria del cuore» (Romano Guardini, Pascal, Morcelliana, Brescia 1952, p. 23).

Suo padre Etienne, alto magistrato, rimasto vedovo abbandonò ogni attività pubblica e si dedicò interamente agli studi e all’educazione dei figli Blaise, Gilberte e Jacqueline.

Blaise ebbe per solo maestro il padre il quale mise in pratica nella sua opera di magistero questi due principi: a) mantenere sempre il giovanetto «au dessus de son ouvrage (al di sopra della propria opera)», in modo che ne resti educato e non soverchiato (gli insegnò il latino non prima di dodici anni affinché lo imparasse con maggiore facilità); b) abituare la mente a seguire la verità finché si mostri apertamente: cercare in ogni questione l’evidenza intellettuale.

Nel 1631 Etienne Pascal si trasferì a Parigi; la famiglia venne a contatto con la corte e la sensibilità poetica di Jacqueline destò l’ammirazione del card. Richelieu.

Etienne Pascal fu tra i primi membri dell’Accademia fondata da Marin Mersenne e qui si legò in amicizia con scienziati di indirizzo anticartesiano come Gilles Personne de Roberval e Girard Desargues.

In questo ambiente Blaise Pascal s’impadronì prestissimo dello spirito e dei problemi della nuova scienza e nel 1640, a 17 anni, scrisse il Trattato delle coniche (Essai pour les Coniques), proseguendo l’indirizzo del Desargues. Pascal nel saggio trascurò la via cartesiana dell’analisi algebrica e non si allontanò dal campo della geometria pura. Léon Brunschvicg (Pascal, Rieder, Paris 1932, p. 9) nota che il saggio non solo manifesta il genio di Pascal, ma anche le caratteristiche di esso: «un’attitudine sbalorditiva a scoprire, in un ordine di problemi nuovi e ancora non approfonditi, il nodo vitale in cui al massimo di chiarezza si congiunge il massimo di fecondità». Chi non capì Pascal fu Cartesio, che negò l’originalità della ricerca, in parte riconosciuta dallo stesso Desargues.

Nello stesso 1640 seguì il padre a Rouen dove questi era stato inviato come coordinatore dell’intendenza di finanza. Per rendergli più agevoli i calcoli delle imposte, Blaise inventò dopo due anni di intensissimo lavoro una macchina calcolatrice (1642), perfezionata e portata a termine nel 1652. A Rouen Pascal conobbe il drammaturgo Pierre Corneille.

Nel gennaio 1646 Etienne Pascal, essendosi slogato una coscia scivolando sul ghiaccio, fu curato dai fratelli Deschamps, due gentiluomini normanni convertitesi alle idee di Saint-Cyran dal curato di Rouville, Jean Guillebert. Il Saint-Cyran, personalità singolare animata da un’ardente impulso di riforma religiosa ma con idee confuse, tendenze dispotiche e pesanti complessi di inibizione, era legato, per lunga comunità di studi e di amicizia, all’olandese Giansenio, il futuro vescovo di Yper. Il movimento spirituale e teologico iniziato dai due amici fu detto giansenismo. I due gentiluomini normanni fecero avere ai Pascal le opere di Giansenio, Antonio Arnauld, Saint-Cyran e per mezzo del curato Guillebert l’intera famiglia fu conquistata a questo indirizzo spirituale di biblico rigore.

Il contatto con la teologia giansenista e l’interessamento religioso che ne seguì (nel 1648 andò a far visita all’antico convento di Port-Royal, retto dalle figlie di Antonio Arnauld madre Angelica e Agnese e arsenale di controversie teologiche) furono detti «la prima conversione» di Pascal. La conversione di Blaise è intellettuale e battagliera. Dopo Rouen nasce il teologo giansenista e il grande polemista.

Il trionfo dell’intelligenza è impressionante nella scoperta scientifica, nelle dispute di scuola e nelle controversie teologiche. Essa cade in un periodo di intensissima attività scientifica: nell’ottobre del 1646 Pascal, col padre e col matematico Pierre Petit, rifece l’esperimento del Torricelli sul vuoto.

Pascal tornò a Parigi, ma la sua salute era irrimediabilmente scossa e non gli permetteva un’applicazione prolungata. Aveva un continuo mal di testa e male di visceri. Non poteva ingerire alcun liquido che non fosse caldo e a goccia a goccia.

Il periodo mondano

Il periodo mondano della vita di Pascal va dal 1647 al 1654, anno del Memoriale. Questo periodo vede Pascal – che era malato e a cui i medici avevano proibito ogni seria applicazione – dividere il suo tempo tra la vita di società e l’invincibile, l’irresistibile richiamo alla sua attività di scienziato. L’amore della gloria e la raffinatezza di chi vive «en homme de monde» lo tentarono fortemente.

Nell’autunno del 1647 Pascal, promettendo un’ulteriore trattazione completa dell’argomento, anticipava in un opuscolo Expériences nouvelles touchant le vide (Nuove esperienze relative al vuoto) i primi risultati dei suoi esperimenti. Il gesuita padre Noel prese la difesa della fisica aristotelica e del preteso orrore della natura per il vuoto (pregiudizio questo condiviso dall’antiaristotelico Cartesio). La risposta a p. Noel, ottobre 1647, e la lettera a M. Le Pailleur del febbraio 1648, pongono con vigorosa energia alcuni presupposti di metodologia scientifica di grande valore:

  1. non i fatti devono essere sottoposti alla nostra possibilità di concepirli: è la ragione che deve sottomettersi ai fatti e riconoscere che molti fatti oltrepassano la sua possibilità di conoscenza;
  2. nelle scienze che cadono nell’ambito della sperimentazione «non ci fondiamo affatto sull’autorità: quando citiamo le loro dimostrazioni e non i loro nomi».

Le ricerche sul vuoto lo portarono ad ideare l’esperienza del Puy-de-Dome per verificare l’ipotesi di Torricelli in modo irrefutabile: si trattava di provare se l’altezza del mercurio sospeso in un tubo sia la stessa ai piedi o sulla vetta di un monte. L’esperimento compiuto il 19 settembre 1648 fu ripetuto a Notre Dame in Parigi e altrove. Era dimostrato definitivamente che l’horror vacui è solo il peso e la pressione dell’aria. Pascal intuisce le applicazioni del principio da lui maturato e che, frattanto, si era fatto strada anche in altri scienziati: misurazione della pressione atmosferica, determinazione delle altitudini, macchina pneumatica, eccetera.

Il significato dell’opera scientifica di Pascal e la più chiara formulazione della sua metodologia scientifica balzano con felice evidenza dal frammento della prefazione al Traité sur le vide (Trattato del vuoto) che egli andava meditando. Il frammento risale quasi certamente al 1647: vi è trattato il problema del rapporto tra autorità e ragione, convergente con quello del rispetto degli antichi e dei diritti dei moderni. L’eccessivo rispetto che si porta all’antichità è tale che «il testo di un autore basta a distruggere le più forti ragioni». Bisogna distinguere nettamente tra scienze storiche e scienze che dipendono solo dall’osservazione e dal ragionare: le prime riguardano istituzioni umane (storia, giurisprudenza, lingua) o divine (teologia); le seconde comprendono la geometria, l’aritmetica, l’astronomia, la musica, la medicina, l’architettura.

Nelle scienze storiche la testimonianza e l’accertamento del fatto è decisivo e il ricorso all’autorità è quindi inevitabile. Nelle scienze che dipendono esclusivamente dall’esperienza e dal ragionamento la ragione sola ha diritto di giudicare e ha tutte le prerogative. Queste scienze sono suscettibili di un progresso incessante e di invenzioni inesauribili. «Bisogna rialzare il coraggio di quei timidi che non osano inventare nulla in fisica e confondere l’insolenza dei temerari che apportano novità in teologia».

La verità si scopre nel tempo e nella storia, ed in questo senso è filia temporis, ma il suo valore, inesauribile, trascende il tempo e la storia. «I segreti della natura sono nascosti; quantunque operi sempre, non sempre si scoprono i suoi effetti; il tempo li rivela di epoca in epoca e, sebbene sia sempre uguale in se stessa, non è sempre ugualmente conosciuta». La storia dell’umanità deve essere considerata come quella di un sol uomo che sussiste sempre e apprende continuamente. «Le conoscenze anteriormente ricevute sono servite di gradino alle nostre; e, per il vantaggio che ne abbiamo avuto, siamo debitori agli antichi di quanto li sopravanziamo»: la nostra vista ha una maggiore estensione e la mente umana è incessantemente sospinta alla conquista del reale. «Gli antichi devono essere ammirati nelle conclusioni ben riuscite, che hanno ricavato dai pochi principi che possedevano, e devono essere scusati nelle altre, in cui, più che la forza del ragionamento, è mancata la fortuna dell’esperienza». Per esempio nella loro opinione «la natura ha orrore del vuoto» essi hanno inteso parlare della natura quale la conoscevano loro; ma dopo le nuove esperienze, sarebbe per noi imperdonabile restare nella convinzione degli antichi. Bisogna partire dagli antichi, ma senza fermarsi alle loro opinioni «come se loro non avessero lasciato verità da conoscere»; immobilizzare la ragione significa degradarla e misconoscere la sua specifica capacità per cui l’uomo si eleva infinitamente rispetto agli animali, fissi nei loro istinti: gli effetti del ragionamento aumentano incessantemente. La natura istruisce gli animali a mano a mano che la necessità li costringe; ma la loro fragile scienza si perde con i loro bisogni. «Non è così dell’uomo, che è fatto per l’infinito». Si deve concludere che «coloro che chiamiamo vecchi erano veramente nuovi e formavano l’infanzia dell’umanità; e poiché noi abbiamo aggiunto alle loro conoscenze l’esperienza dei secoli successivi, è in noi che si può trovare quell’antichità che riveriamo negli altri».

Nel 1649 e nel 1650 Pascal con la sorella Jacqueline e il padre si ritirò a Clermont per sfuggire ai torbidi della Fronda. Al ritorno a Parigi nel 1651, il padre morì. Pascal indirizzò una lettera di meditazione della morte alla sorella Gilberte e al cognato, permeata di cristianesimo agostiniano. Jacqueline ora è libera di seguire la sua vocazione e di entrare nel convento di Port-Royal; ma Blaise, che si era irritato con il padre per la sua opposizione ai desideri di Jacqueline, fece egli stesso delle difficoltà: sia perché non vorrebbe perdere la compagnia e l’aiuto della sorella, sia perché si rifiuta di concedere a Port-Royal la parte di dote che toccava alla sorella, forse pensando allo sfruttamento industriale della macchina calcolatrice, per cui occorrevano mezzi liquidi. In ogni caso Pascal si avvalse di una dichiarazione notarile, scritta subito dopo la morte del padre, in cui Jacqueline cedeva al fratello la sua parte di eredità in cambio di una rendita vitalizia. Ma prima che Jacqueline facesse la professione, Blaise, dopo una visita a Port-Royal, cambiò opinione e spontaneamente risolse la faccenda, dando con grande larghezza in proporzione alla sostanza.

Dopo la morte del padre e il ritiro della sorella Jacqueline, Pascal cercò distrazione nella vita di società, pur senza interrompere gli studi scientifici: sono di quegli anni, tra il 1652 e il 1654, i trattati usciti postumi De l’équilibre des liqueurs (Sull’equilibrio dei liquidi) e De la pesantesse de la masse de l’air (Sul peso della massa dell’aria) e alcune delle sue più importanti conquiste matematiche intorno all’analisi combinatoria e al calcolo delle probabilità.

È il periodo in cui Pascal vede aperte davanti a sé tutte le possibilità di una splendida esistenza nel mondo della cultura e della società. Una vigorosa coscienza di sé traspare dalla lettera alla Regina Cristiana di Svezia, con cui accompagnava l’invio della macchina aritmetica: vi si parla della distinzione e della superiorità degli spiriti rispetto all’ordine dei corpi, per illustrare la superiorità morale della potenza spirituale degli uomini di pensiero rispetto a quella ancora carnale dei principi.

Nei salotti egli prese contatto con i tardi discepoli di Montaigne e ne ricavò una nuova lezione di anticartesianesimo: meditò Montaigne, che divenne l’autore preferito, e s’immerse nello studio di Epitteto e di Seneca, i veri ispiratori di Montaigne. Il grande fisico e matematico ora studia l’uomo e in questo studio concorrono un’attitudine a penetrare sino in fondo le esperienze altrui e le proprie disposizioni interiori, filosofia stoica e giansenismo (si sa del resto che Giansenio fu scolaro dello stoico Justus Lipsius).

Ebbero particolare importanza la relazione di Pascal con Antoine Gombaud, cavaliere di Méré, e con Damien Mitton: il Mitton sembra gli sia servito per tipizzare la figura dello scettico; il primo è il più perfetto rappresentante della honneteté, che consiste nell’arte di piacere nel senso più profondo, nel farsi amare, liberandosi da ogni pedantismo, dalla univisualità di chi è prigioniero della sua particolare specializzazione professionale. «Il Méré ha contribuito a far comprendere al Nostro che tutto il mondo non è geometria e che l’uomo non dev’essere preso per una proposizione… Ma mentre l’honneteté per il Méré era pure ed esteriore compitezza mondana, per il Pascal era una forma superiore di cultura e di saggezza» (Michele Federico Sciacca, Pascal, Morcelliana, Brescia 1946, p. 49). Documento caratteristico di questa fase del suo pensiero sarebbe il Discours sur les passions de l’amour (Discorso sulle passioni d’amore), ma il problema dell’attribuzione a Pascal resta pressoché insolubile.

La seconda conversione

Nel dicembre del 1653 si avvia a porre la sua vita sulla via di un serio impegno cristiano. La più profonda conoscenza dell’uomo acuì in Pascal il problema dell’uomo mistero a se stesso: Montaigne e Epitteto per lui diventano espressioni tipiche, categorie dialettiche dello scetticismo e dello stoicismo e Pascal sente di dover correggere l’una con l’altra, ma non scorge in esse che aspetti opposti di un problema la cui soluzione è solo nel cristianesimo.

La noia, il disgusto per la vita mondana si accompagna alla volontà di rinuncia. Pascal decide di operare il distacco cristiano dal mondo, «distacco che, in una personalità dotata di tale forza di aspirazioni, di piani, di dominio, poteva avvenire solo a costo delle più dure lotte» (Romano Guardini, Pascal, Morcelliana, Brescia 1956, p. 205).

L’écrit sur la conversion du pecheur (Lo scritto sulla conversione del peccatore) attribuito a Pascal e le lettera di Jacqueline a Gilberte testimoniano il maturarsi di una decisione non improvvisa. «Mio Dio, poiché la conversione del mio cuore che vi domando è opera che sorpassa tutti gli sforzi della natura, io non mi posso rivolgere se non all’autore e al Signore onnipotente della natura e del mio cuore. Tutto ciò che non è Dio non può saziare la mia attesa perché io domando Dio stesso, Dio stesso io cerco; mi rivolgo a Voi solo, o mio Dio, per ottenere Voi; aprite il mio cuore, o Signore…».

La sera del 23 novembre 1654, mentre leggeva la Bibbia e prega, Pascal per due ore sperimentò la gioia trasfigurante dell’unione con Dio e la luminosa certezza di voler camminare «per le vie insegnate nel Vangelo». Egli ne fissò, con mano febbrile, su un foglio il ricordo per sé soltanto, attraverso l’incalzare di espressioni bibliche di straordinaria sinteticità e forza. Quel testo poi Pascal lo ricopiò fedelmente su pergamena. Per otto anni, da quella notte di fuoco alla notte del 19 agosto del 1662 in cui spirò, Pascal cucì di volta in volta nella fodera della giacca che indossava il foglio originario ripiegato con cura nella pergamena. La scoperta fu fatta casualmente pochi giorni dopo la morte, da un domestico. La pergamena è andata perduta (essa, però, era stata riprodotta nei minimi dettagli dal nipote di Pascal, Louis Périer); si conserva invece il foglio di carta su cui Pascal tracciò i pensieri che Dio gli ispirò e la nostra traduzione ne rispetta la disposizione. Il documento-preghiera fu ben presto designato col termine «Mémorial (Memoriale)» perché l’autore lo aveva scritto solo per sé e lo aveva custodito con grande cura allo scopo di conservare la «memoria» di un evento che egli voleva sempre presente ai suoi occhi e al suo cuore.

«Lunedì 23 novembre, giorno di S. Clemente papa e martire / e di altri nel martirologio. / Vigilia di S. Grisogono martire, e d’altri. / Da circa le ore dieci e mezzo della sera, fino / a circa mezzanotte e mezzo. / Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, / non dei filosofi e dei sapienti. / Certezza, Certezza, Sentimento, Gioia, Pace. / Dio di Gesù Cristo. / Deum meum et Deum vestrum. / Il Dio tuo sarà il mio Dio. / Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio. / Non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo. / Grandezza dell’anima umana. / Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto. / Gioia, Gioia, Gioia, lacrime di gioia. / Io me ne sono separato. / Dereliquerunt me fontem acquae vivae. / mio Dio, mi abbandonerete voi? / Che io non ne sia separato eternamente. / Questa è la vita eterna, che riconoscano te solo vero / Dio, e colui che tu hai mandato G.C. / Gesù Cristo / Gesù Cristo / Io me ne ero separato. Io l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso. / Che io non ne sia mai separato! / Non si conserva che per le vie insegnate nel Vangelo. / Rinunzia totale e dolce».

È significativo che proprio nella sua più commossa esperienza cristiana, anzi nel cuore di essa, quando si fa luminosa ai suoi occhi la grandezza del Dio vivente («Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei sapienti») e la realtà del peccato, Pascal esclama nel Mémorial: «Grandeur de l’âme humaine!» e afferma il carattere della grandezza come costitutivo dell’umano.

Nel gennaio 1655 trascorse due settimane a Port-Royal e vi incontrò Louis-Isaac Lemaistre de Sacy, confessore delle religiose, con cui ebbe il colloquio (entretien) che il Fontaine, segretario del De Sacy, racconta nelle sue memorie.

La valutazione dialettica che Pascal dà dei suoi due autori preferiti, Montaigne ed Epitteto, e il suo modo di metterli a profitto preannunciano già con chiarezza il disegno di quella che sarà l’Apologia: Epitteto ha riconosciuto le tracce della grandezza dell’uomo prima della caduta, Montaigne ha descritto la sua condizione attuale. Il cristianesimo accorda le due opinioni contrarie, che non sono false che per la loro unilateralità. La Entretien avec M. de Sacy (Conversazione con il signor di Sacy su Epitteto e Montaigne) mostra come Pascal non rinneghi gli autori della sua esperienza mondana, ma cerchi di metterli a profitto, così come non svaluta la scienza ma respinge la ricerca della gloria mondana per mezzo dei successi scientifici e la pretesa di collocare l’intera realtà sotto un principio parziale abbracciato con cieco slancio (pretesa a cui, in verità, non aveva mai ceduto il suo spirito di docilità ai fatti, così lontano dalle pretese cartesiane, e per l’utile ammonimento che gli venne dal cavaliere di Méré).

Nel gennaio 1656 fu qualche giorno a Port-Royal e vi conobbe Antonio Arnauld: l’incontro fu decisivo per la nascita delle Provinciali.

Le Provinciali e il cosiddetto giansenismo di Pascal

Nel 1640 apparve postuma l’opera di Giansenio, vescovo di Yper, amicissimo dell’abate di Saint-Cyran, dal 1635 al 1643 direttore spirituale di Port-Royal: Augustinus … contra pelagianos. Giansenio vi aveva lavorato 22 anni e l’opera ebbe un incredibile successo.

Il contenuto dottrinale del giansenismo si può così riassumere:

– la ragione è madre di tutte le eresie e la vera teologia ripudia il razionalismo scolastico;

– l’uomo a causa del peccato originale è intrinsecamente corrotto, trascinato invincibilmente al male dalla delectatio tenebris, e le sue opere sono peccato (libro IV, e.1) a meno che non intervenga la delectatio coelestis o charitas a determinare infallibilmente e necessariamente la volontà al bene;

– poiché non c’è stato intermedio tra la charitas e la culpabilis cupiditas è peccato tutto ciò che non procede ex fide;

– Dio predestina all’inferno o al paradiso con volontà antecedente ad ogni considerazione di merito e di demerito personale e dà la grazia solo ai predestinati; esiste solo la libertà da coazione esterna e la possibilità di scelta tra questa o quella azione buona o cattiva, ma la condotta umana – nel suo valore complessivo – si palesa come necessità intrinsecamente del bene o del male.

Sotto questo aspetto il giansenismo è un postumo – nell’ambito della Chiesa cattolica – delle eresie provocate dalla riforma protestante. Il contenuto teologico del giansenismo è una interpretazione unilaterale delle opere antipelagiane di Agostino, ma il giansenismo fu seguito e difeso da nobili spiriti per le profonde esigenze religiose che lo animarono: fervida volontà di restaurazione della più schietta esperienza evangelica, intimità di fede, disciplina etica, ascesi.

I molinisti, i quali lottavano contro la «predestinazione fisica» (secondo cui Dio predetermina infallibilmente la libera volontà all’accettazione della sua grazia mediante un influsso entitativo, che muove la volontà prima dell’azione in una direzione piuttosto che nell’altra), in difesa del libero arbitrio affermavano che il decreto di scelta dei predestinati è fatto da Dio in base alla previsione dei meriti della creatura e ricorrevano al concetto di «scienza media», conoscenza divina di ciò che accadrebbe liberamente potendo prevedere – in dipendenza della volontà creatrice – l’avverarsi di un certo gruppo di circostanze (i cosiddetti «futuribili» o futuri liberi condizionati): la volontà universale salvifica di Dio è condizionata, normalmente, dall’uso del libero arbitrio sotto l’influsso della grazia sovrannaturale. I molinisti accusarono i giansenisti di calvinismo predestinazionista. Il sindaco della facoltà teologica di Parigi condensava in cinque proposizioni quella che a suo giudizio era l’eresia di Giansenio e nel 1623 le cinque proposizioni furono condannate da Roma.

Le cinque proposizioni erano le seguenti:

  1. Alcuni precetti di Dio sono impossibili ai giusti mancando la grazia che li rende possibili.
  2. Alla grazia interiore non si resiste mai.
  3. Non si richiede la libertà dalla necessità interna ma solo dalla coazione.
  4. Chi concede all’uomo il potere di resistere alla grazia è semipelagiano.
  5. È errore semipelagiano affermare che Cristo è morto per tutti.

Antonio Arnauld negò che le cinque proposizioni si trovassero nell’Augustinus di Giansenio, pur accettando la condanna delle proposizioni in se stesse. Si poneva così una distinzione tra questione di fatto e questione di diritto. Ma la Sorbona nel gennaio 1656 condannò questo atteggiamento. Antonio Arnauld e Nicole incaricarono Pascal di informare l’opinione pubblica del problema, non per chiamare il mondo a giudice, ma per disingannarlo, mostrando come l’accusa di eresia teologica procedesse da un’eresia di costumi tanto più pericolosa in quanto conforme al naturale pelagianesimo degli uomini e al fondo umano di concupiscenza.

Tra il gennaio 1656 e il marzo 1657 uscirono 18 lettere dette Provinciali, anonime e clandestine, scritte ad un provinciale da un suo amico per informarlo delle dispute delle Sorbona. La prima edizione completa è del 1657.

Nelle prime tre lettere si denuncia con finissima ironia l’abuso di formule astratte e sottili e si vuol far apparire la controversia come «disputa di teologi e non di teologia». Nella quarta lettera Pascal sposta il dibattito dalla teologia dommatica alla teologia morale e affronta il problema della responsabilità dell’azione. Secondo i molinisti un’azione non può essere ritenuta peccato se Dio, con la grazia attuale sufficiente, non dà la conoscenza del male che essa contiene e l’ispirazione che induce ad evitarlo. Pascal trae subito la conseguenza di questa dottrina: quando si è riusciti a vincersi in modo che i vizi hanno prevenuto la ragione e non si riesce a pensare a Dio del tutto, allora ogni cosa diventa pura; i peccatori induriti, pieni e completi, senza rimorso, hanno ingannato il diavolo a forza di abbandonarsi a lui. I libertini si troveranno ad essere i giustificati! Sulla scorta di Aristotele, Pascal osserva che l’ignoranza delle circostanze particolari o ignoranza di fatto rende l’azione involontaria, ma l’ignoranza de iure, di ciò che si deve fare per compiere il proprio dovere, non rende l’azione involontaria, ma soltanto viziosa. «Fare ciò che si era obbligati a non fare è peccato: lo stesso peccato di ignoranza non può essere commesso che mediante la volontà di colui che lo commette», incalza Pascal citando Agostino.

Dalla quinta alla sedicesima lettera, Pascal muove all’attacco della «morale dei gesuiti», con una terribile e mirabile requisitoria contro il probabilismo e la casistica del lassismo. Il principio assoluto del dovere morale e religioso non deve cedere il posto al concetto giuridico del lecito. Pascal denuncia i mali immensi che rappresentano per la coscienza cristiana il prevalere del legalismo sulla moralità, la corrosione della legge etica in favore della precettistica, il rilassamento e la corruzione dei doveri religiosi, la morte d’ogni slancio morale. Quali i risultati di simili premesse? «Peccatori purificati senza penitenza, giusti giustificati senza carità, cristiani senza la grazia di Gesù Cristo, una predestinazione senza mistero, una redenzione senza certezza». La prudenza della carne uccide la carità.

La diciassettesima e le diciottesima lettera riprendono la difesa del giansenismo dall’accusa di eresia e tendono a far propria la posizione fondamentale del tomismo sugli ardui problemi della grazia e della predestinazione. Si avverte già la tendenza a far rientrare il molinismo e il giansenismo nella sua dialettica mediatrice, come due posizioni opposte che trovano nella comune dottrina cattolica di Agostino, rettamente interpretata, e di Tommaso, la loro superiore sintesi nel pieno rispetto sia della trascendenza e del mistero di Dio che della libertà umana.

I quattro Écrits sur la grâce (Scritti sulla grazia), quasi certamente composti nello stesso scorcio di tempo, pubblicati postumi nel 1779, testimoniano nel modo più irrefutabile il superamento della nota calvinista presente in certe tesi gianseniste.

Nicole e Antonio Arnauld avevano fornito a Pascal la documentazione e lo consigliarono nel piano, ma Pascal impresse al lavoro il sigillo del suo genio di polemista e moralista. Pascal scriveva sotto lo pseudonimo di Louis de Montalte e solo nel 1659 le Provinciali furono riconosciute come di Pascal.

Le Provinciali sono un capolavoro della prosa francese; Maurice Blondel vede in esse la festa dello spirito. Romano Guardini giudica che la chiave per interpretare le lettere nello spirito del loro autore sta nel fatto che esse si interrompono quando raggiungono il giusto piano: l’interruzione deve riportarsi a ragioni più profonde che non a semplici considerazioni tattiche. Lungi dal farsi inchiodare al suo punto di vista, Pascal opera un’amplificazione ed un superamento delle posizioni iniziali. Malgrado i grandi meriti, le Provinciali hanno però un lato oscuro, che ne costituisce il limite oggettivo: «l’avversario non viene solo accusato di essersi allontanato dal cristianesimo, ma di aver tradito con consapevolezza per amore di potenza»: ne nasce una lotta in cui la volontà di annientamento del nemico appare giusta. Una conferma di questa tesi interpretativa di Romano Guardini è spontaneamente e indirettamente fornita da un passo della IV lettera in cui Pascal scrive: «è comune vedere i più zelanti essere trascinati nella disputa da moti di acrimonia per il loro stesso interesse, senza che la loro coscienza al momento non testimoni loro altro che essi agiscono in quel certo modo solo nell’interesse della verità, e qualche volta senza che essi se ne accorgano se non dopo molto tempo».

Quando Pascal se ne accorse, seppe tacere. Augusto Del Noce fa notare che le Provinciali, fissando i temi della polemica antigesuitica successiva, trovarono alleati non previsti nel libertinismo e nel pensiero laico, per i quali il giansenismo, ancorché inaccettabile, era pur sempre la rivendicazione di un cristianesimo serio contro il cattolicesimo controriformista.

Il successo mondano e il consenso libertino impressionò i portorealisti e non fu indifferente al fatto che Pascal abbia interrotto la pubblicazione.

Le Provinciali fecero condannare il lassismo, ma non distinsero sufficientemente tra casistica «relaché» (compromesso tra dovere e interesse) e casistica intesa come procedimento mirante a cogliere l’indicazione del dovere concreto nella diversità delle situazioni particolari. La confusione tra lassismo e casistica bene intesa non era nelle intenzioni di Pascal, ma fu un frutto della sua opera polemica ed essa spiega in parte il silenzio della successiva teologia morale rispetto ai problemi suscitati dalle nuove e diverse situazioni politiche, economiche e sociali.

La questione del giansenismo di Pascal fu sentita come centrale, e quindi molto discussa, dagli ultimi decenni dell’Ottocento sino al 1930. La soluzione ormai classica è quella di Maurice Blondel. Indubbiamente il giansenismo con la sua problematica religiosa servì a Pascal da stimolo, ma anche da ostacolo da superare. «Giansenista Pascal lo è stato più di qualunque altro se si tien conto delle ragioni morali e dei pretesti storici del giansenismo; nessuno ha maggiormente sentito il tragico del dramma cristiano, i danni dell’adulterazione morale e religiosa. Ma antigiansenista Pascal lo è stato se si considerano il fondo della dottrina, i metodi di pensiero, lo stile, le disposizioni e gli orientamenti ultimi dell’anima. Il suo antigiansenismo, incosciente dapprima e per lungo tempo, è profondo, personale» (Maurice Blondel, Le giensenisme et l’antigiansenisme de Pascal, in «Revue de métaphisique et de morale» 1923, pp. 159-160).

Si è già visto che sul problema della grazia Pascal sin dalle ultime due Provinciali, e poi sempre più chiaramente, lascia alle sue spalle la dottrina giansenistica e invece di dire che la grazia fa tutto nei suoi eletti senza di loro, figli della collera, e per così dire contro di loro, afferma che la grazia fa tutto con coloro che l’accolgono e per loro, figli di misericordia e d’amore. Pascal ammirerà sempre l’altezza morale del cristianesimo praticato a Port-Royal e la sua lotta contro il lassismo e vorrà essere accanto a Port-Royal in ogni prova; ma il dottrinarismo cavilloso di Giansenio e di Antonio Arnauld, che tratta gli uomini come tante proposizioni, è ciò che più contrario si possa pensare alla mentalità pascaliana. Pascal supera ciò che di erroneo vi è nel giansenismo dal momento in cui comincia a considerare la posizione giansenista e molinista come parti di un’unica compagine, come momenti opposti, aventi ognuna un’anima di verità, ma bisognosi di reciproca integrazione. È l’antitesi di due errori contrari (calvinismo – gesuitismo) stabilita nel Factum pour les curés de Paris, che, secondo la testimonianza della nipote Margherita Périer, Pascal avrebbe giudicato il suo scritto migliore: antitesi che attesta anche la reciproca complementarità delle due diverse concezioni.

Gli scritti minori, la stesura dei Pensieri, la morte

A partire dal 1657, Pascal legge e medita la Bibbia e raccoglie materiale per l’Apologia del Cristianesimo: una sintesi cristiana sorretta dalla più intensa esperienza religiosa e insieme dalla più acuta razionalità, garantita da serietà esistenziale e dal più ampio sguardo dell’intelletto. Si trattava di delineare la verità cristiana sulla base del problema dell’uomo e più precisamente di sviluppare il complesso della verità cristiana sul filo conduttore dell’esistenza umana costruita secondo diversi piani e indagata nel significato profondo dei suoi atteggiamenti fondamentali.

Nel maggio 1658, Pascal espose agli amici di Port-Royal il suo piano (e uno dei presenti fece relazione della conferenza di Pascal). La corrispondenza con Charlotte di Roannez, delicata e sfortunata amica di Pascal nel senso più nobile e antiromantico del termine, annuncia nel tono lo scrittore dei Pensieri; e così pure gli scritti, pubblicati postumi, De l’ésprit géometrique (Sullo spirito geometrico) e De l’art de persuader (L’arte di persuadere). La geometria è la scienza che possiede il vero metodo di condurre la ragione, producendo delle dimostrazioni infallibili per via analitica. Tuttavia neppure la geometria realizza l’ideale di perfezione scientifica in cui tutti i termini del discorso siano noti: occorre necessariamente ammettere dei termini e dei principi primi non suscettibili di definizioni e di prova: di essi abbiamo «certezza» ma non «convinzione». Trattando delle «due infinità» (l’infinità della grandezza e quella della piccolezza) che si riscontrano anche nelle nozioni di tempo, spazio e movimento, Pascal accenna ad un criterio che non è più l’intuizione della mente cartesiana e prelude alla rivalutazione vichiana del verosimile: «l’uomo è sempre disposto a negare quel che gli è incomprensibile; … tutte le volte che una proposizione è incomprensibile, bisogna sospendere il giudizio e non negarla perché tale, ma esaminare il contrario; e se questo si riscontra manifestamente falso, si può arditamente affermare la prima, per incomprensibile che sia». In queste parole è delineata la logica interna del metodo dialettico che Pascal userà egregiamente nello studio dei problemi umani: qui lo spirito geometrico mette capo ad un alto e più complesso modo di giudicare la realtà.

Ne De l’art de persuader si fa ancora l’elogio dello spirito di geometria, ma se ne constata l’insufficienza in tutto ciò in cui sono impegnati i desideri del nostro cuore. L’art d’agréer (l’arte di piacere) è più difficile, è incomparabilmente più difficile dell’art de demontrer (arte di insegnare) perché i principi del piacere sono mutevoli. «Quale che sia la cosa della quale si voglia persuadere, bisogna considerare la persona che si vuol persuadere, della quale bisogna conoscere la mente e il cuore». «Coloro che dicono le stesse cose non le possiedono nello stesso modo» (e qui il paragone, assai discutibile, del valore diverso del cogito in Cartesio e Agostino): bisogna sondare come un pensiero abiti nel suo autore.

Pascal che nel giugno del 1658, sotto lo pseudonimo di Amos Dettonville, aveva bandito un concorso per risolvere diversi problemi riguardanti la cicloide, espose poi le sue soluzioni in una lettera a Carcavi seguita da parecchi trattati sulla geometria infinitesimale: nelle lettera al grande matematico Pierre de Fermat (10 agosto 1660), Pascal definisce il suo atteggiamento ultimo rispetto alla scienza («la geometria è il più bel mestiere del mondo, ma infine non è che un mestiere; è buona per saggiare, ma non per impiegare la nostra forza»).

La salute di Pascal peggiora sempre di più; osservando che la sua formidabile memoria si era indebolita, Pascal decide di affidare alle carte le riflessioni che andava sviluppando sui grandi temi della sua originale apologia del cristianesimo. A questa felice circostanza dobbiamo i Pensieri, un migliaio di annotazioni, di frammenti, taluni appena abbozzati, altri sotto forma di un discorso compiuto ed elaborato, riscritto fino a dieci volte. A quest’ultimo periodo appartengono i Trois discours sur la condition des grandes scritti per un ragazzo d’alto lignaggio, il figlio del duca di Luynes (pubblicati nel 1670 da Nicole Arnauld): i discorsi sviluppano il canone dell’honnête homme, mettendolo in rapporto con l’esistenza cristiana, e pongono il problema della critica e del rispetto delle convenzioni sociali (si rispettino pure le convenzioni sociali, che spesso semplificano utilmente situazioni diversamente problematiche, ma a patto di riconoscerle come «convenzioni»).

Avvenimento importante del suo ultimo anno di vita fu la querelle du Formulaire. L’assemblea del clero francese aveva deciso che ogni ecclesiastico dovesse firmare il formulario che condannava le cinque proposizioni di Giansenio e respingeva la distinzione del diritto e del fatto. Antonio Arnauld e Nicole pensavano che la sottomissione fosse possibile «quanto alla fede» rimanendo impregiudicato il fatto che le cinque proposizioni rispecchiassero effettivamente il pensiero di Giansenio; Pascal giustamente riteneva che la distinzione tra diritto e fatto era esplicitamente esclusa dal formulario e sconsigliò le suore dal firmare. Fra lui e Nicole e Antonio Arnauld si sviluppa allora una polemica che Pascal spinge sino alle sue ultime conseguenze, sino a trovarsi poco lontano dalla rottura non solo con i suoi amici portorealisti, ma con la Chiesa. L’Écrit sur la Signature di Pascal provoca la risposta di Nicole e Antonio Arnauld. La dura replica di Pascal non si fa attendere: il Grand écrit fu di una violenza inaudita.

Nel gennaio 1662 la salute di Pascal precipita. In una discussione con i portorealisti perde i sensi. All’esaltazione della lotta segue la coscienza del pericolo corso: «Pascal compie la sua terza e definitiva conversione» (Romano Guardini, op. cit., p. 248), vince la sua volontà di potenza per mezzo dell’intelligenza. Pascal scorge la possibilità di distinzione che proveniva dal suo stesso essere e conquista un nuovo e più alto modo di concepire la verità. La sua collera va ora «contro quelli che vogliono assolutamente che si creda alla verità che essi proclamano: cosa che Cristo nella sua umanità creata non fece»: «Non abbiamo la missione di far trionfare la verità, ma solo di combattere per essa». La verità fuori dalla carità non è Dio. Pascal dedica sempre più il suo tempo ad opere di carità: ospita nella propria casa una famiglia povera; quando uno dei bambini di tale famiglia si ammala di vaiolo, piuttosto che allontanare il malato (per timore di contagio) preferisce lasciare lui la sua abitazione e trasferirsi in casa della sorella nella parrocchia di Saint-Etienne-du-Mont. Ai primi di luglio la malattia si aggrava. Pascal invoca la comunione, ma i medici, giudicandolo non in pericolo di vita, non danno parere favorevole alla somministrazione del sacramento; Blaise può solo confessarsi, presso il parroco Beurrier. Egli riceve gli amici di Port-Royal, tra i quali Antonio Arnauld. Il 17 agosto le sue condizioni si aggravano ancora; il canonico Paul Beurrier gli porta la comunione. Il 19 agosto Pascal muore; le sue ultime parole sono: «que Dieu ne m’abandonne jamais (che Dio non mi abbandoni mai)».

I TEMI ESSENZIALI DELLA MEDITAZIONE PASCALIANA

La prima edizione dei Pensieri risale al 1669; era preparata da un «comitato» di amici giansenisti (Antonio e Nicole Arnauld, ecc.), scegliendo i brani più compiuti e chiari e raggruppandoli per argomento. Nel secolo scorso Victor Cousin rilevò la necessità di una edizione più completa; la prima integrale è del 1844 (a cura di Armand Prosper Faugère); ad essa seguirono quelle di Léon Brunschvicg (1897: classifica i testi in modo da permettere una lettura sistematica), di Fortunat Strowski (1931), di Jacques Chevalier (1936: intende ricostruire il «piano» di Pascal) e di Louis Lafuma (strettamente filologica 1947-1951). I Pensieri non sono un’accozzaglia di frammenti senza unità, ma non costituiscono neppure un’opera sistematica: se non è possibile ricostruire il piano che Pascal aveva in mente, è però agevole individuare quali sono i temi essenziali della meditazione pascaliana.

Rifiuto del deismo e dell’ateismo (il Deus absconditus)

Il frammento 5 è l’appunto per una prefazione: «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di ragionare dell’uomo e così complicate, che colpiscono poco; e quand’anche servissero ad alcuni, servirebbero solo per il momento in cui essi riescono a cogliere tale dimostrazione, ma, un’ora dopo, temeranno di essersi sbagliati». Sono utili per chi crede. C’è la possibilità teorica di riconoscere dalla osservazione degli «elementi della natura» l’esistenza di Dio, ma si tratta di un «Dio autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico»: il risultato è l’approdo all’incolore Essere assoluto della metafisica, il Dio dei pagani e degli epicurei, il «Dio dei filosofi» ricordato nel Memoriale, il Dio del deismo. «Tutti quelli che cercano Dio fuori di Gesù Cristo, e che si fermano alla natura, o non trovano alcun lume che li soddisfi, o finiscono per formarsi un mezzo per conoscere Dio e servirlo senza mediatore, e con questo cadono o nell’ateismo o nel deismo, che sono due cose che la religione cristiana aborre in modo uguale» (fr. 602).

Il deismo non è un rimedio all’ateismo: l’uno e l’altro sono errori opposti destinati a fungere da trapasso da una ad un’altra forma d’errore (dal deismo all’ateismo il passo è breve). Il deismo è astratta affermazione di Dio senza conoscenza dell’umana miseria: esso non dirige l’attenzione del non credente verso la soluzione cristiana come comportante la scelta tra il tutto e il nulla e l’adorazione di un Dio che è entrato nella storia umana, un Dio che è amore («il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria, e la sua misericordia infinita; che si unisce al più profondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine che non sia lui stesso» – fr. 602). Il deismo non prepara al cristianesimo, il quale non è affatto il deismo «più qualche cosa».

L’ateismo si ferma alla conoscenza della nostra miseria e ignora Dio: ma per quale motivo Dio può non venir conosciuto? Le cose accennano e rimandano a qualche cosa sopra di loro; ma nel momento in cui l’uomo, per sua disgrazia, fa di sé il centro di quanto esiste, le allusioni e i richiami della natura vengono meno e le cose tacciono, inesplicabili. Non è affatto vero che tutto riveli Dio e non è vero che tutto nasconda Dio: ciò che nel mondo appare non indica né un’esclusione totale, né una manifesta presenza della divinità. Tutto porta impresso il carattere di un Dio che si cela: Deus absconditus. «Vi è abbastanza luce per quelli che non desiderano che di vedere e abbastanza oscurità per quelli che hanno una disposizione opposta» (fr. 483). Dio, infatti, «si nasconde a quelli che lo tentano e si rivela a quelli che lo cercano, perché gli uomini sono insieme indegni di Dio e capaci di Dio (capables de Dieu, che rimanda al capax Dei di Agostino): indegni per la loro corruzione, capaci per la loro prima natura» (fr. 603). La presenza di Dio è velata, appare qualche volta ma non sempre (fr. 606); ma questo suo apparire, questa discrezione divina esige purificazione interiore e attesta il rispetto di Dio per la libera decisione con cui l’uomo dice «sì» a Dio e accoglie in sé il dono della fede.

L’anima di vero dell’ateismo è espressa dal cristiano così: l’uomo è indegno di Dio; l’anima di vero del deismo è: l’uomo è capace di Dio. I loro aspetti di verità sono uniti e conciliati nel cristianesimo. La vera religione non è contraria alla ragione. Pascal, accusato di fideismo (colui che per disperazione si dà alla fede secondo l’interpretazione romantica echeggiata da Miguel de Unamuno), non è affatto nemico della ragione. Egli traccia una critica della ragione asservita all’immaginazione (fr. 92), agli interessi utilitaristici («il nostro proprio interesse è un altro meraviglioso strumento per cavarci piacevolmente gli occhi»), agli errori e ai pregiudizi. Egli se la ride della «superstizione» della ragione razionalistica, ma ha rispetto della ragione: ogni pregiudizio dissipato non è pur sempre opera della ragione? La ragione libera, non asservita neppure a se stessa, riconosce i suoi limiti i quali meglio attestano il suo possesso, così come è mirabilmente espresso nel frammento 466: «L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano». Pascal segue su questo argomento Agostino: «La ragione non si sottemetterebbe mai, se non giudicasse che si danno casi in cui deve sottomettersi. È dunque giusto che si sottometta, quando giudica di doversi sottomettere» (fr. 462). I rapporti tra ragione e fede risultano così delineati nel fr. 4: «Se si sottomette ogni cosa alla ragione, la nostra religione non avrà nulla di misterioso e di soprannaturale. Se si rifiutano i principi della ragione, la nostra religione sarà assurda e ridicola». Pascal respinge la presunzione del razionalismo e lo scettico irrazionalismo del fideismo.

L’uomo e la sua posizione nell’universo

L’uomo qual è realmente non può essere compreso col semplice concetto, ma attraverso una struttura dialettica la quale unisca insieme il molteplice e il contrastante. Il concreto dell’uomo per Pascal si può cogliere soltanto nel reciproco determinarsi di momenti dialettici. Ma come cogliere l’uomo attraverso i due estremi contrapposti? Lo stato dell’uomo è in realtà un «processo», una natura che sta nel moto (fr. 198: «La nostra natura è nel movimento; il riposo totale è la morte»), e dunque il suo è uno stato di sospensione, un continuo tendersi di fattori molteplici da ricomporre in unità.

L’uomo esiste in uno stato di sospensione e non solo a causa delle sue tensioni interiori: è la stessa condizione del suo essere e del suo pensiero che lo pone in bilico tra il finito limitato e l’infinito illimitabile. Già nel concepire la serie numerica l’uomo sa di poter continuare all’infinito, verso il più e verso il meno, senza che si raggiunga mai una fine. Allo stesso modo di qualsiasi numero, anche per lo spazio e il tempo esiste sempre una misura più grande e uno più piccola. Insomma «ci sono proprietà comuni a tutte le cose, la cui conoscenza apre lo spirito alle più grandi meraviglie della natura».

E la più importante delle proprietà comuni che, pur riguardando tutte le cose, getta luce sulla condizione umana, è la duplicità di forme in cui l’uomo incontra l’infinito: quella del grande, l’infinitamente grande, e quella del piccolo, l’infinitamente piccolo. «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile. Egli è ugualmente incapace di scorgere il nulla, da cui è tratto, e l’infinito in cui è inghiottito» (fr. 84).

E ancora: che cosa è l’uomo nella serie dei secoli passati e di quella dei secoli a venire? «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissati nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?» (fr. 88). Il senso della finitezza dell’uomo (Romano Guardini parla di «finitismo tragico») è tale che l’esistenza sembra scivolare nella contingenza e nella casualità del qui piuttosto che là, dell’ora piuttosto che allora o mai.

Di fronte alla contingenza del cosmo e alla contingenza del qui e dell’ora, come può l’uomo sollevarsi? L’ethos della finitudine diventa esso stesso argomento di prova della grandezza dell’uomo, come mirabilmente affermato nel frammento 264. «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante (un roseau pensant). Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che l’uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale». E il fr. 265 precisa: «Non è nello spazio che io devo cercare la mia dignità, ma nel retto esercizio del mio pensiero. Non avrei nessuna superiorità, possedendo la terra. Con lo spazio, l’universo mi comprende e m’inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo».

Ma Pascal continua il suo scandaglio sull’uomo, e sulla spaventosa distanza nell’arco delle sue opposte possibilità di esistenza. L’uomo ha una sua realtà: «non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuole fare l’angelo faccia la bestia» (fr. 329). Abbiamo visto come sia nato per pensare e come il suo dovere stia nel pensare rettamente. Pure il suo compito e la sua propria dignità sono esposti allo scacco: lo spirito umano, cadendo in contraddizione nei riguardi del suo stesso valore, a causa del male diventa problematico nell’ordine stesso dell’essere.

Di fronte alla potenza delle forze esteriori, Pascal rivendica la dignità e l’indistruttibilità dello spirito. Ora, però, a causa del male, la forza stessa del pensiero e dello spirito diviene problematica. Dall’esperienza del male nasce un nuovo e più drammatico stato di sospensione, così potentemente espresso nei frammenti 275, 388 e 318. «L’uomo non sa quale rango assegnarsi. È visibilmente smarrito, e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Lo cerca dappertutto con inquietudine e senza successo, in tenebre impenetrabili» (fr. 275).

La natura specifica dell’uomo è per suo intrinseco carattere posta nel rischio e di conseguenza esposta, sin dall’inizio, a possibilità tragiche: l’uomo è paradosso, è mistero a se stesso; a lui è imposto di poter esistere soltanto o al di sopra o al di sotto di sé; «l’homme passe infiniement l’homme (l’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo)» (fr. 438), perché si realizza autenticamente soltanto ponendo in Dio il livello dei suoi valori e la norma della sua vita, con l’essere ciò che Dio vuole che sia, ad Deum creatus, ordinato cioè a Dio.

La miseria dell’uomo (le divertissement e l’ennui)

Pascal si chiede nel frammento 415: «Se l’uomo non è fatto per Dio, perché non è felice che in Dio? Se l’uomo è fatto per Dio, perché egli è così contrario a Dio?».

Il nodo di tutti i problemi sta nel fatto che l’uomo è soggetto di contraddizioni: la contraddizione è essenziale all’uomo, «gloria e rifiuto del mondo». Bisogna render conto della sua miseria e della sua grandezza: tutto ci attesta che l’uomo non è quel che dovrebbe essere.

L’analisi della miseria dell’uomo svolge, per quel che riguarda la verità, il tema delle «facoltà ingannatrici (puissances trompeuses)», che sono l’immaginazione, il costume e l’amor proprio.

L’immaginazione allarga la nostra conoscenza (fr. 72), ma è anche fonte di inganno: «L’immaginazione ingrandisce gli oggetti piccoli fino a riempirne la nostra anima, con una valutazione fantastica; e, con una insolenza temeraria, rimpicciolisce quelli grandi sino a portarli alla sua misura, come fa parlando di Dio» (fr. 84).

Il costume trasforma in nessi necessari delle associazioni accidentali. Nell’uomo la natura non ha lo stesso significato che nell’animale, in quanto non è solo il complesso delle premesse semplicemente date, ma è anche spirito e libertà. Ma nella condizione attuale dell’uomo, caratterizzata da confusione e smarrimento, la naturalezza dell’uomo – quella capacità intima di schiettezza del pensiero, del sentimento, dell’operare di cui Pascal parlava ne L’arte di persuadere e nei frammenti 68 e 106 – è un valore assiologico, un dover essere, piuttosto che un qualcosa di armonico e di costante, di costitutivo: «Non c’è nulla che non si possa rendere naturale; non c’è nulla di naturale che non si possa far scomparire» (fr. 121). «Ho gran paura che questa natura non sia essa stessa altro che una prima consuetudine, come la consuetudine è una seconda natura» (fr. 120). Nel frammento 230 è detto: «Ci sono senza dubbio leggi naturali, ma questa bella ragione corrotta ha tutto corrotto». E così anche nella vita sociale: «La consuetudine fonda tutta l’equità, per questa sola ragione che da tutti è accettata: è il fondamento mistico della sua autorità», pertanto – continua il frammento 230 – «l’arte di fare la fronda, di sovvertire gli Stati, consiste nello scuotere le consuetudini vigenti, frugando fino alla loro origine, per rivelare che mancano di autorità e di giustizia».

«La natura dell’amor proprio e di questo io umano è di non amare che sé e di non considerare che sé» (fr. 130); tutto il suo impegno sta «nel coprire i propri difetti agli altri e a se stesso, e non può tollerare che glieli vengano mostrati né che vengano mostrati ad altri». Per questa «ingiusta e criminosa» passione, il nostro «io odioso» (le moi haissable) lavora incessantemente a costruire un’immagine fittizia di sé, e la sincerità è necessariamente bandita dalla convivenza, la quale, pertanto, è possibile solo al livello di un vicendevole inganno («non si fa che ingannarsi a vicenda e adularsi a vicenda»): «non è forse vero che odiamo la verità e coloro che ce la dicono, e ci fa piacere che essi s’ingannino a nostro vantaggio, e vogliamo essere stimati da loro diversamente da quel che siamo in realtà»? Fr. 145: «Noi non ci accontentiamo della vita che abbiamo in noi e nel nostro proprio essere: vogliamo vivere, nel concetto degli altri, di una vita immaginaria e per questo ci sforziamo di “parere”. Lavoriamo senza posa ad abbellire e a conservare il nostro essere immaginario e trascuriamo quello vero».

L’uomo ha la stessa incapacità per quel che riguarda il bene, dominato com’è da tre concupiscenze: della carne (ricchezza e piacere), degli occhi (l’orgoglio dell’intelletto), e della volontà (libido dominandi). Si tratta della concupiscenza in senso stretto, fine a se stessa e paga solo della sua incontentabilità, orgoglio di chi vanta la sua autosufficienza da «saggio» (fr. 698). Alle tre concupiscenze fan riscontro, quali tipicizzazioni ideali corrispondenti, le tre scuole di filosofi: l’epicureismo, il razionalismo dogmatico, lo stoicismo.

L’uomo dovrebbe propriamente essere capace di «sedere tranquillo nella sua stanza», cioè di guardare in faccia ciò che egli è e ciò che le cose sono. Ma egli non può far questo perché, non appena si riposa e si raccoglie, si fa chiaro alla sua coscienza il lato tormentoso, miserabile della sua esistenza. Cosi egli fugge di fronte a se stesso nella distrazione, del divertissement.

Frammento 213: «Gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci». Frammento 217: «L’unico sollievo delle nostre miserie è il divertimento, e, tuttavia, esso è la nostra più grande miseria. Infatti, è soprattutto il divertimento che ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta insensibilmente alla perdizione. Senza di esso saremmo immersi nella noia e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più consistente per uscirne. Ma il divertimento ci diletta e ci fa giungere inavvertitamente alla morte». È l’impulso al divertimento che sta dietro l’ideale dell’honnête homme di Méré; è l’impulso al divertimento che fa cercare il rumore e il movimento e «tender così al riposo attraverso l’agitazione»: «ragion per cui si gusta più la caccia che la preda» (fr. 205).

Ma neppure il divertimento può guarire l’infelicità dell’uomo: «la noia, di sua propria iniziativa, non tralascerebbe di sorgere dal profondo del cuore, in cui ha radici naturali, e di riempire l’animo del suo veleno. Così l’uomo è tanto infelice che si annoierebbe perfino senza alcun motivo di noia, per la natura della sua indole; ed è talmente vano che, pur essendo pieno di mille motivi di noia, la minima cosa, come una palla e un biliardo per tirare, bastano a svagarlo» (fr. 205).

La noia diventa il termine metafisico ultimo per esprimere la condizione dell’uomo: l’insufficienza non solo, ma l’insopportabilità di ciò che è.

La soluzione dell’enigma umano nella verità cristiana

«La miseria (dell’uomo) nasce dalla sua grandezza» (fr. 314). «L’uomo è grande perché si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili: ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili» (fr. 255). «Quanto più si fa luce negli uomini, tanto più essi trovano miseria e grandezza nell’uomo. In una parola, l’uomo sa di essere miserabile: egli è dunque miserabile, perché lo è, ma è ben grande, perché lo sa» (fr. 416). «Qual chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, qual caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, debole verme della terra; depositario della verità, cloaca di incertezze e di errori; gloria e rifiuto dell’universo» (fr. 434). L’uomo ha una duplicità di aspetti nella sua natura per cui è degno di amore e di disprezzo, aspira alla verità e la fugge, cerca il bene ma, avendone smarrito l’idea, assolutizza ora questo ora quel bene e si ischiavisce nella sua concupiscenza, la cui potenza di applicazione è già di per se stessa prova di una grandezza deviata. «Questa duplicità dell’uomo è così evidente, che vi è chi ha pensato che noi abbiamo due anime» (fr. 417). Le filosofie perdono di vista questa contraddizione. Per quel che riguarda la ricerca del vero esse si dividono in scetticismo (pirroniani) e razionalismo (i dogmatici): ed entrambe le scuole si lasciano sfuggire la realtà dell’uomo, perché non ne vedono che un aspetto. «La natura confonde i pirroniani e la ragione confonde i dommatici» (fr. 434). Per quel che riguarda il sommo bene le filosofie si distinguono in epicureismo e in stoicismo. Ma né l’edonismo dell’uno, né l’astratta autosufficienza proclamata dall’altro riescono a rendere felice l’uomo. « La felicità non è né in noi, né fuori di noi: è in Dio, sia fuori che dentro di noi» (fr. 465). Non basta che l’uomo rientri in se stesso: è necessario che si oltrepassi. Per un bisogno irrefrenabile ci eleviamo: «Nonostante la vista di tutte le nostre miserie, che ci serrano, che ci soffocano, noi abbiamo un istinto che non possiamo reprimere, che ci eleva» (fr. 411). Lo stoicismo corregge l’illusione edonistica, lo scetticismo di Montaigne cura l’orgoglio di Epitteto, e la ragione basta a confutare la assoluta negatività di ogni posizione scettica. Soltanto la religione cristiana è in grado di spiegare la duplicità dell’uomo creato da Dio, simile a Dio (e in ciò è la sua grandezza) e, nello stesso tempo, per il peccato, in uno stato di ribellione a Dio (e in ciò è la sua miseria). «Perché una religione sia vera, bisogna che abbia conosciuto la nostra natura. Deve averne conosciuto la grandezza e la miseria, e la ragione dell’una e dell’altra. Chi l’ha conosciuta se non la cristiana?» (fr. 433). La dottrina del peccato e della comune solidarietà in esso rappresenta la chiave di volta per capire l’uomo e tutto ciò che abbiamo davanti agli occhi: «senza questo mistero noi siamo incomprensibili a noi stessi» (fr. 434). L’uomo è l’unico essere infelice che sa di esserlo perché è nato per la felicità. «Noi siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità, e siamo incapaci della certezza e della felicità» (fr. 437). «In Gesù Cristo si risolvono tutte le contraddizioni» (fr. 684); «fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la vita, la morte, né Dio, né noi stessi» (fr. 527): egli solo scioglie la cecità dello spirito nei riguardi di Dio, perché in lui troviamo Dio e la nostra miseria. Conoscere Dio senza la nostra miseria genera orgoglio, conoscere la nostra miseria senza Dio genera disperazione. Cristo solo ha vinto orgoglio e disperazione, ed ha insegnato agli uomini un’umiltà senza illusioni e un nuovo, impareggiabile senso della loro dignità.

Coloro che cercano Dio fuori di Cristo pretendono di farsi rivelatori di Dio agli uomini, e credendo di ridurre l’Assoluto e l’Infinito nei limiti ristretti della loro ragione, sono adoratori di se stessi e non adoratori di Dio. Fermarsi alla natura o al livello della sola ragione significa esporsi a cadere o nell’ateismo o nel deismo: Dio è infinitamente al di sopra della nostra natura, dunque ci si unisce a Dio per grazia e non per natura. La rivelazione di Dio è da Dio: il suo annuncio scuote l’uomo, lo invita a sorpassarsi infinitamente e provoca uno stato di sospensione in cui si genera il «sì» e il «no». In conclusione, i dati innegabili dell’enigma umano sono miseria e grandezza, indistinguibili pur nella loro opposizione. L’uomo è un nodo di contraddizione, degno di amore e di disprezzo, gloria e rifiuto del mondo, aspira alla verità e la fugge, cerca l’Assoluto e idolatra il finito, mistero e paradosso a se stesso, «è un mostro incomprensibile» (fr. 420). Reale è la duplicità dell’uomo. Vera sarà soltanto quella concezione che dà pienamente ragione di essa. L’orgoglio stoico e il razionalismo moderno guardano solo a ciò che fa la grandezza dell’uomo: e fanno dell’uomo un «dio mortale». Il pessimismo e lo scetticismo guardano solo a ciò che fa la miseria dell’uomo e proclamano il non-senso della vita, l’ateismo come esito logico, l’assimilazione dell’uomo alla bestia, la disperazione come conseguenza inevitabile. Le filosofie della realtà umana non vedono che un aspetto: o la grandezza o la miseria e non sono in grado di spiegare né l’una né l’altra.

Il cristianesimo solo rende conto della duplicità costitutiva dell’uomo fino in fondo, spiega le contraddizioni dell’uomo e quelle contraddizioni risolve. L’anima di vero dell’ateismo, dello scetticismo, del pessimismo il cristiano la esprime così: l’uomo è divenuto indegno di Dio a causa della sua condizione. L’anima di vero dello stoicismo, delle filosofie razionalistiche e idealistiche il cristianesimo la esprime così: l’uomo è capace di Dio in virtù della sua origine da Dio. L’uomo è creato da Dio e simile a Dio e in ciò sta la sua grandezza; l’uomo, per il peccato, è in uno stato di ribellione e di contrarietà a Dio e in ciò sta la ragione della sua miseria. Capace di Dio per la creazione, indegno e lontano da lui per il peccato, l’uomo tanto conosce Dio quanto penetra la sua condizione. Quindi colui che ha rilevato il volto di Dio all’uomo, Gesù Cristo, è colui che ha aperto all’uomo gli occhi per conoscere se stesso.

I tre ordini

Secondo Pascal tre sono gli ordini di realtà: corpi, intelletto, carità. «La distanza infinita che corre tra il corpo e l’intelletto simboleggia la distanza infinitamente più infinita che corre tra l’intelletto e la carità, poiché essa è soprannaturale. Tutto lo splendore delle grandezze terrene non ha lustro per coloro che sono impegnati nelle ricerche dell’intelletto. La grandezza delle persone d’intelletto è invisibile ai re, ai ricchi, ai capitani, a tutti questi grandi della carne. La grandezza della saggezza, che è inconsistente se non viene da Dio, è invisibile ai carnali e agli uomini di scienza. Sono tre ordini di genere differente» (fr. 793). Le grandezze esteriori (politiche, sociali, economiche), malgrado la loro apparenza, non hanno alcuna attrattiva per coloro che si sono dati alle ricchezze intellettuali. I grandi della carne (ricchi, re, potenti, ecc.) non hanno occhi per la grandezza delle persone che vivono la vita dell’intelletto, ma la grandezza che viene da Dio è misconosciuta ai carnali e agli stessi uomini di pensiero. «Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni non valgono il più piccolo degli intelletti; poiché l’intelletto conosce tutte queste cose e se stesso, i corpi nulla. Tutti i corpi insieme e tutti gli intelletti e tutte le loro produzioni non valgono il più piccolo moto di carità: è di un ordine infinitamente più alto. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far uscire un piccolo pensiero; ciò è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli intelletti, non si potrebbe trarre un movimento di vera carità; ciò è impossibile, e di un altro ordine, soprannaturale» (fr. 793). La differenza è netta, qualitativa: pure «se di tutto c’è un unico principio, di tutto un unico fine: tutto attraverso lui, tutto per lui» (fr. 489). «Gesù Cristo è il fine di tutto, è il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose» (fr. 556). Cristo infatti è il fondamento della creazione, il Logos: in lui è il canone della retta esistenza. Egli è il punto di relazione degli elementi che, presi a sé, stanno su piani ontologici e assiologici diversi. Noi comunichiamo con Dio attraverso Cristo: il problema, dunque, se vogliamo evitare le insufficienze del deismo, concerne le prove della divinità di Cristo. Frammento 433: «Perché una religione sia vera, bisogna che abbia conosciuto la nostra natura. Deve averne conosciuto la grandezza e la miseria, e la ragione dell’una e dell’altra. Chi l’ha conosciuta, se non la cristiana?». La parola di Gesù attesta la sua divinità: «Gesù Cristo ha detto le cose grandi così semplicemente che sembra che non le abbia pensate, e nondimeno così nettamente che si vede bene cosa ne pensava. Tale chiarezza unita a tale candore è mirabile» (fr. 797). Il problema investe anche le prove storiche quali il miracolo e le profezie. Ma in siffatte verità non si può parlare di un’evidenza valida per tutti, quali che siano le disposizioni del cuore e il desiderio di conoscere la verità. Dio si rivela a coloro che lo cercano gemendo e acceca i superbi che in ogni cosa non cercano che se stessi. La vita cristiana richiede un continuo processo di conversione perché alla sua base non c’è né l’evidenza richiesta dal razionalismo, ignaro dei limiti della condizione umana di fronte alla realtà di Dio, né quella completa oscurità che giustificherebbe l’ateo. Chiave dell’Antico Testamento è il Nuovo: i particolari materiali che in quello vi sono narrati devono venir considerati come figure e preannuncio delle verità di questo. In tal senso si può parlare della «perpetuità» del cristianesimo nelle due forme storiche del giudaismo e del Nuovo Testamento.

Esprit de géometrie ed ésprit de finesse

Vi sono evidenze diverse da quelle di tipo geometrico? Pascal espone nel Discorso sulle passioni d’amore e in alcuni celebri frammenti quelli che potremmo chiamare i punti fermi della sua gnoseologia asistematica. Ci sono diversi gradi del conoscere. Il grado superiore comprende l’inferiore e il punto di vista più alto porta ad una conoscenza più intima e più semplice. Ma per evitare il pericolo di adulterare la realtà con precostituite simmetrie di concetti, sarà sempre bene esaminare una qualunque realtà da infiniti punti di vista differenti: la convergenza di prospettive diverse permette di conoscere ciò che non può raggiungere da sola la diretta osservazione e lo stesso ragionamento.

Dei tanti ésprits con cui si colgono aspetti particolari della verità, due sono fondamentali: l’ésprit de géometrie (spirito di geometria) e l’ésprit de finesse (spirito di finezza). Il primo è l’ésprit della scienza ed esige un procedere saldo e sicuro da pochi principi a conclusioni necessarie; il secondo si fonda sulla convergenza di indizi e prospettive diverse e si applica ad un piano più comprensivo e complesso: è l’ésprit con cui si deve guardare al mondo umano e alla vita. Ognuno dei due ésprits vale nel suo ordine, va applicato nel suo ordine, senza confusioni di sorta, però l’uno e l’altro si completano a vicenda. «Nello spirito di geometria, i principi sono palpabili, ma lontani dall’uso comune, di guisa che si fa fatica a volger la testa da quella parte, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si rivolga lì, i principi si vedono compiutamente… Ma nello spirito di finezza, tutti i principi sono nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volger la testa né sforzarsi; non c’è bisogno che di avere buona vista, ma che sia davvero buona: perché i principi sono tanto slegati e in sì gran numero, che è quasi impossibile che non ne sfuggano. Ora, l’omissione di un principio trae all’errore: dunque, bisogna aver la vista ben lucida per scorgere tutti i principi ed inoltre bisogna avere lo spirito sano per non ragionare scorrettamente sui principi che si son conosciuti» (fr.1). Anche nel dominio della geometria e del pensiero si presuppone il cuore, ossia lo spirito sollevato alla chiarezza dell’intuizione dei primi principi. Ma il cuore è più propriamente organo dell’ésprit de finesse, intuizione del carattere assiologico degli esseri e delle azioni umane. Esso è inoltre preparazione a comprendere l’ordine della carità, la cui comprensione avviene però per grazia.

La distinzione tra i due ésprits ha grande importanza anche per il pensiero religioso di Pascal. Infatti come la vera morale nella ricca concretezza del suo attuarsi non è schiava della legge e si burla della morale astratta fatta di regole e precetti, così la religione del cuore si burla di quella dell’astratta ragione. «A coloro che non hanno la religione, noi non possiamo darla che per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio gliela doni per sentimento di cuore».

L’argomento della scommessa

L’argomento della scommessa è assai discusso, anche se ci sembra che Pascal non vi annettesse un’importanza così decisiva nell’economia della sua apologetica, come alcuni interpreti sostengono. De Unamuno vede nell’argomento del pari la prova della tragedia pascaliana, essendo Pascal un credente non convinto di Dio. In realtà il frammento 233 non rappresenta affatto il fondamento della fede di Pascal: l’argomento è diretto a quelle persone che, non essendo convinte delle prove della religione e ancor meno delle ragioni degli atei, rimangono sospese tra l’incredulità e l’adesione alla religione cristiana (Jacques Chevalier, Sciacca). La scommessa non si pone come la risposta all’interrogativo dell’uomo. Esso è la proposta fatta a chi non crede in quanto persuaso che Dio non si possa dimostrare. Ecco la struttura logica dell’argomentazione, la quale fa posto anticipatamente ad ogni obiezione scettica.

  1. Se c’è un Dio, egli è incommensurabile per noi esseri finiti, e noi non possiamo in modo convincente sapere se e che cosa egli sia. Questa incommensurabilità ha per noi lo stesso significato che ha una decisione nel gioco d’azzardo.
  2. Obiezione: nell’impossibilità di un giudizio è bene astenersi dal decidere. Risposta: non puoi sottrarti alla scelta; la vita per sua natura ti costringe a scegliere. Se tu ti astieni, hai già deciso negativamente. Non il decidere, ma il modo di decidere è lasciato alla tua libertà.
  3. Dovendo «scommettere», è ragionevole fare il calcolo delle probabilità. Orbene, è questo calcolo che dimostra l’ateismo come l’ipotesi proibita perché razionalmente assurda. Il rapporto tra le due grandezze che si contrappongono Infini – Rien (Infinito – Niente) è tale che l’unica cosa ragionevole è il rischio in favore di Dio. Dove è più grande ciò che si rischia, lì c’è anche la più alta verità. Sorge subito una prima questione: nel frammento 233 i piaceri della vita che si dovrebbero mettere in gioco sono considerati un puro nulla o sono qualcosa? Un discorso in termini di scommessa implica che si metta in rischio qualcosa. I beni della vita non sono niente, anche se minacciati di nullità e di adulterazione. I beni finiti sono qualcosa, anche se, commisurati con l’Infinito, appaiono come un nulla. Una seconda questione: quante sono le possibilità di guadagno e di perdita della scommessa? Pascal propone all’incredulo tre ipotesi possibili circa le chances favorevoli o no all’esistenza di Dio: esse possono pareggiarsi, ci può essere una probabilità di guadagno e un certo numero di probabilità di perdita e, infine, Pascal concede anche l’ipotesi che le probabilità contrarie siano infinite contro una sola favorevole. Anche in quest’ultimo caso, secondo Pascal, la proposta della scommessa regge.

La metanoia religiosa

Dio non si conquista una volta per tutte. La metanoia è penosa perché «noi non soffriamo che in proporzione al vizio che ci è connaturale, e che resiste alla grazia soprannaturale». Il cuore si sente lacerato da due sforzi contrari, ma sarebbe molto ingiusto attribuire questa violenza a Dio che ci attira, invece di attribuirla al mondo che ci trattiene (fr. 723). Pascal ha messo in evidenza l’interiore lotta per cui la santità di Dio ci attira, perché siamo fatti per Dio, e ci irrita, ci ripugna, perché siamo in uno stato di ribellione radicale. Da questa situazione è facile vedere che bisogna fare sforzi sempre nuovi per acquistare una perenne novità di spirito. Vigilare e purificare senza posa il nostro interno, però, non basta: per non lasciarci autoingannare persino nell’intimità della nostra coscienza, esaminiamo il nostro reale comportamento, il modo di vivere effettivo come ci viene offerto dalle nostre azioni nella loro interiorità. Allo stesso modo «bisogna far ricorso all’abitudine una volta che l’intelletto abbia visto dove sta la verità, per abbeverarci e impregnarci di questa credenza che ci sfugge ogni momento; perché aver sempre presenti le prove è troppo difficile» (fr. 470). Strumento della persuasione non è solo la dimostrazione (le prove convincono solo l’intelletto); l’abitudine piega l’automa che è in noi e costruisce un complesso organico di forme di comportamento atte a sorreggere lo spirito nel suo sforzo di ascesa.

PROBLEMI DELLA CRITICA PASCALIANA

Il rapporto con il razionalismo cartesiano e l’esistenzialismo

Insostenibile è l’interpretazione scettica e fideistica di Pascal. In lui si ha l’estensione massima del razionalismo critico, con la rinuncia all’eccezione cartesiana nei riguardi delle verità di fede.

Ma mentre il razionalismo cartesiano tende a fare a meno di Dio, approdando ad una concezione deistica – il Dio degli elementi di natura richiesto per spiegare il movimento e garantire le verità geometriche – il razionalismo critico di Pascal è d’ispirazione intimamente agostiniana. Inoltre Cartesio è per un unico metodo universale di applicazione di tipo matematico, mentre Pascal è per la distinzione dei metodi rispetto alle differenze e agli ordini di realtà, rigettando «les principes à tout faire, d’ou l’on peut tout deduire (i principi onnicomprensivi da cui si può tutto dedurre)».

Pascal è il fondatore della geometria proiettiva ed è sperimentatore e metodologo delle scienze di tipo galileiano; Cartesio inizia la matematica formale e simbolica, ma tratta spesso i problemi sperimentali con mentalità deduttivistica.

Con ciò non si nega l’influsso di Cartesio su l’assai più giovane Pascal: «anche Pascal pone il criterio della verità e della certezza nell’evidenza, ricusa validità teoretica al principio d’autorità, considera l’ordre de la géometrie come la più alta espressione dei poteri della ragione, bandisce dalla natura ogni forma sostanziale e ritiene i fenomeni interpretabili scientificamente solo in quanto ricondotti a relazioni matematiche» (Paolo Serini).

Ma Pascal ha ciò che manca a Cartesio: egli ha cercato di scoprire dove sta l’essenza umana e cristiana di questa vita e «la sua opera è il Novum Organum del mondo degli uomini» (Michele Federico Sciacca). «Non è Pascal una guida metodica, ma una forza, una luce che scuote, agita, mette in moto. Pascal appartiene a quella cerchia di spiriti, tra loro profondamente diversi, dei quali il primo è Socrate» (Romano Guardini, op. cit., p. 14).

La concezione pascaliana dell’uomo è disillusa, grandiosa, cupamente realistica e rappresenta la contrapposizione più netta ad ogni umanesimo naturalistico e ottimistico.

Ma il realismo pessimistico di Pascal è della più alta specie, perché legato alla più intensa volontà spirituale: e ciò è provato anche dal fatto che Pascal isola e salva e approfondisce in Montaigne – lo scrittore a cui si sentiva più vicino – il motivo esistenzialista impedendo il suo rovesciamento scettico. La critica della ragione illuministica non si lascia irretire dallo scetticismo e dal fideismo.

Che cosa vuol dire che l’esistenzialismo prende inizio da Pascal? Pascal non è Kierkegaard e il suo senso della trascendenza fu elevato, ma non ha nulla a che fare con la tesi della assoluta incommensurabilità ed eterogeneità tra l’uomo e Dio.

Altri lo avvicinano a Nietzsche, scorgendo in lui un titanismo che rifiuta la fede, ma Nietzsche ebbe profonda coscienza di rovesciare la posizione pascaliana che, per lui, era inconfutabilmente quella di «un grande cristiano».

È invece fondato il giudizio oggi corrente, secondo cui con Pascal prenderebbe inizio nella filosofia moderna l’esistenzialismo teologico: esclusione del cosmologismo e dell’ontologismo, senso drammatico e tragico della vita umana, la sua ambiguità fondamentale, la fuga dall’autentico nel divertissement, l’ennui, la necessità dell’opzione sono categorie esistenzialiste che Pascal approfondisce mirabilmente, ma esse trovano la loro più piena intelligibilità solo nella verità cristiana. Nata nell’intimo travaglio della sua vita, la filosofia pascaliana è classica nel senso che, pur essendo personale, essa sa rivolgersi a tutti gli uomini e costituisce un bene proprio di ciascuno di essi.

Pascal in prospettiva marxista

In Temps modernes del febbraio 1956 Jean-Paul Sartre pubblicava un articolo in cui, dopo aver proclamato in modo inequivocabile la sua adesione al marxismo («le marxisme n’est pas seulement une philosophie: c’est le climat de nos idées; c’est lui seul qui permet de comprendre les hommes, les ouvres et les événements – il marxismo non è solo una filosofia: è il clima in cui vivono le nostre idee, ciò che solo permette di comprendere gli uomini, le opere e gli avvenimenti») rimproverava fraternamente agli intellettuali comunisti di non avere il coraggio di applicare alla storia il metodo dialettico, di non aver tentato di mettere «en prospective marxiste» nessuna figura di rilievo delle cultura francese ed europea.

Contemporaneamente all’articolo di Sartre, nello stesso febbraio del ‘56, Lucien Goldmann discuteva alla Sorbona una biografia marxista di Pascal dal titolo Le Dieu caché. Il presupposto dottrinale, da cui parte lo studioso marxista, è affermato esplicitamente: il marxismo non è una, ma la spiegazione della storia, la sola capace di includere in sé e sorpassare qualsiasi precedente o diversa analisi della condizione umana: dunque, anche l’apologia pascaliana del cristianesimo può e deve trovare la sua spiegazione e il suo superamento nel materialismo storico. Per il marxista non c’è che una risposta per tutti i problemi, il determinismo dei rapporti economici, e l’intellettuale marxista, per quanto tributario della tradizione culturale europea, più è coerente alle premesse, più somiglia al medico che in tutte le malattie credesse di ravvisare una stessa patologia.

Ma come vedere in Pascal un precursore di Marx? Si deve riconoscere che il Goldmann ha scelto un autore che non gli facilita per nulla il compito e che la sua tesi è sviluppata con grande ingegnosità.

All’analisi dell’interpretazione marxista di Pascal André Blanchet dedica in Etudes del marzo 1957 (Pascal est-il précurseur de Karl Marx?, pp. 321-337) un acuto saggio, di cui intendiamo cogliere qui solo i passaggi più importanti.

Su che cosa il Goldmann ha fondato la sua tesi, quali ne sono le motivazioni essenziali? Pascal – afferma l’intellettuale marxista – ha dell’esistenza una visione tragica e la sua grandezza unica è quella di rifiutare ogni accomodamento borghese, vivendo sospeso tra il silenzio di Dio e quello del mondo («Deus absconditus», «univers muet»), tra l’Essere infinito che per l’uomo è praticamente niente e il niente del mondo: di qui la consapevolezza ch’egli ebbe delle irriducibilità delle contrastanti aspirazioni dell’uomo, aspirazioni di cui pure volle la conciliazione.

Il pensiero tragico di Pascal è dunque una tappa verso il pensiero dialettico di Hegel e di Marx: il «positivo» di Pascal è dato dall’esigenza di soddisfazione di tutti i bisogni umani apparentemente più contraddittori; ma prigioniero di una società statica, quella del XVII secolo, non poteva percepirne la soluzione e perciò rimanda la soluzione di tutti i problemi nell’eternità di Dio, laddove invece Marx ha rivolto sull’avvenire terrestre l’esigenza pascaliana.

Il pensiero tragico si contenta di esigere l’incarnazione dei valori, il pensiero dialettico di realizzarla. L’ideale dello «honnête homme», dell’uomo senza limitazioni lesive della sua dignità, diventerà l’uomo «total» della società senza classi nel pensiero di Marx e persino la religione pascaliana è salvaguardata, non essendo altro che fede in un insieme di valori che trascendono l’individuo: «l’homme passe l’homme» poiché l’individuo trascende se stesso nella comunità (in verità Pascal scrive: «l’homme passe infinitement l’homme»).

Appare subito evidente che la pietra angolare che fa da base ad un sì vasto edificio e che ha tutta l’inconsistenza d’un’idea preconcetta e imposta a testi che la rifiutano violentemente, è questa: la via battuta da Pascal è quella della disperazione, dal momento che l’ignoranza umana si estende all’esistenza stessa di Dio e Pascal è troppo grande per far sua la posizione banale di quei cristiani che avendo coscienza dell’insufficienza del mondo trovano in un Dio che non risponde un appoggio comodo e sufficiente. Si capisce allora come il Goldmann si getti sul famoso «pari», sull’argomento della scommessa con la precisa volontà di sorprendere lo stesso Pascal nell’atto di «parier», non essendo la sua fede che il fideistico sbocco di una radicale incertezza.

In Italia già da parecchi anni Michele Federico Sciacca ha avuto il merito di dissipare la persistente, diffusa immagine che la letteratura romantica dell’Ottocento divulgò di un Pascal che per disperazione si abbandona alla fede: questo Pascal inesistente è evidentemente il comodo punto di partenza dell’interpretazione marxista. La prova del pari dimostra – osserva lo Sciacca – che l’ateismo è l’ipotesi proibita, ed è proibita perché razionalmente assurda.

Romano Guardini, nel suo magistrale, penetrante Pascal, dedica un ampio capitolo all’argomento della scommessa e prima di sviluppare il confronto, veramente illuminante, tra questo particolare passo dei Pensieri, la prova ontologica di Anselmo d’Aosta e il paradosso assoluto di Kierkegaard, avverte che l’argument du pari non rappresenta minimamente il fondamento della fede di Pascal, ma solo un serio tentativo per indurre i libertini e gli indifferenti, uomini che non vedono per alcuna parte una via a Dio, scettici incalliti alle cui possibili obiezioni si fa posto anticipatamente, a trasportare la situazione teorica del giudizio di fronte al problema dell’esistenza di Dio, nella situazione pratica del rischio di fronte alle possibilità del gioco d’azzardo. In base alla natura delle due grandezze che si contrappongono e all’importanza di ciò di cui si tratta si vede subito che il rapporto tra le une e le altre è pari al rapporto tra l’infinito e il nulla: dunque l’unica cosa ragionevole è il rischio in favore di Dio.

Il Blanchet suggerisce un’altra interpretazione in qualche punto diversa ma convergente con quelle dello Sciacca e del Guardini: il pari è una semplice tappa verso la fede da parte dell’ateo. Poiché le nostre facoltà di conoscenza sono viziate dal peccato, come l’incredulo diventerà sensibile alla forza delle prove della religione cristiana? Rinunciando ai piaceri che turbano il suo sguardo, umiliando il suo cuore che può a sua scelta aprirsi o indurirsi nei confronti di Dio, dominando la passionalità e l’irrazionale. Bisogna perciò scommettere («parier») per decidersi senza prove a quest’ascesa introduttiva all’esame stesso delle prove e per preparare la generosa disponibilità del cuore alla verità e alla grazia di Dio.

Ma tutto ciò non conta per il Goldmann fisso nella ricerca della assenza totale di Dio dal pensiero e dalla vita di Pascal, il cui tragico antinomismo è concepito come tappa verso la dialettica degli opposti di Hegel.

Ma il Memoriale non attesta forse, in una notte di fuoco, la presenza del Dio vivente in questa grande anima cristiana? E come giudicare le mirabili pagine sul Mystère de Jésus? Il Goldmann è intrepido e risolve ogni dubbio sottoponendo i due testi ad un… energico trattamento: il memoriale col suo grido di certezza e di gioia (Certitude. Certitude. Sentiment. Joie. Paix… Joie, joie, joie, pleurs de joie) non ha valore perché precede la scelta tragica di Pascal, da situarsi cinque anni prima della morte del suo autore; e la sublime espressione che Pascal pone in bocca al Cristo «Console-toi, tu ne me chercherais pas si tu ne m’avais trouvé (Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato)», frase intelligibile solamente al cristiano che crede alla grazia preveniente, va piuttosto intesa così: «se tu mi cerchi è perché non mi trovi», il che autorizza il Goldmann a rifiutare a Pascal «toute spiritualité».

Anche dal solo punto di vista del metodo, un libro che prende per titolo un’espressione biblica letta nei Pensieri «Dieu caché», «Deus absconditus» e non lo riferisce nel senso che ha nella Bibbia, non poteva intendere correttamente nemmeno le sfumature particolari che l’espressione assume in Pascal.

Basterebbe rileggere i mirabili frammenti 2 e 28 a confutazione dell’arbitraria tesi del Goldmann. Per Pascal non è vero che tutto riveli Dio e che tutto nasconda Dio. Ma è vero che Dio si nasconde a quelli che lo tentano e si rivela a quelli che lo cercano; perché gli uomini sono ad un tempo indegni di Dio e capaci di Dio: non appena l’uomo si fa peccatore, Dio si sottrae a lui e ciò è segno della sua verità e santità, non essendo di per sé l’incommensurabilità di Dio radicalmente estranea all’intima vita spirituale dell’uomo (si ricordi l’agostiniano «Deus, intimior intimo meo, superior summo meo»).

Si deve negare allora il tragico in Pascal? Affatto. Si tratta solo di ben situarlo. E qui le osservazioni del Blanchet ci sembrano assai calzanti.

Vi è una tragicità autenticamente pascaliana e cristiana che dà al peccato il posto e il peso che esso ha nei destini terreni ed eterni dell’uomo: sino alla fine dei tempi il tragico rinascerà col peccato ed è per questo che Gesù, il quale assume e guarisce il nostro peccato, sarà in agonia fino alla fine del mondo ed è per questo che «il ne faut pas dormir pendant ce temps-là (non si deve dormire durante quel tempo)»: la croce è conoscenza e guarigione della nostra miseria, instaurazione e abolizione di ciò che è autenticamente tragico.

Pascal ha descritto pure la tragica situazione dell’uomo che si priva di Dio: ma su questo punto le sue osservazioni hanno trovato in Fëdor Dostojevskji e nella letteratura esistenzialista una puntuale conferma e ciò avrebbe dovuto rendere più avvertito il Goldmann sull’assurda pretesa di veder soddisfatta da Marx l’inquietudine che Pascal scopre nell’uomo.

Pascal e le concezioni deiste

Come categoria mentale, cioè come modo di concepire Dio, il deismo è l’affermazione che una qualche causa del mondo ci deve pur essere, ma che non è affatto certo che tale causa sia un Dio personale, creatore, rivelatore, provvidenza e amore. In tal senso «deismo» è termine opposto a «teismo». Al deismo inteso come categoria dello spirito possono essere ricondotte alcune concezioni di Dio di pensatori che vissero in epoche diverse. Consideriamo le più tipiche.

Aristotele. La sua concezione di Dio è la più purificata di tutte quelle forniteci dal mondo antico, eppure è una concezione deista. Dio è Atto Puro, cioè l’attualità stessa dell’intelligenza; Pensiero di Pensiero, cioè chiuso in se stesso, senza rapporti con il mondo esterno; Primo Motore del mondo, ma Motore Immobile, perché esso attira verso la perfezione le cose del mondo come l’oggetto amato attira chi ama. Ma Dio non ama, egli è solo oggetto di amore, è fine. C’è quindi un rapporto ascendente dall’uomo a Dio, ma non un rapporto reciproco, e l’uomo resta solo nella sua angosciosa solitudine. Inoltre il Dio di Aristotele è condizionato da una materia esterna esistente indipendentemente da lui. Quindi non è Dio l’Assoluto, ma l’ordine cosmico che comprende in sé le cose tendenti verso Dio a realizzare se stesse, cioè la propria perfezione, e Dio che le attira passivamente a sé.

Rinascimento. È un periodo attraversato da un’aspirazione a una concezione deista della vita, aspirazione che si rivela nella ricerca di una «religione naturale». Però bisogna tenere presente che il Rinascimento non è esclusivamente deista, perché ci possono essere due concezioni di religione naturale. 1) La concezione di Cusano, Ficino, Campanella. Si sente l’esigenza di enucleare l’anima di verità presente in ogni religione. Questa parte di verità trova il suo sviluppo logico e il suo compimento soprannaturale nel cristianesimo. L’anima, infatti, aspira naturalmente a Dio, alla legge del Vangelo. La rivelazione poi viene incontro a un bisogno profondo dell’uomo aiutandolo a giungere là dove da solo non può arrivare. È falso quindi parlare di Cusano, Ficino, Campanella come deisti in quanto assertori della religione naturale, così come affermato dalla storiografia idealista. 2) La concezione deista. Tutte le religioni si equivalgono: vanno bene tutte, ma nessuna è vera. C’è solo una concezione astratta di una qualche causa ordinatrice del mondo. Ma non dobbiamo né possiamo cercare i rapporti tra le cose – e l’uomo in particolare – e questa causa. Questa sarà l’eredità raccolta dall’illuminismo.

Cartesio. Cattolico praticante, costruì una filosofia completamente staccata dalla rivelazione. Il suo, però, è un deismo opposto a quello di Aristotele. Per Aristotele Dio muove il mondo come termine di amore. Il Dio di Cartesio, invece, è causa del movimento iniziale del mondo, è il Dio che «dà la spintarella», «il gran geometra». Quindi è semmai infinito di potenza, non infinito d’amore. Il mondo è privo di ordine e di finalità, è solo espressione del movimento causato da Dio. Il Dio di Cartesio è un Dio «causa sui», è l’effetto di Dio, non l’Essere, la realtà di Dio. E si affaccia già l’ipotesi di un Dio causalità infinita di se stesso.

Illuminismo. In Francia si manifesta come negazione violenta del cristianesimo in Voltaire, il padre di tutti gli anticlericali, la fonte delle incomprensioni più grossolane. L’anima, il soprannaturale, la filosofia stessa sono superstizione. Ciò che vale è la scienza. Il fatto che Voltaire sia deista e i suoi seguaci atei dimostra come siano vicine e intimamente collegate le due forme di pensiero. Con Rousseau invece l’illuminismo assume l’aspetto di rivalutazione estetica e sentimentale del cristianesimo, che però viene svuotato di ogni contenuto soprannaturale. Rousseau ha trovato accenti bellissimi ed espressioni di grande ammirazione per il figlio di Dio, ma la sua figura è ridotta solo a una dimensione romantica; si valorizza Gesù, il biondo nazareno, per negare Cristo, il Verbo incarnato. Sia Voltaire che Rousseau hanno una base filosofica comune: il loro Dio è un Dio «spectateur», assente dalla storia del mondo, un Dio «liberale» per cui vale il «laisser faire laisser passer». In Inghilterra la concezione illuminista è espressa già nel titolo Cristianesimo non misterioso di Toland. La rivelazione non fa che rendere più chiara ed evidente all’uomo la legge morale impressa nella sua coscienza sin dalla creazione: tutti i vari misteri sono pura leggenda. In Germania l’illuminismo si manifesta nella forma datagli da Lessing: il cristianesimo, lungi dall’essere soprannaturale, è così profondamente razionale e ciò che oggi ci sembra rivelazione divina si chiarirà col tempo e con il progresso sarà accettato come semplice verità di ragione.

A tutti costoro si oppone con le sue affermazioni categoriche il genio di Pascal. Chi si ferma alla natura cade nel deismo, ma non trovando in un Dio assente la luce e la vita che lo soddisfi, finisce nell’ateismo. Il deismo è la religione accomodante del borghese, ma il dio borghese è troppo comodo: non ci dice nulla e ci lascia vivere in una tranquilla mediocrità senza grandi peccati né grandi eroismi. Non si tratta più di una scelta fra il tutto e il nulla, comportante adorazione, dedizione, sacrificio, amore di un Dio che riempie il cuore e l’anima di coloro che si lasciano possedere. Coloro che cercano Dio al di fuori di Cristo pretendono di fare da rivelatori di Dio agli uomini, ma non sono che autolatri. La rivelazione di Dio è da Dio, perché Dio è infinitamente al di sopra della nostra natura. Quindi se possiamo unirci a Dio è per grazia e non per natura.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.